“Tre teste fra due corpi. Lei centro di tutto, di vita o di morte.” La frase fu il risultato del consulto fra Armin e Flavus, il giorno dopo, quando i due fratelli si erano ritrovati e avevano deciso di giocare una partita senza trucchi. Avevano passato una notte agitata, sia perché il messaggio del loro padre li aveva profondamente colpiti, sia perché la frase sembrava una specie di indovinello senza alcun senso. In un attimo i ricordi della loro infanzia e fanciullezza erano tornati alla mente assieme all’onda delle emozioni come se fossero ancora tra le foreste della Germania. Per essere certi di non influenzarsi l’uno con l’altro, avevano scritto a parte su una tavoletta ciascuno la propria interpretazione e poi le avevano confrontate: erano identiche. E avevano anche capito che quella frase avrebbe potuto riferirsi più all’ambiente in cui si trovavano che a quello germanico.
Ma qual era l’enigma da comprendere? Era qualcosa che riguardava loro stessi? Era una frase che il loro padre aveva udito dal comandante Druso? Poiché però il comandante non esisteva più da tempo se non nella mente della sua sposa, del principe Tiberio e del centurione di prima linea Marco Tauro, era evidente che era necessario cercare hic et nunc, aveva detto alla fine Flavus, facendo sfoggio del suo latino.
«Hic et nunc» aveva risposto impeccabile Armin.
Stavano seduti al bordo di una fontanella che sgorgava dalla bocca di un delfino di bronzo tenuto dalle mani di un giovane tritone dentro una vasca rotonda di marmo rosso. Poco distante Cornelio, il giardiniere, rastrellava i rami secchi caduti.
«Tre teste fra due corpi, lei al centro. Dobbiamo stabilire che cosa è “lei” prima di tutto.»
«O chi è “lei”. “Lei” non può essere una testa, deve essere una persona» osservò Flavus. «È fra due corpi ed è il centro di tutto, di vita o di morte.»
«Teste fra due corpi? Ma che senso ha?»
«Forse l’hermundur ha capito male e ci porta fuori strada» disse Flavus cercando di sfuggire alla morsa di un’espressione apparentemente priva di significato. «Oppure ci saranno trasmesse altre frasi in seguito che formeranno un significato.»
«No. Questa frase è completa, abbiamo fatto una prova infallibile: ognuno di noi ha interpretato separatamente le parole dell’hermundur, le ha trascritte su una tavoletta, le abbiamo confrontate ed erano uguali. La frase è abbastanza chiara e tuttavia abbastanza oscura. Stento a credere che siano parole di nostro padre. Non l’ho mai sentito proferire niente del genere.»
«Eppure non ci siamo sbagliati. Ognuno di noi aveva capito la stessa cosa e le nostre due versioni coincidevano.»
La brezza occidentale aveva il profumo dei gigli e dei gelsomini, dell’erba appena tagliata, e all’interno della villa i servi facevano le grandi pulizie di primavera. Marco Tauro si era allontanato per qualche giorno e Diodoro si era appropriato dei suoi orari di insegnamento per ampliare i propri. Si studiava la storia dei Greci, ma anche la storia recente della repubblica. Affinché i suoi allievi potessero capire meglio, aveva mostrato loro una lunga striscia di papiro che riproduceva il fregio dell’Altare della Pace dove erano scolpiti i membri della famiglia imperiale, e aveva insegnato loro a riconoscerli uno per uno. Era evidente che tutti i giovani a Roma dovevano imparare gli eventi degli ultimi trent’anni secondo la versione dettata dal supremo reggitore. Armin e Flavus si erano resi conto che nella loro terra nativa, il cui ricordo era sempre più annebbiato dal trascorrere del tempo, non esisteva nulla del genere se non i canti dei bardi, che però erano evidentemente tutt’altra cosa. Quella che i Romani chiamavano “Storia” era una narrazione che aveva tutti gli aspetti della verità perché si basava su testimonianze di chi aveva preso parte agli eventi oppure da lui si era informato. A volte i grandi uomini scrivevano la storia dei fatti di cui erano stati essi stessi i protagonisti e a nessuno veniva in mente di contraddirli a causa della loro enorme potenza. Così aveva fatto Giulio Cesare scrivendo La guerra in Gallia. Se esistevano altre versioni dei fatti non gradite al potere, piano piano sparivano e la gente le dimenticava. Restava così una sola verità e cioè una non verità.
Diodoro era molto accorto nello spiegare che cosa fosse in realtà la storia. Era soltanto un liberto e non voleva dire cose che potessero ritorcersi contro di lui, né a loro spettava fare domande che mettessero in dubbio ciò che lui insegnava. Un giorno cominciò a esporre gli eventi che secondo la sua versione dei fatti avevano posto fine alle guerre civili e cioè la guerra di colui che ora tutti chiamavano Cesare Augusto e che allora si chiamava Ottavio contro il suo massimo avversario Marco Antonio, che aveva sposato una regina egiziana di nome Cleopatra. Antonio e Cleopatra erano morti e lui era rimasto l’unico padrone del mondo pur senza ammetterlo mai. Ma il conflitto che aveva posto fine alle guerre civili era esso stesso una guerra civile, cioè di Romani contro Romani, per cui non era facile capire cosa fosse la narrazione che chiamavano “Storia”. Diodoro spiegò anche il motivo per cui proponeva gli studi di quei fatti: perché era ormai imminente la loro commemorazione pubblica con grandi parate, feste e giochi.
Una sera i due giovani passeggiavano lungo il fiume osservando lo spettacolo del tramonto che arrossava le acque e le statue del tempio di Asclepio sull’isola Tiberina quando a un tratto Armin disse: «Non dobbiamo cercare il significato di quelle parole, dobbiamo prima capire chi le ha trasmesse all’hermundur perché ce le riferisse».
«Nostro padre?» domandò Flavus.
«Può darsi, ma tu pensa alla rovescia. La ricordi ancora la frase?»
«Certo: tre teste fra due corpi, lei centro di tutto, di vita e di morte.»
«Allora, dimentica l’hermundur e immagina un gruppo di persone con cui abbiamo o abbiamo avuto rapporti importanti: oltre a nostro padre, Tauro, Diodoro, Germanico, il giardiniere Cornelio. Ho dimenticato qualcuno?»
«I due liberti di Tauro, Thiamino e Privato, ma li abbiamo incontrati solo di sfuggita» disse Flavus.
«Allora ripetiamo il gioco: prendi questa tavoletta e scrivi fra questi sette il nome di chi, secondo te, può aver creato quella frase. Poi devi capovolgerla e restituirla a me dalla parte vuota e anche io scriverò un nome.»
In pochi istanti ognuno di loro scrisse sulla cera un nome. Armin li confrontò: identificavano la stessa persona. Diodoro.
Incuriositi dall’aspettativa di tutti quegli avvenimenti e con quel nome in mente, Armin e Flavus attraversarono il fiume, il Campo Marzio e procedettero a piedi verso il colle Vaticano lanciandosi in corsa di tanto in tanto come il giorno in cui erano stati sorpresi nel bosco in Germania e presi in custodia da Marco Tauro. Poi si fermarono d’improvviso, come allora, davanti a uno spettacolo grandioso. Sul colle migliaia di operai stavano scavando un enorme bacino lungo milleottocento piedi e largo milleduecento. Fu loro spiegato che quando fosse giunto il momento delle celebrazioni l’avrebbero riempito con l’acqua di un acquedotto, e poi avrebbero simulato la battaglia di Azio, in cui Antonio e Cleopatra avevano combattuto per mare contro Ottavio ed erano stati sconfitti.
L’imperatore sarebbe stato presente sulla tribuna settentrionale al centro del lato lungo ad ammirare le navi che si scontravano nella battaglia navale che aveva cambiato il destino del mondo.
Sarebbe stato uno spettacolo memorabile, molti dei presenti ancora ricordavano quella giornata. Alcuni dei bambini che erano stati allevati in seguito nella casa di Augusto erano figli di Antonio ed erano cresciuti in una dolorosa contraddizione: quel signore vestito di bianco che li ospitava, dava loro cibo, vesti e istruzione per avviarli a una carriera in politica o nell’esercito o a matrimoni principeschi o addirittura regali era il responsabile della morte dei loro genitori o di uno di essi. Armin guardava gli operai lavorare alacremente per costruire la tribuna in cui il supremo reggitore si sarebbe seduto per ammirare lo spettacolo di quella battaglia epocale che quella immagine suscitava e si chiedeva se quella immagine abitasse anche la mente di Wulf che i Romani chiamavano Flavus. Anche il suo nome ora suonava in latino: Arminius. In quel momento, però, i due fratelli parlavano in lingua nativa per non dare l’impressione di capire il latino.
E infatti un gruppetto di uomini, silenziosi da quando i due giovani erano arrivati, dopo averli ben osservati e ascoltati ripresero a parlare, a voce bassa certamente, ma sufficientemente comprensibile. E la scena che Arminius aveva visto nella sua immaginazione acquistava contorni più definiti. Flavus comprese il suo stato d’animo e gli fece un cenno con la testa: «Andiamo». Tornarono sui loro passi e si diressero verso la sponda del Tevere. Cominciava a scendere la sera.
«Perché hai scelto Diodoro?» domandò Flavus.
«Perché è il solo che potesse avere in testa quell’immagine» rispose il fratello. «E tu?»
«Perché mi sono ricordato di quella prima nostra uscita in città e del monumento che ci mostrò Tauro e dell’interpretazione di quelle scene di marmo che poi ci illustrò Diodoro con le sue lezioni. Ricordi i disegni su papiro che aveva utilizzato per farci meglio capire?»
«Hai ragione. È là che dobbiamo cercare.»
«Quando?»
«Ora.»
«Tauro ci farà frustare se rientreremo troppo tardi.»
«L’impresa vale il rischio.»
Giunsero così al grande altare di marmo, presero due lucerne dai loro sostegni e si diressero verso l’interno.
«Separiamoci» propose Arminius. «Tu vai a settentrione, io a meridione.» Flavus avanzò lentamente lungo il lato orientale, poi settentrionale e ridiscese per il lato occidentale affacciandosi al lato meridionale. Arminius aveva completato un paio di volte il suo giro, analizzando figura per figura: i sacerdoti, i magistrati, i comandanti delle grandi unità dell’esercito, le dame dell’impero, i ragazzi e i bambini, quindi si era fermato. Teneva alta la lucerna e illuminava un gruppo di figure. La fiamma palpitante animava i volti e i panneggi attribuendo loro un’anima e una espressione mutevole che nemmeno l’artista sarebbe stato capace di creare.
Entrarono senza fare il minimo rumore due vigilanti dell’area sacra, forse attirati dai movimenti della luce: «Chi siete? Che ci fate qui a quest’ora?».
«Niente» rispose pronto Flavus. «Non avevamo mai visto questo magnifico monumento perché di giorno è sempre affollato e abbiamo approfittato del fatto che non c’è nessuno. Siamo ospiti della casa pubblica sull’Aventino e il nostro tutore è il centurione di prima linea Marco Celio Tauro della Diciottesima legione.»
«Bene» risposero i vigilanti. «Vi aspettiamo all’ingresso. Non toccate niente.»
Arminius assentì e appena i due ebbero sceso le scale dell’ingresso si volse al fratello. «L’ho trovata» disse. «Non so come non ci ho pensato prima. Vieni, guarda, ecco qua le tre teste e il volto della figura completa di donna nel mezzo, e gli altri due ai lati di cui si vedono solo le teste. Due corpi interi e cioè le figure di Agrippa e di Tiberio, il principe triste, eccoli qua. E questa nel mezzo è colei che sta fra la vita e la morte.» Si misero a guardare in silenzio la figura femminile intera.
«È la bellissima Giulia» disse Arminius sottovoce, «la figlia dell’imperatore. Davanti ha il marito Agrippa, dietro, quell’altra figura maschile è Tiberio...»
«Che sta nell’isola greca...»
«Infatti.»
«Ora non resta che interpretare l’ultima parte della frase.»
«“Centro di tutto, di vita o di morte.” Forse anche di quella è qui la spiegazione. Ma non possiamo restare più a lungo. Desteremmo attenzione.»
Uscirono e sotto lo sguardo dei due vigilanti s’incamminarono verso l’Aventino. Davanti all’ingresso del parco trovarono ad attenderli Marco Tauro che batteva ritmicamente sul palmo della mano sinistra il vitis che impugnava con la destra.
Flavus si girò verso il fratello: «Te l’avevo detto». Arminius, con noncuranza, si strinse nelle spalle.
Nonostante la posa minacciosa, il centurione Tauro si limitò a un paio di staffilate che i corsetti di cuoio dei due ragazzi neutralizzarono almeno in parte. Una volta a letto, Arminius e Flavus si voltarono sul fianco in modo da essere l’uno di fronte all’altro e ricominciarono a rimuginare su ciò che avevano visto, udito e meditato in quel giorno pieno di emozioni. L’enorme squarcio sul colle Vaticano, le frasi mozze o appena bisbigliate che parlavano di una grande giornata e dove tornava insistentemente la parola libertas, poi il riflesso delle lanterne sui panneggi marmorei, il fruscio del Tevere che scorreva a poca distanza e sembrava lambire le pareti del grande altare, il meraviglioso volto di Giulia e la fissità del suo sguardo, Germanico ancora così piccolo e così fiero nella sua minuscola toga. L’avrebbero indossata anche loro un giorno? Forse, senza rendersene conto, stavano cominciando a desiderare quel simbolo di dignità suprema, di fierezza e di nobile portamento, di austera eleganza e di tradizioni secolari, ben sapendo che era impossibile da conseguire.
Dall’esterno venivano i rumori della notte: il passo dei guardiani e dei loro cani, lo stormire delle fronde accarezzate dalla brezza occidentale, la parola d’ordine dei soldati che facevano il cambio della guardia. Anche quello era un motivo di ammirazione per loro: lo Stato romano, la Res publica che era presente dovunque, e nelle parole dei soldati che montavano per il loro turno di guardia affermava la propria autorità, il geloso controllo del territorio con gesti sincroni, marziali e solenni, con parole perentorie e il secco clangore delle armi.
I due ragazzi si chiedevano perché mai le parole misteriose fossero giunte fino a loro per bocca del gigantesco hermundur. Forse perché Diodoro (se veramente ne era l’autore) voleva restare nell’ombra? Era sicuramente valida anche per lui, semplice liberto, la norma ferrea di tenersi lontano dalla politica. Si chiedevano se la frase enigmatica volesse proteggere qualcuno mettendolo in allarme o volesse colpire qualcun altro che non se lo aspettava. Ma perché far pervenire a loro il messaggio? Erano in fondo i meno adatti, sia a scioglierne il significato, sia a comunicarlo, se fosse stato necessario. E come si sarebbero comportati? Avrebbero riferito a qualcuno ciò che fossero via via arrivati a scoprire? Già avevano risolto non pochi interrogativi, ma al tempo stesso ne avevano sollevati di maggiori. Rischiavano di ficcarsi in un ginepraio o in un labirinto senza via di uscita.
Il giorno dopo arrivò la governante della piccola comunità della villa, un’anziana donna sulla sessantina. Portava un unguento lenitivo oltre alla colazione. La mandava il centurione Marco Tauro.
«Non cambia mai» commentò Flavus. «Le nerbate per dire che la disciplina va mantenuta sempre e comunque. La vecchia con l’unguento per fare presente che non c’è nulla di personale, anzi, che se c’è qualcosa è una certa benevolenza e magari anche stima.»
«Forse è lui il nostro uomo» disse improvvisamente Arminius. «Di sicuro conosce tutti i segreti della politica romana, di sicuro ha informatori e forse anche la fiducia di uomini di alto rango.»
«Se il centro della vita e della morte è lei» rispose Flavus, «intendo dire la bella signora scolpita sul marmo dell’Altare della Pace, allora si tratta di mettere le mani in un nido di vipere. Bisogna vedere se se la sente. Sul campo è un leone ma non ce lo vedo in una faccenda di questo genere che sa d’intrigo lontano un miglio.»
«Io direi che se lui è disposto ad andare a fondo in questa cosa noi siamo disposti ad aiutarlo, se non lo è lasciamo perdere anche noi. Di chi potremmo fidarci, allora? Di Diodoro? Non mi pare che sarebbe saggio. E poi non siamo veramente sicuri che il messaggio venga da lui: è solo una congettura.»
Aspettarono un paio di giorni poi chiesero udienza al centurione tramite lo stesso Diodoro. Ottennero di più: un invito a cena nel suo appartamento.
Lo trovarono vestito con una tunica scura che arrivava fino ai piedi, con le maniche lunghe e larghe, orlate di una stoffa blu, calzari di cervo alla maniera germanica. In un angolo della sala c’era una gruccia con la sua armatura da parata: elmo con cimiero traverso, corazza con decorazioni, cinturone, schinieri, gladio e pugnale. Pranzarono seduti a un tavolo come al campo. La suppellettile era sobria, le coppe di ceramica, una brocca di bronzo argentato per versare il vino unica concessione al lusso. Furono serviti da un servo siriano vestito al modo del suo paese di origine.
Dopo i primi convenevoli, Tauro riferì di aver sempre informato i loro genitori in Germania con messaggeri del servizio pubblico. Disse che il padre Sigmer e la madre Siglinde stavano bene e che i rapporti politici con i Cherusci erano buoni. Versò ai suoi ospiti del vino e poi domandò il motivo di quella visita. I due ragazzi si scambiarono un cenno d’intesa e Arminius cominciò a parlare.
Raccontò che un corriere aveva loro recapitato un messaggio a voce dicendo che era da parte del padre, una specie di enigma molto difficile da decifrare ma che la visita recente all’Altare della Pace aveva loro suggerito una possibile soluzione.
Flavus subentrò al fratello srotolando un grande foglio di papiro in cui si poteva distinguere lo schema della processione inaugurale dell’Altare della Pace e indicò i personaggi che a loro avviso venivano nominati nell’enigma. E fra questi Giulia, al centro della vita e della morte.
Tauro aggrottò la fronte e li fissò negli occhi, prima l’uno e poi l’altro, per scoprire dal loro sguardo se dicessero la verità.
«Come potete essere certi che sia da parte di vostro padre?» chiese.
«Non lo siamo, infatti» rispose Flavus. «E riflettendo ci siamo detti che il messaggio è troppo complesso e difficile per essere di nostro padre, soprattutto perché avrebbe dovuto conoscere alla perfezione quelle sculture e identificarne i personaggi.»
«Siamo venuti da te per avere un consiglio» disse Arminius.
«Avete pensato a indagare sull’hermundur?» domandò Tauro.
Avevano pensato a tutti fuorché a lui.
«No» disse Flavus. «Se è difficile che nostro padre abbia concepito l’enigma, è impossibile che lo abbia fatto l’hermundur.»
Tauro chinò il capo con un sospiro, poi riprese a parlare: «La bellissima Giulia ha molti ammiratori e spasimanti ma anche non pochi, potenti nemici. Su di lei circolano maldicenze ma in realtà ha avuto un solo grande amore... un amore impossibile».
“Il rude Tauro ospita nell’animo pensieri d’amore. Incredibile” pensò Flavus.
«Ma a una donna nella sua posizione non è consentito seguire i sentimenti. È troppo grande il suo peso politico: dal suo grembo origina il massimo potere e dunque altri decidono quale seme deve attecchirvi. Tuttavia suo padre, il sommo Augusto, ha sempre tollerato le sue avventure amorose purché gli obbedisse quando era ora di accettare un matrimonio di stato.»
Mentre ascoltava quelle parole, Flavus pensava alla fanciulla coronata di fiori che aveva affascinato suo fratello nel grande bosco germanico, al suo sguardo che lo aveva incantato per sempre. Pensava anche a Iole, la prostituta poco più che bambina, cui simili pensieri e simili speranze erano preclusi. A lei erano riservati schifo, sperma, sangue e vomito, finché interminabili, brutali violenze, non l’avessero uccisa. Sarebbe morta senza vedere un solo giorno di sole e di felicità. O forse lui stesso le aveva dato un raggio di luce quando l’aveva fissata con commozione e le aveva offerto un dono. Forse la piccola, dolce Iole, aveva sognato che un giorno sarebbe passato dalla stazione di sosta, già uomo potente e scintillante nella sua armatura, e l’avrebbe tolta da quella miseria e portata via con sé.
Un sogno avvelenato, meglio nulla.
La voce di Tauro lo richiamò al presente: «Anche il figlio di Marco Antonio e della sua prima moglie è raffigurato sulla parete del grande Altare della Pace. Iulo Antonio si chiama. È l’ultima figura della processione inaugurale.
È lui l’unico grande amore di Giulia, sbocciato quando erano ancora bambini e vivevano con gli orfani delle guerre civili nella casa di Augusto. Si innamorarono fanciulli in quell’inquietante orfanotrofio, ma secondo voi poteva mai avere un futuro l’amore tra i figli dei due più accaniti avversari dell’ultima guerra civile? Giulia lo ha sempre tenuto segreto, quel grande amore, ma in realtà tutti quelli che dovevano sapere sapevano e la tenevano sotto stretta osservazione per poi riferire a suo padre, il supremo reggitore dello Stato.»
Arminius era stupito di quella rivelazione così importante e delicata che Tauro stava facendo a due giovani principi germanici, ma non sapeva quanto egli stesso fosse divenuto intimamente romano in quegli anni di permanenza nella capitale del mondo conosciuto. Non sapeva quanto avesse corretto il suo accento germanico, appreso le tecniche militari dell’esercito e i rudimenti del diritto romano, quanto avesse assorbito il senso estetico e l’eleganza, il gusto per la cura del corpo nelle palestre e negli stadi, l’usanza del bagno quotidiano e dei massaggi.
«Quando la madre di Giulia, Scribonia, era rimasta incinta» riprese a dire Tauro, «suo padre, che allora si chiamava Ottavio, si attendeva un maschio. Appena nata, tuttavia, la strappò dalle braccia della madre che subito ripudiò, incurante delle sue grida disperate. Anni dopo, appena avuta la prima mestruazione, Giulia fu fidanzata e poi sposata a suo cugino Marco Claudio, che morì non ancora diciannovenne, poi a Marco Agrippa, braccio destro di suo padre e maggiore di lei di venticinque anni, che la ingravidò cinque volte prima di morire prematuramente otto anni fa. E ora è sposata al principe Tiberio che cammina solitario sulle spiagge deserte dell’isola del suo volontario esilio. Il sommo reggitore, suo padre adottivo, affinché sposasse Giulia gli aveva imposto di ripudiare la moglie che amava profondamente e dicono che ogni volta che la vedeva, anche da lontano, non poteva trattenere le lacrime. Nacque da Giulia un bambino che morì ancora in fasce.
Ora Giulia è libera di incontrare il suo innamorato, che è anche un poeta, alle riunioni di un circolo di letterati e in altri luoghi più intimi e nascosti della città segreta.
Per lunghi anni non si erano visti e le loro anime erano vicine soltanto nelle figure marmoree scolpite sulla parete del grande altare.»