Per qualche tempo Arminius e Flavus non pensarono né alla frase pronunciata dal guerriero hermundur né all’enigma che vi era nascosto. Tauro aveva ricevuto l’incarico di preparare una parata e varie esercitazioni militari degli ausiliari alla presenza dei capi dell’esercito, fra cui il comandante della Diciottesima legione, il legato Sesto Varinio. Altre visite erano previste nel pomeriggio di quel giorno, ma nessuno sapeva quali. Tauro doveva aver tenuto il segreto per non affievolire l’effetto quando fosse stato il momento.
Cominciò Flavus alla testa di uno squadrone di Catti e Suebi simulando una carica di cavalleria contro un bersaglio costituito da manichini di paglia impastata con creta fresca conficcati con un palo nel terreno e dotati di uno scudo di legno e un corsetto di fibra di canapa. I due giovani principi erano armati con la lorica di maglia di ferro, pesante ma adatta per qualunque movimento, elmo di cuoio, due lance e due spade, le spade lunghe dei cavalieri.
Arminius fu il secondo a guidare la carica. A metà del percorso scagliarono tutti le lance. Lui scagliò la prima e poi la seconda colpendo due bersagli uno dopo l’altro, poi sguainò le spade e decapitò due manichini. Fece un’ampia conversione, afferrò altre due lance dai serventi e guidò un secondo assalto colpendo di nuovo i bersagli sia con le lance che con le spade. Seguirono altri esercizi con altri gruppi, quindi fu di nuovo il turno di Flavus che dovette fare con i suoi spericolate evoluzioni di velocità e destrezza. Le esercitazioni erano sempre più difficili e pericolose e dalla tribuna si levavano le grida di meraviglia delle dame più in vista della capitale. Flavus montava uno stallone nero di straordinaria bellezza, lucente come l’ala di un corvo, con ciuffi di crine che gli scendevano dalle caviglie a coprire gli zoccoli lustri di sego. Arminius montava un cavallo bianco dalla lunga criniera, una cavalcatura degna di un grande guerriero che aveva scelto per lui lo stesso Tauro. Il sole era ormai alto sul Campo Marzio e gli unici che non grondavano di sudore erano gli ospiti seduti su una tribuna ombreggiata da un telo di lino bianco, che bevevano acqua fredda in coppe d’argento rivolti a favore della brezza occidentale.
Verso l’ora decima Tauro chiamò a sé ambedue i principi e un mormorio di ammirazione passò lungo le file degli spettatori alla vista dei due splendidi giovani che avanzavano sulle loro magnifiche cavalcature, i muscoli luccicanti, i capelli incendiati dal sole.
Saltarono a terra con un volteggio agile ed elegante. Tauro li attirò a sé prendendoli per le braccia. «Non vi voltate» disse, «arriva l’imperatore.»
I due trasalirono.
«Che cosa significa, centurione?» domandò Flavus.
«Nulla di per sé. Ha sentito di questa esercitazione e ha voluto assistervi. Per voi significa moltissimo. Fate vedere di che cosa siete capaci.»
«Che cosa dobbiamo fare?» domandò Arminius.
«Affrontare una prova molto dura. Da quello che mi è stato detto, la più dura in assoluto.»
Lo fissarono negli occhi: «Non abbiamo paura di nulla e di nessuno».
«Bene. Avrete bisogno di tutta la vostra energia e di tutto il vostro coraggio. Guiderete i vostri squadroni uniti. Tu, Arminius, quello di destra, tu, Flavus, quello di sinistra. Il colore dei vostri cavalli vi renderà visibili l’uno all’altro. Nessuno di voi ha mai versato sangue. Questa volta accadrà, inevitabilmente, perché affronterete uomini che per tutta la vita non hanno fatto che combattere e sono sopravvissuti a infiniti scontri mortali: hanno il corpo pieno di cicatrici, lo spirito lacerato, il cuore non sanno che cos’è. Gliel’ha azzannato il cane infernale quando sono nati. Sono e saranno fino alla morte... gladiatori!
Lo scontro avverrà, anche per loro, a cavallo. Potete scegliere le armi che volete. Se cadete, alzatevi immediatamente. Datevi manforte l’un l’altro.» Si interruppe un istante per sussurrare qualcosa all’orecchio dei due giovani, poi proseguì a voce normale: «Se un vostro avversario cade, uccidetelo immediatamente o lui ucciderà voi. Buona fortuna».
Flavus scelse le armi che meglio si sentiva addosso e aiutò Arminius a indossare l’armatura da combattimento, poi mormorarono qualcosa sottovoce. Si strinsero ambedue le mani e Flavus si schierò in prima linea all’ala sinistra con dietro di sé tre linee di cavalieri, sette per ogni linea. Quando si volse a destra per fissare nella memoria la posizione del fratello nello schieramento si trovò di fianco il gigantesco hermundur che aveva viaggiato con loro quando erano venuti in Italia e che aveva recapitato quel messaggio così criptico. Sorrideva mostrando tutti i denti sotto i baffi biondissimi.
«Che ci fai qui, hermundur?»
«Ti copro il fianco, ragazzo.»
I cavalli sbuffavano mordendo il freno. Arminius assunse il comando strategico e passò tra le file impartendo istruzioni in lingua nativa: un grande vantaggio in quella situazione. Le stesse parole passarono a Flavus per bocca di uno dei cavalieri di Arminius, che gli si avvicinò, ripeté quelle poche frasi e riguadagnò la sua posizione, mentre Flavus a sua volta le faceva circolare con il passaparola da una fila all’altra fino in fondo allo schieramento.
Arrivò l’imperatore vestito di bianco, scortato da otto pretoriani in alta uniforme ma senza littori. Era una presenza in forma privata. Quando i due schieramenti furono ultimati il lanista proclamò che uno squillo di tromba avrebbe segnato l’inizio, il secondo la fine del combattimento. Poi la tromba squillò e i due schieramenti, quello germanico e quello dei gladiatori, partirono al galoppo l’uno contro l’altro con le armi tese in avanti. I cavalieri germanici erano disposti in modo da coprire le ultime tre file che invece avanzavano al passo. Il campo era stato asperso d’acqua a sufficienza perché non si alzasse polvere.
Quando i due schieramenti avversi si trovarono a meno di cinquanta passi, Arminius lanciò un grido e i suoi uomini gridarono a loro volta: uno strepito sincopato e tagliente che si prolungò fino alla collisione. Molti caddero da una parte e dall’altra e lo scontro si riaccese subito a terra con furore, tanto che il centurione Tauro pensò che un certo numero di gladiatori l’avesse fatto apposta per sfruttare la propria superiorità nel tipo di lotta a cui erano più abituati.
Intanto, pochi istanti prima della collisione delle prime file, le ultime quattro linee degli ausiliari germanici si divisero, due da una parte e due dall’altra, e si lanciarono velocissime sui fianchi dello schieramento dei gladiatori, li aggirarono, compirono una larga evoluzione alle loro spalle e si ricomposero frontalmente per attaccare gli avversari da dietro. I gladiatori cercarono di reagire ma si trovarono sotto l’urto della carica dei germanici. Anche loro, però, avevano una sorpresa. Dalle ali lanciarono una ventina di frombolieri che diradarono le file degli attaccanti con una gragnuola di colpi parati solo in parte dai germani alzando gli scudi. Alcuni furono colpiti in piena fronte e stramazzarono a terra, altri all’altezza delle ginocchia, e altri ancora sulle spalle, sulle gambe e all’inguine.
Non c’era più spazio ormai per altre cariche e manovrare i cavalli nei ristretti spazi della mischia diventava a ogni momento più difficile. Alla fine lo scontro di cavalleria si trasformò in tanti duelli a piedi in cui l’esperienza dei gladiatori diventava sempre più pericolosa. Ma a quel punto Arminius chiamò a gran voce il fratello, che si fece strada con il suo cavallo nero e poi a piedi, ponendosi infine al suo fianco. Tutti e due avanzarono con le forze rimaste fino a trovarsi vicini al capo dei gladiatori, riconoscibile dall’elmo meravigliosamente sbalzato nel bronzo, con il cimiero scarlatto; lui li notò e capì la loro intenzione. Lo scontro si fece sempre più violento perché la maggiore esperienza dei gladiatori non riusciva a prevalere sul vigore inesausto degli avversari, nettamente più giovani. Il numero dei feriti si accresceva a ogni momento. Il lanista, preoccupato, volse lo sguardo al podio. L’imperatore vide ma si volse al nipote adottivo Germanico, in toga laticlavia, come per affidare a lui la decisione. Germanico annuì e il lanista fece squillare la tromba. Le armi si fermarono. Gli amici cercarono con lo sguardo gli amici, i compagni i compagni e il fratello cercò il fratello: nella confusione della mischia chiunque avrebbe potuto sparire. Arminius e Flavus si trovarono ancora uno a fianco dell’altro tenendo ciascuno il proprio cavallo per la cavezza.
Toccò al comandante della Diciottesima, Varinio, emettere il verdetto che proclamava i vincitori. Mandò alcuni dei suoi uomini a contare i feriti e, se ve n’erano, i morti, in modo da avere elementi per il giudizio. Alla fine, anche per motivi di opportunità, emise un verdetto di parità, ma volle mettere in evidenza il coraggio e il valore dei due giovani comandanti germanici: Arminius e Flavus.
Poco dopo uno dei pretoriani si avvicinò a Tauro: «Cesare vuole incontrare quei due ragazzi prima di cena nella sua casa. Al tramonto. Fa’ che si diano una sistemata, sono impresentabili... Dimenticavo, Cesare m’incarica di portarti i suoi complimenti: hai trasformato quei barbari in soldati disciplinati e fortissimi».
Tauro ricambiò per Cesare i saluti e i voti di buona salute.
Tornati alla casa sull’Aventino, Arminius e Flavus fecero un bagno, si cambiarono d’abito indossando tunica, mantello e calzari, e raggiunsero poco dopo l’abitazione di Tauro in fondo alla villa. I due liberti, Privato e Thiamino, li ricevettero con una bacinella e una salvietta di lino per lavarsi e asciugarsi le mani: erano i fedelissimi assistenti del centurione, sempre pronti a ogni suo cenno. Thiamino era un ottimo massaggiatore e da sempre si prendeva cura del suo padrone ogni volta che tornava da una giornata di dura vita militare. Privato era il suo segretario particolare: gli teneva i contatti, gli controllava la posta, scriveva le sue note e il suo diario di servizio che gli leggeva di solito dopo cena, prima che si coricasse. Tauro aveva acquistato il primo in Africa da un possidente che, perduto in mare un carico di grano, voleva realizzare un po’ di denaro. Il secondo, Thiamino, lo aveva comprato in Oriente da un soldato che voleva disfarsene. Li aveva emancipati ambedue dopo tre anni di servizio e naturalmente nessuno di loro aveva voluto lasciare la sua casa.
Arminius e Flavus furono ricevuti con un bicchiere di vino e un paio di uova sode in olio e sale.
«Mangiate qualcosa: sarete ricevuti da Cesare oggi stesso, ma non certo a cena.»
I due giovani si guardarono negli occhi non potendo credere a quello che Tauro stava dicendo.
«Cesare?» ripeterono uno dopo l’altro.
«Proprio lui!» rispose il centurione. «È un privilegio enorme che tocca a pochissime persone: voi per di più siete degli stranieri, benché figli di un capo alleato. Mi ha fatto avere anche le sue congratulazioni per come siete stati istruiti e addestrati.»
Si vedeva che a stento frenava il suo entusiasmo per il riconoscimento che aveva ottenuto. Diede ai suoi allievi accurate raccomandazioni su come comportarsi e su come conversare: «Sedetevi solo quando ve lo chiede: lo capirete dalla presenza di sedie nella stanza rivolte verso il suo tavolo, altrimenti state davanti a lui con la schiena dritta e con il capo eretto senza mai fissarlo negli occhi. Parlate, se vi fa delle domande, in modo preciso e asciutto: è sempre meglio una parola in meno che una in più e riflettete sempre prima di aprire bocca. Non gli piacciono i chiacchieroni e i millantatori e nemmeno gli adulatori. Evitate di accompagnare le parole con gesti delle mani – lo fanno gli schiavi – e tenete la voce bassa: ci sente bene e gli dà fastidio il rumore eccessivo. Se vi offre qualcosa da mangiare fate un cenno con il capo in segno di ringraziamento ma non fate altra mossa. Accettate solo se insiste con parole come “è buono, assaggiate” o “li ho coltivati io stesso nel mio giardino”. So che vostro padre vi ha educati come si deve e sono certo che vi comporterete nel migliore dei modi».
Flavus lo guardava con ammirazione, era il tipo di uomo che sa sempre cosa fare e come fare in qualunque circostanza: «Tutto questo lo sai per essere stato informato o sei stato vicino a lui?» gli chiese.
Tauro sembrò meditare per qualche istante.
«Stavo con lui al tempo delle guerre civili» rispose poi. «Io ero molto più giovane, lui era solo un ragazzo. Nessuno avrebbe potuto immaginare quello che poi ha fatto, però ci siamo incontrati anche dopo, per qualche periodo, e mi ha dato incarichi di una certa importanza.»
Il sole cominciava a declinare e i raggi obliqui entravano dalla finestra che dava a occidente illuminando gli oggetti che Tauro aveva raccolto durante la sua vita. La sua armatura, ovviamente, quella che metteva solo nelle occasioni più importanti, trofei di guerra: armi, stoffe pregiate, vasi di vetro e di ceramica invetriata, opere d’arte popolare, immagini di divinità straniere, rotoli di papiro, decorazioni, monete dei regni orientali con l’effigie del Grande Alessandro, cimeli di glorie passate. Nessuno di quei regni esisteva più, ora tutto il mondo obbediva a Roma e Roma obbediva a un uomo solo, e i due ragazzi che aveva istruito lo avrebbero incontrato fra poco.
«Siete dei guerrieri e dunque andrete a cavallo alla sua casa sul Palatino, ma disarmati. Manderò con voi Privato che conosce benissimo la strada.»
Si salutarono e i due giovani tornarono alla loro residenza ad aspettare la guida che li avrebbe condotti a destinazione.
Quando arrivarono si resero conto che erano attesi. Un servo prese per le briglie i cavalli e li portò verso la foresteria. Privato li seguì parlando con loro e si sedette su una panca all’ombra di una pianta di fico ad aspettare. Il portiere li guidò fino alla base di una scala di pietra che portava a una specie di torretta. Non videro niente di quello che avevano immaginato: sale pavimentate di alabastro, mosaici splendenti di tanti colori, tappeti e statue, niente di tutto questo. Stavano salendo verso un ambiente austero e di dimensioni modeste.
Quando mancavano ormai una decina di gradini al terrazzino che precedeva l’ingresso, il portiere si voltò dicendo: «Quando riceve lassù significa che si tratta di un incontro importante e non vuole essere disturbato se non per questioni della massima urgenza. Mi chiedo chi siate mai per avere questo trattamento: non vi ho mai visti prima. Ho visto re e regine fare anticamera per mesi prima di essere ricevuti...».
Mentre quello borbottava fra sé e sé, Arminius si rivolse a Flavus parlando in lingua nativa: «Hai sentito? Pensi davvero che ci abbia convocati perché abbiamo combattuto bene? Per quello bastava una breve missiva scritta da un altro e recapitata da un servo».
«No, non lo credo» rispose Flavus. «Ma allora perché?»
«Per una cosa che sappiamo solo noi. Non c’è altra spiegazione.»
«Penso che tu abbia ragione. E quindi sa anche del messaggio dell’hermundur?»
«È evidente.»
«E... un’altra cosa...»
«Quale?»
«L’hermundur era vicino a me. Alla fine dello scontro non aveva neanche un graffio.»
Erano arrivati sull’ultimo gradino e avevano il batticuore, non di certo per aver salito le scale.
Il servo aprì la porta. Flavus gettò un’occhiata di sotto e il suo sguardo incrociò quello di Privato.
Era lo sguardo di uno che sa ma che vorrebbe sapere di più.
Il servo fece cenno con la mano ai due giovani di entrare. Ci fu un attimo di esitazione, poi Arminius entrò per primo e Flavus lo seguì. Si trovarono nello studio di Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, console, pontefice massimo, padre della Patria, l’uomo più potente del mondo.
Non somigliava molto alle statue che lo ritraevano nella sua immagine pubblica: era magro e di media statura, con le dita lunghe e sottili. Era seduto sulla sedia pieghevole che usavano i magistrati e aveva davanti il suo tavolo di lavoro con rotoli di papiro raccolti in due teche, una di legno chiaro e una di ebano, evidentemente la prima per i papiri vergini e l’altra per i testi scritti. Accanto alla teca di ebano si vedeva una statuetta di terracotta che rappresentava un dio – “Forse Apollo” pensò Arminius – e a portata della sua mano destra c’erano un calice greco a figure rosse con dei fichi già sbucciati e una tazza di acqua con un tovagliolo di lino ancora piegato per asciugarsi le mani.
Su una piccola seggiola vicina al tavolo erano appoggiate delle tavolette cerate con un paio di stili: Cesare doveva essersi interrotto mentre stava dettando una lettera che poi lo scriba avrebbe messo in bella copia su un impeccabile foglio di papiro. In terra contro la parete di destra c’era una cassapanca che probabilmente conteneva documenti e che doveva essere chiusa con la chiave che gli pendeva dalla cintura.
Salutarono con un lieve inchino.
«Accomodatevi» disse l’imperatore. «Siete i benvenuti in questa casa.» La sua voce era netta e sonora, forte di timbro. Una voce abituata al comando. Arminius e Flavus fecero un cenno con il capo in segno di ringraziamento e si sedettero.
L’imperatore prese il calice con i fichi e glielo avvicinò: «Un frutto?».
«Cesare, noi non...» cominciò Arminius ma l’imperatore insistette:
«Sono buoni, appena colti. Li coltivo io stesso nel mio giardino.»
Tauro era stato chiaro: in quel caso l’offerta doveva essere accettata. Prima Arminius e poi Flavus presero un fico e l’accostarono alla bocca: era squisito. L’imperatore stesso offrì loro la ciotola dell’acqua e il tovagliolo per detergere le dita. Poi prese a parlare: «So chi siete e da dove venite. So come siete arrivati a Roma, dove alloggiate, e ho scelto io di persona la vostra residenza e i vostri maestri. Tauro in particolare. È un uomo straordinario, forte e sincero, un combattente formidabile. E oggi, vedendovi combattere, ho capito di aver fatto la scelta giusta affidandovi a lui. Vi siete battuti magnificamente... con valore, ma soprattutto con intelligenza. E questo sarà tenuto in considerazione quando verrà il momento di affidarvi un incarico».
I due giovani restavano in silenzio come loro raccomandato da Tauro.
«Ma il motivo di questo incontro» continuò Cesare Augusto distanziando le parole per essere certo di essere ben compreso «è un altro. Siete stati visti e ascoltati mentre nottetempo facevate una visita molto accurata all’Altare della Pace. Una visita che si spiega in parte con un’altra: quella fatta a voi da un guerriero hermundur per trasmettervi un messaggio che vi ha indotti appunto a tornare all’Altare della Pace, immagino per trovare una spiegazione a quello che vi era stato detto. Vi chiedo: avete trovato questa spiegazione? E qual è?»
La domanda era arrivata e conveniva dare una risposta. Arminius parlò per primo: «Cesare, ti diremo quello che sappiamo. Ciò che dici è vero. La prima visita all’Altare della Pace fu preparata dal nostro maestro Diodoro. La seconda l’abbiamo fatta noi dopo aver ascoltato la frase del guerriero hermundur e pensiamo di aver colto nel segno. La frase “Tre teste fra due corpi. Lei centro di tutto, di vita e di morte” mi richiamò alla memoria un’immagine che mi aveva colpito visitando l’altare. Non fu difficile ritrovarla: lei al centro di tutto, tre teste fra due corpi. Abbiamo meditato a lungo».
Il supremo reggitore dello Stato ascoltava intento ma quasi senza darlo a vedere: non un muscolo del suo volto si muoveva, l’espressione dello sguardo era come quella delle statue. Si poteva vedere che sotto la tunica teneva le gambe accavallate, la mano sinistra affusolata stesa sul tavolo di noce massello mostrava il pallido luccicare di un anello d’oro con il sigillo di famiglia. Flavus, che aveva affinato la vista nel buio delle foreste germaniche, poté distinguere la figurina di un guerriero che teneva per mano un bambino e sulle spalle un vecchio invalido. Pendente da una gruccia dietro di lui, la toga laticlavia faceva da sfondo alla sua figura che quasi vi si confondeva.
«Continua» disse con un tono di voce appena fuori del silenzio.
Fu Flavus a proseguire: «Diodoro, il nostro maestro di lettere e di arte, ci aveva mostrato dei disegni su fogli di papiro che rappresentavano le figure scolpite sulle pareti di marmo dell’altare e ci aveva insegnato a riconoscerle una per una. Ci aveva indicato Germanico bambino, che oggi è un giovane e valoroso combattente, Agrippa, e il comandante Druso con il suo mantello militare, e te, Cesare. Infine, colei che è una delle tre teste fra due corpi ed è il centro di tutto, di vita e di morte...
Tua figlia, Cesare.»