Qualche giorno dopo la pubblicazione del documento inviato da Augusto al Senato, Arminius fu nuovamente convocato da Tauro assieme al fratello.
I due giovani si recarono di primo mattino alla residenza del centurione, che li accolse nel suo studio privato, dove Thiamino servì per colazione tre tazze di brodo con pane abbrustolito.
Mangiarono con appetito, finché Tauro si asciugò le labbra con un tovagliolo, accennò al suo liberto di levare le mense e si rivolse ad Arminius: «Il tuo gesto è stato notato da tutti, compreso l’imperatore, ma non tutti si sono spiegati perché sei fuggito, tanto che qualcuno ha pensato che fossi caduto in acqua e annegato. Cesare, però, non aveva dubbi e mi ha convocato ieri notte».
Arminius non aprì bocca e Tauro proseguì: «Sono debitore della vita a quel ragazzo, mi ha detto, e mi dispiace enormemente non dargli un riconoscimento pubblico che merita ampiamente. Non posso d’altra parte premiare pubblicamente il giovane straniero che mi ha salvato dalla congiura di cui era parte la mia unica figlia...».
Mentre parlava con le parole dell’imperatore, Tauro rivedeva la scena di quel dialogo drammatico: «Cesare... perdona il mio ardire, ma forse è presto per pronunciare una sentenza così severa. Ti prego di... Basta così centurione, sai che ti stimo e più volte ti ho reso onore con le più alte decorazioni, ma non dire una parola di più.»
Arminius lo guardò e vide gli occhi del soldato indurito da infiniti combattimenti inumidirsi, ne udì la voce tremare. Non poteva essere che amore. Un amore segreto e tormentato, impronunciabile, mai confessato nemmeno a se stesso per la bella signora, per la figlia dell’uomo più potente del mondo che l’aveva anch’egli sempre amata e forse l’amava ancora nello stesso momento in cui infangava pubblicamente il suo onore. E quella frase davanti al corpo esanime di Febe, l’eroica, umile ancella che aveva preferito togliersi la vita piuttosto che tradire la sua signora, con quanto dolore doveva averla pronunciata!
«Che ne sarà di lei?» domandò Flavus.
Tauro scosse il capo lentamente, lo sguardo a terra: «Non potrà tornare mai più, a meno di un miracolo. Lei, abituata a essere libera, spregiudicata, audace in amore come nella vita, relegata su quello scoglio scabro, impervio, senz’altra compagnia che la madre, non potrà evitare di confrontare gli splendori della sua condizione e del suo rango con la sua presente, miserabile esistenza. Ma non siete qui per ascoltare queste parole: oggi per te è un giorno importante, Arminius».
Il giovane non osò chiedere di che si trattava. Tauro riprese a parlare: «Smettiamola con queste tristi rievocazioni. Siete qui perché ho da comunicarti un messaggio di Cesare in persona: considerati i tuoi meriti, e nonostante la tua giovane età, da questo momento sarai comandante di tutto il corpo degli ausiliari germanici con il grado di prefetto della cavalleria. Questo potrebbe essere per te il primo passo per diventare un giorno cittadino romano di etnia straniera.
Presto ti saranno conferiti incarichi adatti al tuo rango, ma per ora l’imperatore è affranto e non riesce a pensare ad altro che al dramma che vive nella sua casa. Ha decretato il divorzio di Giulia senza nemmeno avvertire il marito, e non si sa ancora se e quando Tiberio rientrerà da Rodi.»
Si rivolse poi a Flavus: «Anche il tuo aiuto e il tuo appoggio sono stati notati, e per te pure ci sarà un trattamento di riguardo».
Rispose Arminius per entrambi: «Ti prego di far pervenire a Cesare la mia e nostra gratitudine. Siamo ambedue molto onorati».
Per diversi mesi l’atmosfera a Roma rimase pesante. Molte importanti famiglie erano state colpite, e la sorte di Giulia sembrava a molti troppo severa. Anche il popolo era dalla sua parte e la considerava vittima di una spietata ragione di stato. Ma Livia, moglie di Augusto e madre di Tiberio, era ben vigile e si poteva essere certi che finché fosse stata viva lei avrebbe fatto il possibile e l’impossibile perché non tornasse. Giulia aveva solo una speranza: i suoi figli Caio e Lucio, che erano stati adottati da Augusto e preparati per la successione. Solo loro, forse, avrebbero potuto liberarla.
Passò del tempo prima che Arminius fosse convocato per un incarico: si trattava di recarsi a Brindisi, un porto importante da cui si salpava per l’Oriente. Per lui, la destinazione finale era sconosciuta e anche le persone con cui avrebbe viaggiato. Flavus sarebbe rimasto a Roma con Tauro, ma presto sarebbero partiti insieme per un’altra missione, forse in Germania. Si salutarono con un abbraccio.
«Stai attento a dove metti i piedi dovunque tu vada» disse Flavus.
«Anche tu. E se dovessi andare in Germania, cerca di vedere nostro padre e di fargli capire che non lo abbiamo mai dimenticato.»
«Lo farò» rispose Flavus, «ma lui lo ha sempre saputo.»
Arminius montò a cavallo e assieme a un altro gruppo di soldati prese la direzione della via Appia, la via lastricata più antica di Roma, che attraversava le paludi, poi l’Appennino, per arrivare a destinazione al porto di Brindisi. Il viaggio durò soltanto una settimana perché avevano pochi bagagli e potevano cambiare i cavalli a ogni stazione lungo la strada. Dormivano cinque ore al massimo, lo stretto necessario, e ripartivano procedendo finché c’era luce. Del gruppo facevano parte una decina di ausiliari germanici, dieci soldati romani e due ufficiali: Sergio Vetilio, tribuno militare della Diciottesima legione, e Rufio Corvo, prefetto di un’ala di cavalleria della stessa. Durante la marcia Arminius cercò di attaccare discorso con i suoi compagni di ventura: «Visto che ci aspetta un lungo viaggio, sarà bene conoscerci, se non vi dispiace».
«Per nulla» rispose Vetilio e si presentò con i suoi tre nomi, Sergio Vetilio Celere, il grado, la coorte e la legione di appartenenza. E lo stesso fece Rufio Corvo Afro.
«E tu chi sei?» domandò Rufio.
«Il comandante di questo reparto» rispose Arminius.
«Che cosa?» domandò Sergio Vetilio.
«Il comandante di questo reparto» ripeté Arminius. E mostrò la sua credenziale firmata dal centurione Tauro per conto della casa imperiale.
«Ma chi sei?» insisté Rufio. «Non puoi essere più alto in grado di me.»
«Non lo sono infatti» rispose Arminius. «Ho questo incarico per ordine di Cesare. Se questo vi crea problemi, una volta arrivati rivolgetevi al comandante del porto che è già informato.»
«Credo di aver capito» disse Sergio Vetilio. «Devi essere quello di cui tutti parlano.» E il discorso finì lì.
Durante il viaggio ebbero modo di conoscersi meglio consumando i pasti insieme, scambiando idee e discutendo della missione che li attendeva.
«Da dove vieni?» domandò a un certo punto Rufio.
«Ha importanza?» ribatté Arminius.
«No» rispose Rufio. «Pura curiosità.»
«Avremo tempo per soddisfare le nostre curiosità» concluse Arminius.
La nave che li attendeva all’ancora nel porto era una unità della marina militare e il gruppo salì a bordo di buon mattino. Vedere una grande nave da battaglia salpare le ancore e mollare gli ormeggi era sempre uno spettacolo emozionante, soprattutto per Arminius che prima di arrivare in Italia non aveva mai visto il mare. I suoi uomini si misero comodi essendoci un intero equipaggio che si occupava di governare la nave. Si erano sdraiati sulle vele di riserva ripiegate o sulle brandine fornite loro per dormirci la notte. Solo i due ufficiali si aggiravano lungo le murate o si piazzavano a poppa in timoneria o a prua per osservare l’orizzonte o i movimenti dell’equipaggio e ascoltare il ritmo dei tamburi che scandivano la voga di centosettantacinque rematori come se fossero un sol uomo.
Appena il vento fu favorevole i rematori tirarono a bordo i remi e l’equipaggio issò la vela maestra e il fiocco di prua. Sulla grande vela campeggiava l’immagine di un mostro con corpo di leone, coda di serpente e una seconda testa, di ariete, sulla schiena. Al di sotto, una scritta con il nome del vascello: CHIMAERA.
Ciò che colpì di più Arminius durante il suo transito sulla nave fu che uomini e macchina erano un tutt’uno: la macchina era una specie di estensione degli uomini; gli uomini erano l’energia che muoveva la macchina e la faceva funzionare. Gli sembrava di ricordare che suo padre gli avesse descritto quel tipo di esperienza che aveva fatto a bordo dell’ammiraglia del comandante Druso sul Reno, ma nessuna narrazione poteva rendere la realtà di quello che stava vedendo con i suoi stessi occhi. Persino la forza del vento veniva domata dai timonieri che la raccoglievano nella vela disponendo la nave nell’assetto giusto. La velocità che poteva assumere il vascello spinto dalla piena forza del vento era molto elevata, ma quella stessa velocità non poteva dispiegarsi completamente se il mare non era disposto a tollerarla. Se le onde erano troppo alte si trasformavano in altrettanti ostacoli per la prua e per lo scafo che a ogni urto emetteva rumori sinistri facendo capire all’equipaggio che doveva ridurre la velatura per non distruggere la nave. Un equilibrio incredibile fatto di vento, scafo, mare e uomini. Arminius comprese anche che le navi del comandante Druso, fatte per navigare su un fiume, non avevano molto in comune con Chimaera, fatta per navigare sulle onde del mare.
Doppiarono il capo Malea e fecero rotta fra oriente e mezzogiorno passando da un’isola all’altra, alcune nude e scabre, altre coperte di pini e di palme come piccoli paradisi solitari. Arminius non aveva mai visto isole ed era stupito e ammirato per quei paesaggi di roccia e d’acqua, per le piccole cale e i profili rocciosi che emergevano dalle onde come schiene di draghi. La luce era ciò che più lo riempiva di stupore: il cielo e il mare la riflettevano in mille sfumature diverse. Ogni onda era uno specchio dai mille splendori e di notte il riflesso della luna era una lunga scia d’argento che si perdeva all’orizzonte. Capì allora perché quel mare aveva incubato tanti regni e tante civiltà e quale abisso divideva la sua terra ancestrale, cupa e paludosa, da quei luoghi sfolgoranti. Avrebbe mai potuto tornare ai lunghi, gelidi inverni e lasciare quel mondo di luce e di infiniti colori?
Dopo sette giorni di navigazione la nave attraccò a Rodi. Il comandante, prima di sbarcare i suoi passeggeri, diede ad Arminius una cassetta da consegnare a un uomo che l’attendeva al porto. Doveva poi accompagnarlo al luogo del recapito per accertarsi che arrivasse all’illustre personaggio cui era diretta.
Arminius incontrò al molo la persona di cui gli aveva parlato il comandante: un liberto greco di nome Antemio che doveva essere parte della servitù di una casa molto distinta. Gli consegnò la cassetta che questi aprì subito, rivelando alcune lettere sigillate, e si fece imprimere il sigillo della casa su una tavoletta cerata per ricevuta. Non fu facile comunicare: il latino di Antemio era pessimo e Arminius sapeva solo due o tre parole di greco. Quattro dei suoi uomini tra cui Rufio Corvo e Sergio Vetilio, li seguivano come scorta in ordine sparso e servivano di tanto in tanto da interpreti.
Percorsero una strada in salita e dopo aver svoltato dietro un grande tempio si trovarono di fronte a uno spettacolo che lasciò Arminius senza respiro. Un gigante di bronzo, di cui restavano erette soltanto le gambe fino al ginocchio, giaceva a pezzi sul terreno circostante: la testa raggiata rotolata su un lato, il torso che mostrava la cavità interna vasta come una caverna che avrebbe potuto contenere una trentina di uomini, le braccia enormi e le mani così grandi che nessun uomo, per quanto possente, avrebbe potuto abbracciarne il pollice. Doveva essere il colosso di Rodi, di cui aveva sentito parlare dal suo maestro Diodoro, ma vederlo con i suoi occhi lo riempì di stupore. Come era stato possibile innalzare un simile gigante? Sergio Vetilio comprese il suo stato d’animo: «Fu costruito in un’epoca in cui tutto sembrava possibile, ma dicono che lo scultore fece un errore nella progettazione e si suicidò per la disperazione». L’aveva abbattuto un terremoto.
Arminius avrebbe voluto chiedere molte altre cose, ma non voleva sembrare ignorante e continuava a camminare affascinato da tante meraviglie. Si rese conto che ci doveva essere un motivo misterioso se i popoli e le nazioni che vivevano attorno a quel mare si erano alla fine riuniti per volontà o per forza in un grande impero che tutti li comprendeva e li teneva avvinti a un destino comune che si chiamava Roma. Quell’impero sarebbe durato ancora per secoli. Solo un cataclisma o forse il martello di Thor avrebbe potuto abbatterlo come il gigante di bronzo che giaceva a pezzi a ricordare la sua grandezza. E dopo il suo crollo il mondo sarebbe piombato in una lunga oscurità. Riandò con la mente al momento in cui aveva deciso di scagliare la lancia a inchiodare la mano che si preparava a colpire Cesare con un dardo micidiale di balista. Pensò finalmente di aver fatto bene, anche se nessuno lo avrebbe mai saputo. Era giusto così.
Quando arrivarono a destinazione – una bellissima villa circondata da un giardino di palme, mirti, pini, fichi e melograni – fu introdotto da Antemio nell’atrio e lì attese finché apparve un personaggio imponente per corporatura e minaccioso per l’espressione grave del volto. Antemio gli sussurrò: «È Tiberio Claudio, il fratello di Druso, comandante delle armate imperiali, figlio dell’Augusta Livia».
Arminius osservò intensamente il principe triste esiliato da anni in quella prigione dorata, lontano da Roma, indesiderato nella capitale dell’impero. Forse l’astuccio che gli veniva porto in quel momento da Antemio conteneva una lettera di sua madre con le ultime notizie. Tiberio lo aprì subito e scorse rapidamente uno dei rotoli, rabbuiandosi. Si rivolse subito dopo ad Arminius. «Quindi tu sei l’uomo che ha salvato la vita a Cesare» disse gelido.
Arminius si limitò a chinare il capo.
«Sei molto giovane... forse avrai tempo per pentirtene.»
Arminius non seppe che cosa rispondere e scelse il silenzio.
«Aspettami. Devo consegnarti le risposte per coloro che mi hanno scritto.»
Arminius attese per quasi due ore, servito ogni tanto di bevande e di frutta fresca.
Alla fine Tiberio tornò, seguito da un servo che recava l’astuccio foderato in pelle con le risposte per i suoi corrispondenti.
«L’uomo a fianco del quale deciderai di combattere sarà un uomo fortunato» disse. «Antemio sa a chi dovrai consegnarle prima di riprendere la rotta per la tua destinazione. Fai buon viaggio.»
«Ti ringrazio, comandante» disse, e uscì con Antemio riunendosi ai suoi uomini.
Giunti al porto, il liberto condusse Arminius a bordo di una snella imbarcazione d’altura diretta a Ostia per varie consegne alla casa imperiale. Consegnata la posta, Arminius si fece portare alla triera che li aveva condotti fin là.
Era rimasto colpito dall’incontro con Tiberio: un’esperienza che gli aveva dato un senso di vertigine. In pochissimo tempo era arrivato vicino ai massimi vertici del potere e stava facendo esperienze che mai avrebbe nemmeno sognato di fare. Aveva anche imparato come comportarsi con quel tipo di persone: parlare solo se richiesti e il minimo possibile. Uomini di quel genere erano sempre circondati da uno stuolo di adulatori, spie e cortigiani, di cui di solito avevano schifo, soprattutto quelli di carattere serio e riservato com’era Tiberio, un uomo educato all’antica, un soldato infaticabile, ma espertissimo dei meandri della politica di famiglia e dell’ipocrisia che vi regnava sovrana. Gli ultimi eventi, di cui certamente era stato informato, dovevano averlo ulteriormente disgustato. Il suo animo comunque doveva essere molto combattuto. Difficile rendersi conto di cosa e quanto sapesse di ciò che era accaduto.
La mattina dopo, prima dell’alba, Arminius era già pronto a imbarcare il misterioso passeggero che i suoi uomini erano andati a prelevare alla sua abitazione sotto il comando del tribuno Sergio Vetilio. Li vide giungere come un piccolo corteo di ombre da una delle strade tortuose che scendevano dalla collina prospiciente il porto. Fece calare la passerella al momento opportuno e schierò gli uomini rimasti a bordo, Romani e ausiliari germanici, per l’accoglienza e gli onori.
Non riuscì a vedere bene in faccia il passeggero che saliva a bordo. Si limitò ad accoglierlo con il picchetto d’onore mentre la scorta lo accompagnava a poppa nel suo alloggio.
Albeggiava.
Ritto a prua, Arminius scrutava l’orizzonte velato di una leggera foschia e attendeva che il sole salisse a disperderla. C’era un vento fra oriente e settentrione che consentiva una buona navigazione a vela. Risuonò una voce al suo fianco: «Tu devi essere il responsabile della mia scorta». Arminius ebbe un lieve trasalimento non avendo percepito il rumore di alcun passo. La persona che gli stava a fianco era infatti a piedi scalzi e non indossava altro che una tunica a maniche lunghe.
«Sono Publio Quintilio Varo» disse, «e ho governato la Siria fino all’insediamento del nuovo governatore un anno fa.»
«Salve, legato» rispose Arminius, «sono il responsabile della tua scorta e mi assistono il tribuno Sergio Vetilio e il prefetto di cavalleria Rufio Corvo. Siamo a tua disposizione. Le previsioni del tempo sono buone e la traversata dovrebbe essere tranquilla. Sbarcheremo a Laodicea entro sei o sette giorni a seconda del vento.»
«Sembra che tu abbia sempre navigato» rispose Varo. «Quante volte sei stato per mare?»
«È la mia prima volta, legato, con una responsabilità, ma sono stato istruito per qualche mese nella base di Ravenna.»
«Incredibile» rispose Varo. «D’altra parte se è vero quello che si dice di te, non c’è da meravigliarsi. Sei un giovane di grande intelligenza e con spirito di iniziativa. È vero che hai consegnato la posta a Tiberio Claudio?»
«È vero, legato.»
«E non hai niente da dirmi riguardo a ciò che conteneva?»
«Niente, legato.»
«Ovviamente» rispose Varo senza più insistere.
Si incontrarono di nuovo l’indomani dopo la convocazione dell’equipaggio in vista di un peggioramento del tempo. Il comandante stabilì che al rinforzare del vento si sarebbe prima ridotta e poi imbrogliata la vela e l’equilibrio della nave sarebbe stato affidato ai rematori e al timoniere. E aggiunse: «Speriamo che il vento rinforzi finché è giorno. Intanto cerchiamo di avvicinarci alla costa, meglio affrontare il pericolo degli scogli che il mare grosso in altura. Potremo trovare per lo meno un riparo. Usiamo la vela finché è possibile, guadagneremo tempo».
Né Arminius né Publio Quintilio Varo sembravano preoccupati e rimasero a conversare insieme: evidentemente il legato sapeva di quel giovane molto più di quello che lasciava intendere. Inoltre era ben noto il suo legame con l’imperatore. Il motivo Arminius lo avrebbe scoperto parlando con Sergio Vetilio e Rufio Corvo, due uomini leali e due esperti ufficiali, evidentemente tenuti in considerazione per missioni piuttosto delicate.
Intanto il cielo aveva cominciato a oscurarsi e il vento a rinforzare, ma nello stesso tempo si cominciava a vedere la costa verso settentrione e poi il golfo di Antalya, ridossato dal Tauro orientale. Il comandante ordinò di mettere il timone a babordo e di tenere sempre lo scandaglio in acqua. Il mare s’ingrossò in un tempo più breve del previsto: la vela venne subito imbrogliata e il battitore alzò il ritmo della voga per raggiungere al più presto la costa occidentale del golfo. Ma il vento da settentrione spingeva la nave verso il largo facendola scarrocciare sulle onde orlate di spuma grigia. Una folata improvvisa e fortissima la fece inclinare sul fianco destro e strappò il pennone dall’albero facendolo cadere sulla tolda. Rufio, che stava cercando di dare una mano all’equipaggio, vi restò intrappolato sotto. Arminius si precipitò per aiutarlo impugnando l’asta di un remo per fare leva. Il prefetto riuscì a strisciare da sotto e liberare la gamba, scorticata e sanguinante ma non spezzata. Fu portato subito nel castello di poppa al riparo e lì affidato alle cure di un medico. Poi Arminius tornò in coperta ad aiutare la ciurma a fissare in qualche modo il pennone alla base dell’albero e la vela al pennone perché non facesse altri danni. Publio Quintilio Varo lo osservò dalla sua cabina rimanendo impressionato per la forza e la prontezza di riflessi del giovane ufficiale che comandava la sua guardia.
Il battitore accelerò al massimo il ritmo di voga per vincere la forza del vento, e la prua della nave, lentamente, riuscì a entrare nel ridosso delle montagne e poi del promontorio. Il battitore diminuì la frequenza per far rifiatare i rematori e la nave continuò ad avanzare verso il fondo del golfo dove il mare era quasi calmo.
Il sole si mostrò fra la coltre delle nubi e l’orizzonte spandendo un bagliore sanguigno sul cielo e sul mare. Alla fine, la nave diede fondo alle ancore da prua e da poppa, e si fermò per passare la notte in rada.
L’equipaggio accese i lumi di bordo per segnalare la presenza di Chimaera ad altre navi che avrebbero potuto cercare rifugio lì durante la notte. Il comandante fece distribuire una cena molto frugale sia all’equipaggio che ai rematori e un bicchiere d’acqua a testa. Arminius si sedette vicino a Rufio e Sergio Vetilio, e gli fu gradito di cenare con loro dopo una giornata così intensa e faticosa. Parlarono del loro passeggero e così Arminius apprese che quell’uomo era vicino all’imperatore, avendo sposato Vipsania, la figlia di Agrippa e della sua prima moglie, aveva fatto da arbitro e giudice in una causa fra il re Erode di Giudea e i suoi figli ed eredi, e aveva domato una rivolta a Gerusalemme facendo crocifiggere duemila ribelli.