Una delle dottrine cosmologiche di Aristotele che i filosofi medievali discutono più precocemente è quella dell’eternità del mondo, ritenuta incompatibile con la fede cristiana, che insegna non solo che esso è creato da Dio, ma che viene creato “all’inizio dei tempi”. In questo contesto, vale la pena di soffermarsi su due caratteristiche del cosmo aristotelico, l’unicità e la finitezza. Diversamente dall’eternità, esse sono in perfetta armonia con la rivelazione cristiana, almeno nella versione fortemente antropocentrica che ne danno la maggior parte dei pensatori scolastici. È quindi estremamente significativo che essi abbiano ciononostante messo subito in discussione gli argomenti tramite i quali il filosofo greco aveva cercato di dimostrare anche quelle caratteristiche, criticando in particolare quello presentato nel De caelo secondo cui l’esistenza di più mondi è inammissibile perché il mondo attuale già contiene tutta la materia reale e possibile. Non volendo limitare l’inesauribile fecondità del Creatore, già intorno al 1250 il teologo domenicano Pietro di Tarantasia (futuro papa Innocenzo V) nel suo Commento alle Sentenze sostiene che “Dio poté, e ancora può fare un universo oltre a questo, cioè un altro mondo, e infiniti mondi, sia dello stesso sia di altro genere” (In Sent., I,44,5, ed. Tolosa 1652, I, p. 366). Questa presa di posizione – che si ritrova in molti altri teologi coevi – nasce da preoccupazioni di natura strettamente religiosa. Pietro e i suoi colleghi mirano solo a salvaguardare la libertà e l’onnipotenza di Dio, garantendogli la teorica possibilità di creare un universo più grande e complesso di quello concepito da Aristotele; essi restano però convinti che egli abbia di fatto prodotto un solo mondo, finito, abitato da quella creatura – l’uomo – cui credono sia esclusivamente destinato.
Va quindi sottolineato che le riflessioni sulla pluralità dei mondi sviluppate fra XIII e XIV secolo non conducono mai a una reale apertura del mondo chiuso aristotelico, ma solo a ipotizzare la possibile esistenza di molteplici sistemi cosmici, indipendenti l’uno dall’altro: prendere in considerazione l’ipotesi che Dio avrebbe potuto aumentare o diminuire le dimensioni del nostro mondo, creare corpi fuori di esso, muovere questi corpi, produrre altri mondi – pur ribadendo che “naturalmente” ne esiste solo uno – costringe a ripensare alcuni dei concetti e dei principi sui quali poggiano la fisica e la cosmologia aristotelica, in particolare la concezione dello spazio e la dottrina dei luoghi naturali.
Un’obiezione mossa da Aristotele all’esistenza di altri mondi faceva leva sull’idea che i loro elementi tenderebbero anche verso il luogo naturale del nostro mondo, e quindi avrebbero assurdamente due moti naturali contrari. Pietro di Tarantasia è tra i primi a controbattere che in realtà gli elementi di ogni eventuale mondo sarebbero ordinati all’interno di quel mondo, e questa risposta diviene classica: “se Dio creasse un mondo oltre a questo – scrive ancora Nicola Oresme nel Livre du ciel et du monde (1377) – gli elementi di un altro mondo si comporterebbero, al suo interno, come gli elementi di questo mondo si comportano in questo”. Ciò significa abbandonare il principio secondo cui ogni elemento semplice deve necessariamente tendere verso un luogo identico, con conseguenze assai notevoli: il compiersi del moto naturale di un corpo viene subordinato a un condizionamento accidentale quale l’“attrazione” da parte del sistema cosmico più vicino; la distanza dal suo luogo naturale acquista una rilevanza assente nell’originario pensiero di Aristotele; le dimensioni spaziali perdono quel valore assoluto che Aristotele aveva loro attribuito. Nel XIV secolo, pensatori come Ockham e Oresme dichiareranno espressamente che la distinzione fra “alto” e “basso” ha un valore puramente relativo e va ridefinita in rapporto alla coppia di termini “leggero” e “pesante”: “alto e basso – scriveva Oresme – non indicano altro che l’ordine naturale delle cose pesanti e leggere, secondo il quale tutti i corpi pesanti sono, per quanto è possibile, in mezzo ai corpi leggeri”.
Il dibattito sulla pluralità dei mondi contribuisce inoltre a tenere viva la discussione sulla nozione aristotelica di spazio come superficie materiale che circonda immediatamente un corpo e permette di giudicare del suo movimento o della sua immobilità. Tale nozione solleva sin dall’antichità non poche difficoltà interpretative e teoriche: è sensato chiedersi dove sta il mondo o bisogna accontentarsi della risposta di Aristotele che “fuori” di esso non c’è “né luogo, né vuoto, né tempo” (De caelo, 279a 17-18)? Che cosa accadrebbe se un uomo, spinto agli estremi confini del cielo, stendesse un braccio? E se l’ultima sfera celeste contiene ogni cosa ma non è contenuta da nulla, come può muoversi? A questi interrogativi se ne affiancano altri, dipendenti dal contesto teologico nel quale gli autori tardomedievali pensano anche la nozione di spazio: se si accetta l’idea, risalente ad Agostino, che la creazione del mondo non avviene nello ma con lo spazio (come non avviene nel ma con il tempo), non cade una delle principali obiezioni formulate da Aristotele contro l’esistenza di più mondi, cioè che essa presupporrebbe uno spazio vuoto tra un mondo e l’altro? In che misura è valido il principio, difeso da Aristotele nel quarto libro della Fisica, che la natura aborrisce il vuoto? Dio non potrebbe, con la sua infinita potenza, produrre il vuoto all’interno e all’esterno del cosmo?
Riflettendo su questi problemi alla luce di una molteplicità di fonti (la Bibbia, Agostino, la tradizione ermetica, gli articoli condannati nel 1277 ecc.), il teologo inglese Thomas Bradwardine, intorno alla metà del XIV secolo, giunge a elaborare un’originale concezione dello spazio come manifestazione dell’ubiquità e dell’onnipresenza di un Dio dotato di grandezza “infinitamente estesa in modo non estensivo e non dimensionale”. L’idea è quella di uno spazio “immaginario” preesistente all’azione creatrice, eterno e increato ma privo di qualsiasi consistenza ontologica, “una semplice dimensione corporea separata dalle forme naturali, una sorta di corpo matematico, o la stessa sola quantità separata dalle altre realtà fisiche” (De causa Dei, I,5). Ripreso da altri teologi, questo embrionale concetto di spazio assoluto viene consacrato all’interno di un testo “scientifico” da Oresme che, nel capitolo del Livre du ciel et du monde (I,24) dedicato al tema della pluralità dei mondi, scrive che l’intelletto umano “naturalmente acconsente all’idea che fuori del cielo e del mondo, che non è infinito, esista uno spazio, quale ne sia la natura; né è possibile facilmente concepire il contrario”. Giudicata contro-intuitiva, la posizione aristotelica viene completamente capovolta: malgrado anche Oresme insista sul suo carattere puramente “immaginario”, lo “spazio vuoto incorporeo” che Aristotele aveva bandito dalla sua cosmologia torna a essere una componente irrinunciabile del “sistema del mondo”.
Aristotele aveva istituito una distinzione netta fra la quiete, concepita come uno stato, e il movimento, considerato come il processo che conduce un ente ad attualizzare le sue potenzialità. Poiché ogni processo necessita di una causa, Aristotele ne deduce che il movimento presupponga sempre l’intervento di un motore: nel primo capitolo del settimo libro della Fisica egli enuncia quindi il fondamentale principio che tutto ciò che si muove è mosso da qualcosa. Aristotele individua facilmente il motore dei moti che chiama naturali in un principio intrinseco, rappresentato per i corpi inanimati dalla loro tendenza verso il luogo naturale, per i viventi dall’anima; ritiene invece che i moti violenti debbano avere un motore esterno, la cui azione perdura solo finché esso resta in contatto con il mobile. Ma questa ipotesi rende inesplicabile uno dei tipi più comuni di moto violento, quello dei proiettili: perché i sassi continuano a muoversi dopo essersi staccati dalla mano che li scaglia? Aristotele suppone che il motore (la mano) comunichi al mezzo (in questo caso l’aria) il potere di trasportare il mobile. Obiezioni empiriche a questa soluzione circolano sin dalla tarda antichità: se il proiettile è mantenuto in movimento dal mezzo, perché non basta agitare violentemente l’aria o l’acqua dietro di esso? perché due corpi che si scontrano in aria deviano, mentre due corpi che si sfiorano mantengono la loro traiettoria? e perché si può scagliare più lontano un corpo pesante di uno leggerissimo? Riportate queste obiezioni, nel suo commento alla FisicaGiovanni Filopono (?-570 ca.) sostiene che il mezzo, lungi dal garantire la continuazione del moto esercita piuttosto una resistenza, e che quindi bisogna immaginare “che una certa potenza motrice immateriale sia impartita dal proiciente al proietto”.
Ripresa da numerosi pensatori islamici, discussa da alcuni commentatori latini di Aristotele sin dagli inizi del XIII secolo, quest’idea si diffonde nel corso del secolo successivo. Il francescano Francesco della Marchia, in un testo teologico del 1323, avanza l’ipotesi che i proietti permangono in moto perché assorbono dal motore “l’impulso di una forza residua”. La natura di questa forza viene definita in modo più preciso da Giovanni Buridano, che insegna lungamente alla Facoltà delle Arti di Parigi dando un decisivo contributo allo sviluppo della cosiddetta “nuova fisica” del Trecento. Nelle sue questioni sulla Fisica e sul De caelo egli offre un’organica spiegazione dei moti violenti, basata sulla tesi che essi continuano perché il motore imprime al mosso uno “slancio”, o impetus, che agisce finché non prevalgono forze contrarie come la resistenza e la tendenza del corpo verso il suo luogo naturale. Rispetto ai precedenti greci, islamici e latini, la teoria dell’impetus di Buridano segna un notevole progresso e offre almeno due importanti vantaggi.
TESTO
T7: Giovanni Buridano, La teoria dell’impetus
In primo luogo, pur senza essere formalizzata in termini matematici, essa determina l’impetus in funzione della velocità e della quantità di materia contenuta nel corpo in movimento, permettendo di spiegare fenomeni quotidiani di cui Aristotele non sa dar ragione (perché si può lanciare più lontano un sasso di una piuma; perché è faticoso arrestare il moto di una grossa mola o di una nave; perché per fare un lungo salto si deve prendere la rincorsa). In secondo luogo, essa viene estesa a una molteplicità di fenomeni, e in particolare all’accelerazione di gravità e alla rotazione dei corpi celesti. Aristotele aveva pensato che l’aumento della velocità di un corpo in caduta libera dipenda dalla maggiore vicinanza al luogo naturale, mentre molti suoi seguaci, nel medioevo, ritengono che ciò derivi invece dal fatto che, in prossimità del suolo, la resistenza dell’aria è minore. Respinte entrambe le soluzioni, Buridano propone invece di spiegare l’accelerazione dei gravi con lo “slancio acquisito”, che gradatamente viene a sommarsi alla gravità naturale. Inoltre, Buridano suggerisce che, dopo averle create, Dio abbia impresso alle sfere celesti una “spinta” che, in assenza di resistenza, non sarebbe stata “indebolita o distrutta con il passare del tempo”: in tal modo le intelligenze motrici dei corpi celesti – essenziali alla tradizionale concezione aristotelica del mondo – finiscono per diventare superflue. Pur non spingendosi a rifiutare la distinzione fra l’imperfetto mondo sublunare e l’incorruttibile mondo superlunare, Buridano lascia così intuire una possibile unificazione fra la meccanica terrestre e la meccanica celeste. Proprio per le sue notevoli potenzialità esplicative, la teoria dell’impetus conosce un grande successo e viene largamente accettata dal XIV al XVI secolo.
Grande influenza, nella prima metà del Trecento, ha un’originale tradizione di ricerca, abitualmente definita “mertoniana” perché elaborata da pensatori inglesi legati al Merton College di Oxford come Walter Burley, Thomas Bradwardine, Richard Swineshead (detto il Calculator) e William Heytesbury. Avvalendosi di sofisticati strumenti logici, semantici e matematici, essi propongono raffinate analisi dei concetti di “movimento”, “istante”, “inizio”, “fine” e sviluppano particolari “linguaggi di misura”: il linguaggio dei rapporti; i linguaggi dell’infinito, del continuo e dei limiti; il linguaggio dell’incremento e del decremento delle qualità.
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La teoria dell’impetus
Un ruolo di primo piano viene giocato da Bradwardine, che compone nel 1328 un Tractatus proportionum seu de proportionibus velocitatum in motibus nel quale, rifacendosi al modello di Euclide, delinea una teoria generale dei rapporti matematici, poi applicata, a scopo esemplificativo, ai rapporti fra velocità, forza e resistenza. Il pensatore inglese giunge a formulare quella che sarà definita “legge di Bradwardine” e che costituisce un’importante conquista sia dal punto di vista dei contenuti sia per la tecnica algebrica adottata: “la proporzione della velocità nei moti segue la proporzione della potenza del motore alla potenza della cosa mossa”, cioè la velocità cresce aritmeticamente in corrispondenza dell’accrescimento geometrico del rapporto fra forza e resistenza. In altri termini, per raddoppiare la velocità di un corpo in moto, non è sufficiente raddoppiare la forza o dimezzare la resistenza; è necessario elevare al quadrato il rapporto fra forza e resistenza.
Ispirandosi alle idee e alla metodologia di Bradwardine, nelle Regulae solvendi sophismata (1355) Heytesbury propone uno dei più notevoli contributi al sapere scientifico della tradizione “mertoniana”: il cosiddetto “teorema della velocità media”. Benché Aristotele asserisca che quantità e qualità siano come categorie distinte, numerosi pensatori scolastici ritengono che il cambiamento di intensità di una qualità non possa essere concepito come la perdita di un attributo (ad esempio di un certo grado di calore) e l’acquisizione di un altro attributo (di un diverso grado di calore), e cercano di descrivere come vari l’intensità (intensio) di una stessa qualità in rapporto a un’altra forma invariabile, detta extensio, come lo spazio, il tempo o la quantità di materia. Si arriva così a distinguere fra variazioni “uniformi” e variazioni “difformi”, a loro volta distinte fra “uniformemente difformi” e “difformemente difformi”. Ciò permette di stabilire un’importante regola di equivalenza fra variazioni “uniformi” e “uniformemente difformi”: applicata al caso del moto locale, essa stabilisce che un corpo che acceleri o deceleri in modo uniforme percorre, in un determinato periodo di tempo, una distanza uguale a quella che avrebbe percorso muovendosi, per lo stesso tempo, con una velocità pari a quella raggiunta nell’istante di mezzo.
Fra le ipotesi discusse dai filosofi naturali del XIV secolo, una delle più interessanti è quella della rotazione giornaliera della Terra intorno al suo asse. Benché anche in questo caso essi non si spingano a rovesciare la convinzione che, di fatto, la Terra stia immobile al centro dell’universo, il loro esame degli argomenti portati da Aristotele e da Tolomeo contro il moto terrestre rappresenta una delle conquiste teoriche più brillanti della cosiddetta “nuova fisica” parigina.
Buridano e Oresme, che danno le trattazioni più complete della questione, si sbarazzano facilmente degli argomenti osservativi a favore dell’immobilità della Terra, sottolineando l’incertezza della percezione del movimento. Sia Buridano sia Oresme ricorrono all’esempio dell’uomo che, non sapendo che la nave su cui si trova è in moto, considera reale il moto apparente di un’altra nave, ferma all’àncora. Analogamente – essi sottolineano – un osservatore collocato sulla Terra non ha alcuno strumento per stabilire se il sorgere e il tramontare dei pianeti e delle stelle derivi dalla rotazione di questi ultimi o da quella della Terra.
Buridano ritiene però che, se gli argomenti astronomici contro il moto terrestre non sono validi, uno di quelli fisici fosse “più dimostrativo”. Si tratta del cosiddetto “argomento della freccia”, risalente anch’esso ad Aristotele e sviluppato da Tolomeo: se il passeggero di una nave in moto scagliasse una freccia a perpendicolo, essa ricadrebbe a poppa, o addirittura dietro la nave; analogamente, se la Terra davvero ruotasse da ovest a est un proiettile lanciato verticalmente verso l’alto non dovrebbe ricadere nel punto di partenza, come di fatto avviene, ma tanto più a ovest quanto più a lungo fosse rimasto in volo.
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Lo sviluppo della navigazione e le scoperte geografiche
Oresme, da parte sua, afferma che l’ipotesi della rotazione terrestre non è affatto assurda, ma anzi presenta numerosi vantaggi di ordine filosofico, primo fra tutti quello di offrire un’immagine più semplice e armoniosa dell’universo. Assumendo quest’ipotesi, infatti, si possono facilmente eliminare alcune delle maggiori complicazioni del sistema geostatico. Essendo non solo un grande matematico e filosofo naturale, ma anche un teologo e un vescovo, Oresme non manca di considerare gli argomenti scritturali contro il moto terrestre, ossia quei passi della Bibbia che sembrano affermare che la Terra è immobile e il Sole le ruota intorno. Applicando due secoli ed mezzo prima di Galileo il “principio di accomodazione” al dibattito sul moto della Terra, Oresme sostiene che le Sacre Scritture si conformano alla mentalità del tempo in cui furono redatte e non vanno quindi prese sempre alla lettera. Ma perché allora egli conclude la sua sottile analisi dichiarando di credere, come “tutti”, nell’immobilità della Terra, e portando a conferma proprio un’affermazione dei Salmi? Oresme stesso dichiara di aver affrontato il problema “per amore di discussione” e “per confutare coloro che volessero impugnare la fede per via di ragioni” (Le livre du ciel, II,25). Oresme è consapevole che i suoi argomenti a favore del moto della Terra erano “probabili”, ma non necessari; inoltre, come tanti suoi contemporanei, egli non è tanto interessato a stabilire quale di esse sia vera, ma a saggiare la validità delle ragioni che la tradizione aveva accumulato a favore di ciascuna di esse.
LETTURE
Il dibattito sull’infinito nel XIII e XIV secolo