XI

Arminius e Flavus rientrarono che era quasi buio, guidati da Privato che montava un mulo, e strada facendo parlarono fra di loro senza sosta in lingua nativa, pur sapendo che, se Privato avesse riconosciuto il suono di una lingua straniera e l’avesse riferito a Tauro, avrebbero passato dei guai. La proibizione per i principi di parlare una lingua che non fosse il latino era ferrea.

Cesare Augusto aveva chiesto loro di continuare nell’indagine: avevano sciolto l’enigma del messaggio e la sua connessione con l’Altare della Pace, adesso occorreva andare oltre e capire cosa significava l’ultima parte “al centro di tutto, della vita e della morte”. C’era un dilemma da comprendere: di quale vita e di quale morte si parlava, a cosa si riferiva la frase e a che livello si collocava la centralità di Giulia? Avevano capito che Tauro aveva una via di accesso diretta all’imperatore e che la loro convocazione doveva dipendere da quella. Avevano anche capito che l’hermundur aveva lasciato loro la facoltà di decidere come spendere il significato che avessero eventualmente identificato nel messaggio, e forse anche il loro padre Sigmer, ammesso che fosse stato lui a inviarlo.

Avevano compreso, infine, che l’hermundur aveva ricevuto l’incarico da Cesare di proteggerli mettendosi al loro fianco durante l’esercitazione contro i gladiatori. L’imperatore sapeva anche che era stato lui a recapitare il messaggio. L’informazione l’aveva avuta da Tauro a cui loro stessi l’avevano comunicata.

Flavus cercò di chiarire l’intricata questione: «Allora: l’hermundur faceva parte del gruppo che ci ha portati in Italia. Può essere stato arruolato da Tauro, ma oggi si trova sicuramente al servizio di Cesare come membro della guardia del corpo. In quella situazione può essere in contatto sia con nostro padre, tramite gli ausiliari che assicurano i contatti con i capi germanici, sia con l’imperatore, tramite Tauro. Ma come faceva nostro padre a sapere che noi saremmo riusciti a identificare la figura che sta al centro tra la vita e la morte?».

«Hai ragione» rispose Arminius, «non poteva.»

«E dunque?»

«Per ora non possiamo dare una risposta a questa domanda. E inoltre, se Cesare ha saputo da Tauro del messaggio, perché non ha torturato l’hermundur per farlo parlare?»

«Giusto: perché non l’ha fatto?»

«Al suo posto non l’avrei fatto nemmeno io. È evidente che un messaggio a voce viene affidato a un uomo che non è in grado di capire quello che ha imparato a memoria.»

Tauro li invitò a cena e l’invito fu motivo di grande soddisfazione per i due giovani. Il loro rapporto con il centurione mutava in un certo senso di giorno in giorno diventando sempre più diretto e confidenziale, anche se il veterano di tante battaglie sembrava preferire il carattere spontaneo di Flavus a quello più riservato e introverso di Arminius.

Gli raccontarono dell’incontro con Cesare che li aveva profondamente impressionati.

«Che cosa vi ha più colpito di lui?» domandò il centurione.

«La sua semplicità» rispose Flavus. «Mi aspettavo un uomo carico di preziose stoffe e gioielli, corone e braccialetti, assiso su un trono entro una sala splendente di marmi e mosaici: uno come lui può permettersi qualunque cosa. E invece ci siamo trovati davanti un uomo vestito solo di una tunica bianca tessuta a mano, con una cintura di cuoio grezzo e un paio di sandali robusti ma non ricercati, senza altro ornamento che l’anello di famiglia. E l’ambiente in cui ci ha ricevuti era elegante ma semplice. Chiunque se lo potrebbe permettere. La tua sala di ricevimento, centurione, è più grande e, direi, perfino più ricca.»

«Chi ha il vero potere non ha bisogno di gioielli e di abiti sfarzosi per dimostrarlo. Chi sente questa necessità ammette la propria debolezza... E tu cosa ne pensi, Arminius?»

«Le sue mani. Non sono mani di un guerriero. Deve aver impugnato la spada soltanto nelle parate.»

«Sono le mani di un uomo politico. Non è tenuto a essere forte: c’è chi lo è per lui. La battaglia di Azio l’ha vinta Agrippa, il suo braccio destro, mentre lui era sottocoperta a vomitare. Piuttosto è tenuto a essere intelligente, accorto, saggio ma anche scettico o ipocrita, se necessario. In certi casi è altrettanto importante apparire che essere. C’è più di una stanza nel suo palazzo decorata con maschere da teatro, quasi un’ossessione. Lo avete notato? Vi siete chiesti il perché?» Non aspettò risposta: «Perché il potere è portare una maschera. Veste quella semplice tunica fatta a mano perché vuole che si pensi che non è molto diverso da un umile cittadino che vive di un modesto salario. Posso dirvi però che è un uomo capace di sentimenti quando se lo può permettere.

Entro i confini dell’impero regnano la pace e la prosperità. Certo, non è l’età dell’oro, come annunciano le sculture dell’Altare della Pace, ma quell’uomo vestito di bianco ha posto fine alle guerre civili, costruito strade, porti, acquedotti, ponti, terme e biblioteche, ha riorganizzato l’esercito e l’amministrazione dello stato, distribuito terre ai nullatenenti. Non solo: ha fatto scrivere da un grande poeta un poema nazionale consacrando l’Italia come cuore dell’impero.

Che cosa vi ha chiesto?»

Fu ancora Arminius a rispondere: «Vuole che proseguiamo la nostra ricerca per capire che cosa significa che Giulia, sua figlia, è al centro fra la vita e la morte, ma noi non siamo spie, siamo guerrieri. Temo però che non sia possibile sottrarsi».

«Temo di no» replicò Tauro.

«Ma noi per ora non siamo in grado di capire ciò che lui vorrebbe sapere. Né sappiamo come fare per avvicinarci alla verità che lui cerca. Giulia è la donna più potente della città e avvicinarsi a lei, per persone come noi, è di fatto impossibile.»

«La donna più potente della città? Forse, ma anche la più fragile... Per quanto vi riguarda: dimostrate la vostra fedeltà a Roma e all’imperatore in questo momento e lui saprà riconoscerla. Quanto a Giulia, non dovrete affatto avvicinarvi, non restereste vivi a lungo. Ora vi dirò quanto avete bisogno di sapere, dopodiché dovrete bastare a voi stessi.»

Provarono una sorta di vertigine, Arminius e Flavus: avevano incontrato l’uomo più potente del mondo e ora avevano la possibilità di restare fra i grandi e i potenti, nel centro della forza dell’impero. Questa consapevolezza faceva sbiadire nella loro mente i tempi dell’infanzia e della fanciullezza. Era una sensazione molto forte che ogni giorno li avrebbe pervasi sempre di più. Lo stesso Arminius ultimamente aveva fatto trasformare la sua leonina capigliatura in una chioma fluente che gli incorniciava il viso e la fronte ma non giungeva alle spalle. Una sorta di eleganza originale con una sfumatura etnica che lo rendeva più interessante. Flavus aveva invece accorciato i suoi capelli biondissimi alla maniera militare e aveva lasciato crescere una corta barba.

Mentre i due giovani prendevano posto davanti al padrone di casa, montava il primo turno di guardia e nel breve silenzio che seguì il discorso di Tauro si poté udire la parola d’ordine dei comandanti di picchetto.

«La notte è ancora lunga» disse Tauro. «Quando uscirete di qui saprete tutto quello che vi è necessario per dare forse un senso completo al messaggio che avete ricevuto...»

Così cominciò a raccontare: «Giulia era l’unica prole diretta di Cesare Augusto, perciò il supremo reggitore, pur non volendo dichiarare direttamente la fine della Repubblica e la nascita di una monarchia dinastica, destinò la figlia a una serie di matrimoni di stato per avere un erede diretto. Dapprima Giulia sposò suo cugino Marco Claudio Marcello, ma il ragazzo morì giovanissimo dopo un anno di matrimonio, in sospetto di avvelenamento, senza aver generato un figlio. Giulia allora fu destinata a Marco Vipsanio Agrippa, maggiore di lei di venticinque anni, e gli generò due femmine e tre maschi: Caio e Lucio Cesari e Agrippa Postumo, così detto perché nacque dopo la morte del padre, avvenuta una decina di anni fa quando voi eravate dei bambini e io ancora nel pieno delle forze. Ma il grembo di Giulia era troppo prezioso per lasciarlo vuoto. Augusto impose quindi a Tiberio di divorziare da sua moglie Vipsania, che pure amava e dalla quale aveva avuto due figli, per sposare Giulia. Per Tiberio perdere la moglie amata fu una ferita insanabile. Dicono che ogni volta che la vedeva in pubblico gli venissero le lacrime agli occhi».

«Se l’amava, perché ha accettato di ripudiarla?» domandò Arminius. «Io non...» Si pentì subito di aver parlato.

Ma pensò Tauro a completare il suo discorso: «Tu cosa? Non l’avresti mai fatto, è così? Da questo mi rendo conto che non hai ancora capito cos’è che fa grande Roma. Qualcosa che voi barbari» Arminius avvampò e Flavus increspò le labbra in un sorriso ironico «nemmeno riuscite a immaginare: lo Stato. Allo Stato, cioè al Popolo, al Senato, all’esercito e ai magistrati, agli dei e ai sacerdoti, ai templi e ai sacri confini, alle Vergini consacrate che custodiscono il fuoco ancestrale nel loro santuario, ai nostri mari e alle nostre terre siamo disposti a sacrificare qualunque cosa e qualunque persona: la casa e i campi, le spose e le sorelle, i figli e le figlie, i beni e le dimore degli avi.

So cosa pensi, che questi ideali sono di pochi, che molti di noi sono corrotti dal denaro e dall’avidità di possedere sempre di più, da costumi decadenti diffusi dal lusso e dal potere ultimo ed estremo: il possedere altri esseri umani come se fossero oggetti o, a malapena, animali. Ma quei pochi rimasti, cresciuti nella dura disciplina dei padri e a essa tuttora fedeli, sono sufficienti a mantenere vivi gli ideali anche per coloro che li hanno perduti. Le lacrime di Tiberio, se davvero vi furono, esprimevano quanto dolorosa fosse la rinuncia, ma anche la ferma intenzione di anteporre l’obbedienza allo Stato e al suo supremo reggitore ai sentimenti e agli affetti privati per quanto profondi e intensi potessero essere.

Tiberio ebbe sufficiente tempo per concepire un figlio e per vederlo nascere negli accampamenti di Aquileia, la città delle aquile legionarie, e poi morire, generato contro voglia in quell’estremo lembo d’Italia. Dopodiché ripartì alla testa del suo esercito verso le terre orientali per estendere il nostro dominio fino al Danubio.

Giulia invece, stanca di subire matrimoni politici fin da quando aveva quattordici anni, il marito ora lontano in terre selvagge, il corpo, dopo il parto, di nuovo snello e desiderabile, si diede finalmente alla bella vita dell’Urbe che aveva sempre sognato. Le feste, gli abiti più eleganti, i profumi e i gioielli, gli spasimanti che si sarebbero tagliati le vene per avere i suoi favori. A qualcuno di loro si concedeva, ad altri si negava per il gusto di vederli rosi dalla gelosia e torturati dal desiderio...»

Arminius e Flavus pensarono in quel momento la stessa cosa: che forse anche Tauro si era tormentato per lei o forse di lei aveva goduto.

Il centurione riprese a parlare mentre accarezzava un piccolo bracciale di argento e ambre nordiche: «Le sue intemperanze furono sempre tollerate. Il padre sapeva bene di essere in debito con lei per gli eredi dell’impero. Se a volte lei esagerava preferiva scriverle: “Mi dicono che non ti sei comportata bene l’altra sera in casa di questo o di quello... Ricordati della tua posizione e delle tue responsabilità... Quell’abito era troppo scollato...”. E lei era capace di rispondere sempre a tono».

Arminius e Flavus di nuovo pensavano la stessa cosa: come potesse Tauro conoscere una simile corrispondenza. Forse, però, si trattava di frasi solo immaginate, dette per lasciare intendere quanto in alto fosse arrivato, o di semplici indiscrezioni filtrate dalla casa imperiale. In ogni caso dalle parole di Tauro si capiva bene che questioni di tal genere si risolvevano sempre in famiglia e che lei era di fatto intoccabile perché il padre l’amava sinceramente e lei lo sapeva.

«Ma questa sua sicurezza potrebbe finire per tradirla...»

Tauro fece una pausa e Arminius pensò che avesse terminato il suo discorso, ma si trattava d’altro: Privato entrava in quel momento assieme a un servo con due piccole mense per una cena frugale. Un’altra fu portata subito dopo per il padrone di casa, che assaggiò qualcosa poi riprese a parlare.

«Caio e Lucio» disse «sono la gioia del nonno. Augusto li ha adottati tutti e due come figli. Hanno pochi anni meno di voi e presto saranno inviati presso le legioni per formarsi e prepararsi a diventare grandi condottieri di armate.»

«Come il comandante Druso?» domandò Flavus.

«Come il comandante Druso» assentì Tauro. «Agrippa Postumo è più piccolo e di carattere schivo e poco espansivo. Ciò non toglie che anche lui verrà trattato, al momento opportuno, in proporzione al suo rango.»

Tutto sembrava quindi chiarito da quanto il centurione stava dicendo, ma le sue rivelazioni non erano terminate: «Anche Giulia è affezionata ai suoi figli, ma ultimamente sembra molto distratta dalle sue frequentazioni. Sono queste che potrebbero tradirla...».

Tauro sospese il discorso e prese ancora dal suo piatto qualche cucchiaio di lenticchie stufate con un po’ di focaccia cotta sulle braci. Arminius e Flavus non fecero domande, aspettando che continuasse con il suo racconto: «Le persone che frequenta sono una specie di circolo letterario che è però sospettato di aver diffuso insinuazioni e critiche anche dure al governo di Augusto. L’imperatore non sembra darsene cura, ma sono sicuro che non gli sfugge niente: i suoi informatori sono dappertutto e credo che qualcuno si sia anche infiltrato fra i componenti del gruppo. Il messaggio dell’hermundur che voi avete ricevuto era evidentemente a sua conoscenza perché il guerriero fa parte della sua guardia del corpo. E tu, Arminius, hai scoperto che Giulia è la figura centrale di quella situazione. Non sai perché, ma è quasi certo che hai colto nel segno. Lei è il centro di tutto, della vita e della morte.

Le sono affezionato e farei qualunque cosa per salvarla dalle sue imprudenze e dalle sue frequentazioni ma non credo che potrò fare nulla per il semplice motivo che l’animatore di quel circolo è l’uomo di cui è sempre stata innamorata fin da bambina: Iulo Antonio, figlio di Marco Antonio e della sua prima moglie Fulvia. Attorno a lui ruotano personaggi loschi: cesariani orfani del Dictator perpetuo, feroci e rancorosi; veterani delle guerre civili che non sono più capaci di adattarsi alla pace e ancora sognano sangue, vendette e sommosse; rampolli della nobiltà repubblicana, frustrati e impotenti, che non hanno ancora capito che il mondo è cambiato. A lei sembra un gioco eccitante che l’affascina perché le è stata rubata l’adolescenza e la gioventù e non si accorge che sta giocando con il fuoco.

Lo stesso Augusto non osa colpire perché è terrorizzato alla sola idea della guerra civile e perché ha dedicato la sua vita a fare in modo che non si ripeta mai più.»

Masticò erbe amare con un po’ di pane abbrustolito, in silenzio, lasciando che le voci della notte penetrassero le mura della sua casa.

«Che cosa possiamo fare noi?» domandò Flavus.

Tauro sembrò riscuotersi e, mentre faceva cenno ai suoi liberti di togliere le mense, fece versare del vino rosso in tre coppe. Due le porse ai suoi ospiti: «Bevete, chissà che il vino non ecciti la vostra mente e vi porti qualche idea che possa esserci utile».

Arminius bevve e gli sembrò di aver compreso: l’imperatore poteva benissimo aver saputo dall’hermundur del messaggio criptico, ma poteva anche averlo concepito egli stesso. Conosceva le sculture dell’Altare della Pace in ogni minimo particolare e quell’immagine soprattutto doveva essere sempre presente nella sua mente. Ma c’era un’altra immagine che si affacciava alla mente di Arminius: la cerimonia della festa di primavera, anni prima, nella foresta germanica. Era accanto a suo padre quando vide la fanciulla coronata di fiori che lo fissò per un istante, fiancheggiata da due altre ragazze e due giganteschi hermundur: anche lì c’erano tre teste fra due corpi. E Sigmer poteva averla ben impressa nella mente.

Gli si manifestò una possibile spiegazione: Sigmer aveva saputo tramite l’hermundur che Giulia era parte di un disegno pericoloso e l’aveva associata a due immagini simili e diverse a un tempo che Arminius poteva riconoscere: la processione nella foresta e la processione nel marmo dell’altare che egli aveva conosciuto e visto il giorno dell’inaugurazione del monumento, quando era stato invitato come sovrano alleato. A lui la scelta di rivelare il significato del messaggio o di tenerlo celato lasciando che la vicenda giungesse alle sue estreme conclusioni per opera forse della stessa Giulia, protetta dalla sua altissima posizione sociale e dall’affetto che avrebbe reso incredulo suo padre. Quest’ultima eventualità avrebbe inferto un durissimo colpo all’imperatore e all’impero. Se invece Arminius avesse scelto di fermare una congiura che gli sembrava a ogni momento più probabile avrebbe guadagnato la fiducia incondizionata dell’imperatore, con tutto ciò che un simile riconoscimento avrebbe comportato.

Tauro dispiegò nuovamente sul suo tavolo di lavoro lo schema della processione dell’Altare della Pace e indicò una figura in particolare, il primo a sinistra sul lato settentrionale, facendo cenno ai due giovani di affiancarlo dalla sua parte del tavolo: «Guardate bene quest’uomo la prossima volta che visiterete l’altare, e fissatevi bene nella mente le sue fattezze. Questi è Iulo Antonio, che Giulia ha amato fin da bambina. Probabilmente è lui che l’ha attirata in una folle avventura che potrebbe annientarla.

E ora ditemi se siete disposti ad aiutarmi.» Arminius e Flavus si scambiarono una rapida occhiata poi, volgendosi al centurione, annuirono.

«Allora siamo intesi» disse Tauro. «È ora di muoversi. Ho riflettuto a lungo prima di questo nostro colloquio e ho pensato di introdurvi in un ambiente che potrebbe costituire un ottimo osservatorio e dove potreste fare incontri di grande interesse: il cantiere della naumachia sul colle Vaticano.

L’enorme lago artificiale che si sta scavando ospiterà la rievocazione della battaglia navale di Azio, di cui ricorre fra non molto il trentesimo anniversario. Per me e quelli come me quella battaglia significa la fine delle guerre civili che insanguinarono le nostre terre per più di mezzo secolo, mentre per certa gente significa l’inizio della tirannia. Di questo tipo di persone fanno parte gli amici che Giulia frequenta.

Non aspettatevi risultati rapidi: potrebbero volerci mesi o anni. Dovrete avere pazienza e molta cautela, ma il vostro ruolo potrebbe rivelarsi cruciale. Siete poco conosciuti ma ben preparati a entrare in società.»

Si congedarono tardi, alla fine del secondo turno di guardia.

Mentre percorrevano il vialetto che conduceva alla loro dimora conversavano come erano soliti ogni volta che capitava loro di vivere esperienze particolari. Ambedue avvertivano un certo disagio per essere di fatto investiti del ruolo di informatori semplicemente perché avevano riconosciuto un’immagine sul fregio dell’Altare della Pace, ma Flavus fece notare che Tauro non li avrebbe mai messi in una posizione che non facesse loro onore. Per questo li aveva educati e allenati, per questo avevano profuso sudore e qualche volta anche sangue: per essere pronti per qualunque evenienza. Avrebbero portato avanti l’incarico più per curiosità che per interesse a progredire nella società di cui ormai erano parte e che forse, grazie a quell’esperienza, sarebbe stata da loro meglio conosciuta.

Entrarono nel cantiere come responsabili della vigilanza. Ci lavoravano migliaia di uomini di tutte le parti del mondo, a seconda delle incombenze sia schiavi che liberi, che parlavano tante lingue diverse e si raggruppavano per etnie, linguaggi e abitudini. Data la situazione era facile che esplodessero risse e tafferugli e questo avrebbe rallentato i lavori, cosa che gli impresari non potevano in nessun modo permettersi. C’erano già i capi squadra e i sorveglianti a occuparsi di quelle baruffe usando la verga e la frusta: il compito di Arminius e di Flavus era semplicemente quello di apparire abbastanza minacciosi da scoraggiare fughe, ribellioni e sommosse. Molto alti e imponenti di corporatura, indossavano loriche muscolate ed elmi attici crestati come quelli degli ufficiali superiori dell’esercito romano; impugnavano lance anziché giavellotti e portavano a tracolla lunghe spade di foggia germanica ma di tempra romana. Fulminei nell’intervenire ogni volta che fosse necessario, si facevano temere al punto che con il passare del tempo gli interventi erano sempre meno necessari e loro apparivano più come statuari ornamenti del terrapieno di contenimento che membri delle forze armate in servizio.

A mano a mano che l’opera procedeva, il sito si affollava di nobili e di matrone dell’aristocrazia romana e i due giovani guerrieri divennero sempre più ammirati, quali capolavori della natura. Non passò molto tempo che cominciarono a essere invitati alle terme, sia in ville private che in impianti pubblici, cosicché le signore dei ceti più alti della capitale del mondo, come pure i ricchi eunuchi che appaltavano i bagni, potessero scacciare la noia ammirando la sfolgorante nudità dei giovani guerrieri germanici. Arrivarono poi inviti a feste e banchetti, e quindi relazioni di amicizia e anche più intime, prima con giovani liberte e poi con donne di illustri famiglie, i cui mariti erano assenti perché governatori di lontane province.

Quel tipo di relazioni, l’essere accettati o addirittura quasi contesi dai potenti e dalle donne più belle e sofisticate, li fece sentire appagati e lusingati, sempre più parte di un mondo che li aveva prima tenuti ai margini. Il loro linguaggio e la loro pronuncia si perfezionavano sempre di più fino a metterli in condizione di percepire le sfumature e le ironie, i sottintesi e i doppi sensi, e di esprimersi spontaneamente in modo simile. Sapevano bene di essere comunque considerati barbari, figli di nazioni selvagge e indomabili, ma sapevano anche che in quello stava gran parte del fascino che esercitavano su coloro che li invitavano.

Cominciarono a recepire i pensieri e le inclinazioni anche politiche di questi potenti e a confrontare le sculture marmoree in cui apparivano maestosi e solenni, pensosi e amabilmente umani, con la realtà quotidiana, con gli intrighi, i risentimenti e la meschinità. La barbarie, che in un certo senso era la loro forza, iniziò a diventare un peso, per cui tendevano a celarla.

Così erano in condizione di venire a conoscere ciò che avrebbe potuto interessare il supremo potere e di discuterne con Tauro, ma mai si piegarono a riferire o a informare, rifiutando la delazione, comportamento proditorio e indegno dell’educazione guerriera che avevano ricevuto dapprima come campioni germanici e poi come ufficiali – questo pensavano che sarebbero un giorno diventati – della più grande e più potente armata esistente al mondo.

Con il passare del tempo, Arminius e Flavus vennero impiegati in mansioni più importanti che quella di responsabili dell’ordine sul cantiere del colle Vaticano e alloggiavano spesso negli accampamenti degli ausiliari germanici anziché nella loro residenza sull’Aventino. Poi, un giorno, furono convocati al porto di Ravenna e trovarono ad attenderli il centurione di prima linea Marco Celio Tauro.

Si strinsero calorosamente la mano e il braccio alla maniera militare, poi Tauro parlò: «Lei è veramente il centro di tutto: della vita e della morte. Ma qualcuno deve salvarla da se stessa. Ho messo a punto un piano, ma ho bisogno di voi. Mi aiuterete?».

«Ti aiuteremo, centurione. Che cosa dobbiamo fare?»

«Dovrete sottoporvi a un duro addestramento...»

«Addestrati... per che cosa?» chiese Flavus.

«Per una battaglia navale» rispose Tauro.