III

Per giorni la colonna di cavalieri romani e ausiliari germanici avanzò attraverso i boschi e le paludi ben noti ai due giovani figli di Sigmer. Armin e Wulf procedevano a cavallo al centro della squadra che li scortava. Il padre aveva fatto recapitare loro vesti e calzature prima della partenza perché avessero un aspetto degno del loro rango di principi della stirpe dei Cherusci, ma anche perché potessero affrontare luoghi impervi coperti di neve e battuti da venti gelidi. Solo le armi non erano state ammesse. Qualcuno aveva già fatto esperienza di quanto i due ragazzi fossero abili nel loro uso.

A ogni calar del sole i soldati romani e gli ausiliari germanici piantavano le tende e il centurione Tauro dava disposizione agli esploratori di perlustrare il territorio tutto attorno per accertarsi che non vi fossero minacce o pericoli.

Per il posizionamento del campo preferiva sempre un qualche rialzo del terreno che permettesse una migliore visuale delle aree circostanti e mandava sempre in avanscoperta gruppi misti di romani e cavalieri germanici, per lo più Hermundur, Catti e Cherusci. Questi ultimi facilmente riconoscibili.

Wulf, una volta, si rivolse al fratello: «Come fa Tauro a fidarsi di questi che parlano la nostra lingua? Se volessero, potrebbero liberarci con facilità e riportarci da nostro padre, che pagherebbe un ottimo riscatto».

«Non ne sarei troppo sicuro» rispose Armin. «Se fosse così facile lo avrebbero già fatto.»

«Che cosa vuoi dire?»

«Tauro parla abbastanza bene la nostra lingua, e ne capisce altre della nostra terra; sa esattamente dove ci troviamo ogni volta che ci fermiamo. Hai mai notato quella cosa che porta alla cintura in quell’astuccio di cuoio?»

«Sì, è un rotolo di pelle, direi. Lo srotola e lo arrotola di nuovo dopo che l’ha guardato.»

«Infatti. Quel rotolo è una tabula

«Che significa?»

«È latino, indica una rappresentazione della terra con i monti, i fiumi, i laghi, le distanze fra un posto e l’altro. E quando Tauro si muove nel nostro territorio conosce anche dove stanno i presidi delle legioni, i reparti della cavalleria e a che distanza da noi. E misura il tempo e l’ora del giorno con grande precisione. Fa anche dei segnali luminosi con una lastra di metallo lucidata. I nostri ausiliari germanici non vogliono correre rischi.»

«E quindi non faremo nulla per riconquistare la libertà?» domandò Wulf.

«Non ho detto questo. La libertà è il nostro bene più prezioso e non vorrei perderla per nulla al mondo, ma dobbiamo aspettare il momento opportuno.»

Wulf non disse nulla. Se Armin, che dei due era il più selvaggio, suggeriva di pazientare, a maggior ragione avrebbe dovuto essere prudente lui, che aveva dubbi sulla possibilità di una fuga.

Al quinto giorno di marcia arrivarono alla base di altissime montagne coperte di neve, e Tauro disse che in quel luogo il Reno e il Danubio, i più grandi fiumi della terra, avevano le loro sorgenti: il Reno si dirigeva a settentrione verso l’Oceano, il Danubio andava verso oriente a riempire un mare chiuso che si chiamava Pontus. Stavano procedendo su una delle strade che non si fermano mai e fecero sosta per la notte in un luogo dove c’erano una casa di pietra, un pozzo per attingere acqua e una stalla per i cavalli e i muli.

«Che cos’è questo posto?» domandò Wulf a uno degli ausiliari germanici. Il guerriero hermundur non disse nulla. Tauro si intromise: «Gli ausiliari germanici non sono autorizzati a parlare con voi. Questa è una mansio, una stazione di sosta. C’è una taverna che serve pasti caldi, birra per i barbari e vino decente per noi, ci sono camere da letto, un bagno con acqua calda a pagamento, latrine con acqua corrente e soldati di guardia. Ce n’è una ogni venti miglia su tutte le nostre strade». I due ragazzi si guardarono in faccia: un luogo simile non l’avevano mai visto in tutta la terra dei Cherusci e questi ne avevano uno ogni venti miglia.

Si sentiva profumo di arrosto, usciva fumo dal comignolo, parecchi schiavi, uomini e donne, si affaccendavano ad accendere le lanterne, a portare legna, a infornare pane, a portare un grande orcio di vino da una camera sotto terra.

Stava sorgendo la luna piena e le montagne coperte di neve si stagliavano spettrali contro il cielo blu che sfumava in turchese attorno al disco argenteo. Solo poche costellazioni resistevano allo splendore lunare e sembravano monili sospesi da una dea nel firmamento. Dai primi contrafforti si ergevano le rupi nude e scabre, pilastri della notte.

«Grande Thor...» disse Wulf sottovoce. «Non ho mai visto niente di simile.»

«A che pensi?» domandò Armin.

«Penso che... penso che se fossimo rimasti nel nostro borgo non avremmo visto la strada che non si ferma mai, né i monti di ghiaccio, né la luna che li fa risplendere come argento.»

«Anche noi abbiamo la luna che fa risplendere i fiumi e si specchia nei laghi... stai forse cercando di dimenticare la nostra terra?»

«Sto cercando di soffrire di meno. È forse un male?»

«Ti stai rassegnando alla prigionia? Un guerriero impara a soffrire senza maledire la sorte e senza lamenti. Stringe i denti e inghiotte il pianto.»

«Non abbiamo neppure salutato nostra madre.»

«Meglio. Si sarebbe messa a piangere.»

Tauro si avvicinò battendo la sua verga di vite sul palmo della mano: «Che avete tanto da parlare voi due?».

«Non sapevo che fosse proibito» rispose Wulf. «Dalle nostre parti i fratelli a volte si parlano, altre volte fanno a pugni o si mordono le orecchie l’un l’altro. Noi per ora parliamo. Più tardi non si sa.»

«Non fare il furbo, se non vuoi assaggiare questa. E adesso entrate, che è ora di cena. Poi a dormire. Domani si parte prima dell’alba.»

Entrarono. Il vento settentrionale portava dentro odore di stalla e di fieno muffito, ma bastava affacciarsi alla porta del recinto e tutto cambiava: i profumi della montagna con i suoi fiori si mescolavano in un’armonia che ricordava loro il paese da cui provenivano. Oltre a ciò, l’aroma della carne arrostita con il profumo del pino mugo ricordava loro di essere degli adolescenti affamati.

«Ti piace il pane?» domandò Armin.

«Lo trovo un cibo meraviglioso» rispose Wulf. «Lo mangerei tutti i giorni. Non mi stanco mai perché è buono qualunque sia il cibo che gli accompagni. Se trovassi i semi mi piacerebbe piantare il grano, ma temo che da noi il tempo sia troppo umido e troppo piovoso.»

Armin cambiò bruscamente argomento e indicò una delle rupi che torreggiavano una accanto all’altra prima delle cime innevate: «Ho visto un passaggio lassù dove s’innalza la grande guglia a forma di corno, forse un sentiero nascosto. Sai che ho la vista buona».

Wulf scosse il capo: «Non voglio sentire. Avevi detto che dovevamo attendere».

«Abbiamo atteso abbastanza. Tauro e gli ausiliari germanici con i loro cavalli sono troppo grossi e pesanti per inseguirci lassù. I muli troppo carichi. Ci basta un poco di cibo da mettere nella bisaccia e abiti caldi, niente di più. Quando avranno smesso di cercarci torneremo giù e in poco tempo raggiungeremo casa.»

«E nostro padre ci manderà indietro a calci nel sedere. Non può permettersi una guerra con i Romani.»

«Non lo farà.»

«Se ne sei così sicuro, vai tu. Io non me la sento.»

«Quando eravamo piccoli abbiamo giurato di non separarci mai.»

«Ho cambiato idea.»

«Bene. Andrò da solo.»

«Ceniamo insieme almeno?» Wulf lo disse con un sorriso ironico.

Anche Armin sorrise: «Abbiamo giurato, no?».

Si sedettero all’interno della taverna dove già si erano accomodati il centurione Tauro e il capo degli ausiliari germanici, un gigante di oltre sei piedi di altezza con un paio di folti baffi biondi. Armato di una lunga spada, l’appoggiò fragorosamente sul tavolo con l’evidente intenzione di far trasalire Armin e Wulf seduti di fronte a lui, uno di fianco all’altro. Nessuno dei due fece una mossa: Armin lo fissò dritto negli occhi con un’espressione di sfida. «Ma che bei ragazzi!» ghignò il guerriero. «Dove andate di bello?»

«Ci è vietato parlare con la servitù» disse Armin. Wulf questa volta trasalì. Il gigante si alzò, impugnò a due mani la grande spada e la sollevò ruggendo come se volesse tagliare in due Armin. Tauro si volse latrando un ordine in latino, ma la spada era già calata. La lama si fermò a un dito dalla testa del ragazzo che non batté ciglio né distolse lo sguardo dagli occhi del colosso.

Tauro gli si parò dinnanzi, le vene del collo gonfie d’ira.

«Mi ha offeso!» gridò il capo germanico.

«È un ragazzo» rispose il centurione, «fattela con quelli grossi come te, se hai voglia di menare le mani.»

«L’ho detto» ribatté Armin, «è un servo.»

Il gigante, che si era incamminato per uscire dalla taverna, tornò sui suoi passi brandendo di nuovo la spada e calò un fendente formidabile fra i due ragazzi tagliando a metà il massiccio tavolo di abete. I piatti con le vivande, le coppe di vino e i boccali di birra caddero al suolo lordando il pavimento.

Nella confusione nessuno fece caso ad Armin. Quando fu tornata la calma aveva già guadagnato la stanza da letto assieme a Wulf.

Si sdraiarono uno di fianco all’altro su due letti e lì rimasero ad ascoltare i rumori che venivano dal piano terreno e dal bosco che circondava la mansio.

Poco tempo dopo, il respiro pesante di Wulf lasciava intendere che il ragazzo si fosse addormentato profondamente.

Armin lo scosse: «Non vorrai metterti a dormire proprio ora?»

«Fratello, ti ho detto che il tuo piano di fuga non mi interessa. È una follia e una stupidaggine. Riposiamo: domani ci attendono una levataccia e un’altra lunghissima marcia.»

«Aspetta» rispose Armin. «Guarda.» Prese la lucerna, alzò la fiamma e stese qualcosa sul pavimento: la tabula di Tauro. «Ho approfittato della rissa e della confusione per impadronirmene.»

Wulf capì quello che era successo: «Diciamo che la confusione l’hai causata tu provocando quel cinghiale con i baffi gialli».

«Qualcosa del genere. Con questa non ci perderemo e se partiremo adesso non ci troveranno mai. Il nostro sentiero è segnato qua, vedi? È questo filo rosso che passa attraverso le montagne. Quando si accorgeranno della nostra assenza saremo già ai piedi della rupe a forma di corno: fin lì non c’è neve e quindi non lasceremo tracce. La luna piena e il riflesso delle nevi ci permetteranno di camminare senza difficoltà. Staremo nascosti lassù finché i Romani e gli ausiliari germanici non smetteranno di cercarci. Allora scenderemo dall’altra parte del corno e fra tre giorni saremo a casa.»

«Se fosse così facile ti seguirei» disse Wulf, «ma queste cose vanno a finire bene soltanto nelle favole.»

Armin sospirò: «Fa’ come vuoi, andrò da solo». Poi gettò un’occhiata alla lucerna: «Se puoi, dammi una mano facendo un po’ di trambusto. Qui, sotto la finestra, c’è della paglia per i muli e del fieno per i cavalli... Conta fino a quindici poi gettaci su la lanterna: attirerai i vigili di guardia e io sparirò dall’altra parte. Addio, fratello!»

«Addio» rispose Wulf a bassa voce.

Armin indossò i panni e gli stivali pesanti e saltò sopra il mucchio di fieno tra un passaggio e l’altro dei guardiani. Wulf si mise a contare e intanto sbirciava dalla finestra. Armin si era alzato in piedi e correva rasente alla stalla finché non scomparve dietro l’angolo.

«Sette... otto... nove» contava Wulf e intanto si pentiva a ogni numero di non aver seguito il fratello. Lo vide ricomparire dall’altra parte della stalla – «Dieci... undici... dodici» – e arrampicarsi sul muro di cinta fino alla sommità. «Tredici... quattordici... quindici...» Wulf gettò la lanterna sul fieno, che divampò. Armin si appiattì sulle tegole di copertura per non farsi vedere. Il riverbero del fuoco già lo investiva e grida di allarme risuonavano per tutto il cortile. I nitriti e lo scalpitare di cavalli e muli spaventati aumentavano il clima di confusione e di paura.

Tauro, i suoi legionari e gli ausiliari germanici erano già all’opera e facevano una catena dal pozzo passandosi i secchi colmi d’acqua da un lato all’altro del cortile fino alla base della mansio dove ardeva il fuoco. Il vento portava nubi di faville verso la stalla.

Wulf si era vestito a sua volta e aveva riempito la sacca con il cibo avanzato che si erano portati in camera. Uscì nel corridoio e lo percorse veloce da un capo all’altro. Il rumore di calzari ferrati lungo la scala di legno non prometteva niente di buono. Aprì la finestra, si gettò con un balzo fra i rami di una quercia centenaria e si acquattò per un momento tra le fronde finché i soldati che si erano affacciati a guardare non furono rientrati. Percorse allora un ramo che si protendeva verso il muro di cinta finché non fu abbastanza vicino da spiccare un altro balzo fino alla tettoia di tegole che lo copriva. Si lasciò cadere dall’altra parte e si mise subito a correre più veloce che poteva in direzione della montagna, voltandosi di tanto in tanto a spiare la mansio, che prima riverberava il riflesso di un incendio e poi una luce rossastra sempre più fioca. Presto il suolo sarebbe rimbombato del galoppo dei cavalieri germanici e il vento gli avrebbe portato il tinnire delle armi dei cavalieri romani guidati da Tauro furibondo.

«Armin! Armiiin!» gridò, cercando di superare il sibilo del vento. A un tratto crollò al suolo e rotolò fin quasi sull’orlo del sentiero roccioso.

La voce di suo fratello risuonò secca e vicina: «Idiota. Seguimi».

Si rialzò indolenzito. «Mi hai fatto lo sgambetto!»

«Era l’unico modo di fermarti. Sbrigati, adesso!»

Wulf si affiancò ad Armin di corsa.

«Ci stanno inseguendo, ci saranno addosso fra poco» urlò ansimando, «forse avrei dovuto contare fino a trenta.»

«Corri e non dire stupidaggini» lo interruppe Armin. «Lassù da quella parte il sentiero si stacca dalla strada. I cavalli non potranno correrci dietro se riusciamo a raggiungerlo.»

«Pensi che ci abbiano visti?»

«Con questa luna? Puoi esserne certo.»

Il sentiero tagliato nella roccia della grande rupe del Corno biancheggiava nella luce lunare e i due giovani correvano in salita con tutte le loro energie. Armin si voltava indietro di tanto in tanto per vedere dove fossero e cosa facessero gli inseguitori.

Il cuore che gli batteva furioso in gola sembrò arrestarsi d’un tratto quando vide che un gruppo di frombolieri si era arrampicato sul fianco della rupe e, dopo aver caricato le fionde, le faceva roteare con un rombo sordo. Una ghianda di piombo colpì il suolo roccioso a poche spanne dal suo piede.

«Attento!» gridò ancora Armin al fratello, che non si era accorto del pericolo e cercava di raggiungerlo più veloce che poteva ma allo scoperto. Nello stesso istante un’altra ghianda colpì Wulf al poplite e lo fece stramazzare.

Un dolore acuto gli aveva fatto perdere la percezione dello spazio e, mentre cercava di raggiungere la base della rupe, non si accorgeva che strisciava invece verso il precipizio. Una gragnuola di ghiande impediva ad Armin di abbandonare il suo riparo a ridosso della rupe, ma vedendo che Wulf scivolava sempre più verso il burrone attese che i lanci si diradassero e si avvicinò strisciando al fratello che era stato colpito nuovamente alla schiena e non aveva più alcun controllo dei suoi movimenti. Lo afferrò per una mano un attimo prima che precipitasse nel baratro.

Un ordine secco risuonò dal basso e la gragnuola di pietre si arrestò. Armin si volse e vide il centurione Tauro in piedi a gambe larghe davanti a lui.

«Aiutami...» riuscì a rantolare.

«Sei stato tu a trascinare tuo fratello in questo pericolo: ora è tua la responsabilità della sua vita.»

Armin si rese conto che Tauro non avrebbe mosso un dito e con tutte le forze cercò di trarre in salvo il fratello e di non farsi trascinare in basso dal suo peso. Tirò stringendo i denti e ignorando i crampi che gli straziavano i muscoli.

Il cuore sembrò scoppiargli per lo sforzo quando avvertì finalmente che il corpo di Wulf non rischiava più di precipitare, lo sentì vicino e si accasciò quasi esanime su di lui come per fargli scudo. Affondò nel buio.

Un freddo pungente gli fece riprendere conoscenza e si rese conto di essere seminudo e legato a due picchetti di ferro piantati nella roccia. Wulf era fuori dalla sua vista.

Echeggiò vicina la risata di Tauro: «Sembri Prometeo inchiodato alla rupe del Caucaso!». Il centurione si batteva ritmicamente la verga di vite sul palmo della mano sinistra, aspra e callosa.

«Gli errori si pagano» disse con una voce più fredda e tagliente del vento. Il primo colpo si abbatté sulla pelle nuda del ragazzo, lacerandola fino al muscolo. Poi seguirono il secondo e il terzo. Armin aveva assaggiato più volte lo scudiscio di suo padre, ma la verga di vite era ben più ruvida, scabra e crudele. Strinse i denti come era solito fare e il centurione Tauro udì soltanto mugolii sordi, repressi.

Armin si svegliò nel suo letto, la camera rischiarata da una lucerna fumigante, sufficiente per scoprire il suo corpo martoriato.

Wulf giaceva sull’altro letto, inerte.

Lasciò scivolare la mano sul suo collo a cercare la vena pulsante che rivela la vita. La trovò e il dolore che non risparmiava un pollice del suo corpo sembrò sparire. Wulf aprì la mano e mostrò una ghianda missile: «Che cos’è?» bofonchiò tra le labbra tumefatte.

«Il proiettile di una fionda» rispose Armin con sforzo non minore.

«Ci sono dei segni sopra...»

Armin la prese e l’accostò alla lucerna: «È latino».

«E cosa dice?»

«Fìccati nel suo culo.»

Wulf abbozzò una risata, ma i sussulti si trasformarono subito in un guaito di dolore.