La mattina successiva, durante la colazione, Varo volle congratularsi ancora con Arminius per come aveva soccorso l’ufficiale di cavalleria Rufio Corvo, incastrato sotto il pennone caduto dall’albero sulla tolda. Volle anche vedere lo stesso Rufio, che gli si avvicinò zoppicando. La gamba era dolorante perché il chirurgo aveva dovuto cucire i bordi slabbrati della ferita che lasciava scoperta la parte esterna della tibia. Un bendaggio ben fatto era stato applicato attorno alla gamba dopo il lavaggio con aceto forte e vino schietto perché non s’infettasse.
La mareggiata era meno intensa rispetto al giorno prima e la navigazione poté riprendere dopo che il pennone fu rimesso in posizione con la sua vela per metà imbrogliata per non esporre troppa superficie al vento ancora robusto. Passarono lungo la costa della Panfilia e qualche volta, quando il comandante virava verso sud per raccogliere meglio il vento, si poteva intravvedere qualche montagna di Cipro a meridione. Il quarto giorno si affacciarono alla Cilicia, retta da un anziano sovrano senza eredi. Facile prevedere quale fosse il futuro di quel piccolo regno.
Il vento era girato e spirava ora da libeccio. Il mare era abbastanza calmo ed era consolante pensare che quella terra di pirati feroci era stata del tutto pacificata da Gneo Pompeo mezzo secolo prima. Aveva confinato tutti i pirati nel golfo di Alexandria di Cilicia poi aveva chiesto loro se volevano diventare agricoltori e trasferirsi nell’interno o se preferivano essere crocefissi dal primo all’ultimo. Risposero che preferivano fare gli agricoltori.
Varo ridacchiava raccontando quei lontani eventi.
Si navigava ormai anche di notte e ogni alba era più bella di quella del giorno precedente. Di tanto in tanto si passava rasente a isolette disseminate qua e là nel mare e Arminius avrebbe voluto sbarcarvi per vedere com’era trovarsi su una piccola isola. Si chiedeva infatti come fosse quella in cui era stata confinata la bella signora: la immaginava vagare negli angusti spazi di quella terra ingrata o sedere su uno scoglio a scrutare l’orizzonte come un naufrago, in attesa che arrivasse una nave a liberarla.
Giunsero infine a Laodicea accolti da un drappello di cavalieri e, dopo aver pernottato, presero la strada per Antiochia.
Arminius era molto eccitato da ciò che stava vedendo e provando. L’Oriente si apriva davanti ai suoi occhi con immagini strabilianti. Città antichissime sorte quando il suo popolo ancestrale non aveva ancora coscienza di esistere: Aleppo e Gerusalemme, Babilonia, Damasco, Tiro e Sidone, Biblo e Tapso. Altre ancora divenute negli ultimi trecento anni centri di abbagliante splendore: Antiochia, Gaza, Seleucia, Alessandria e Palmira. Da Diodoro aveva appreso della loro esistenza e della loro grandezza passata e presente, e di quando Alessandro il Grande aveva riunito tutte le nazioni dal Danubio all’Indo e al Nilo in un unico sterminato impero che si era poi dissolto subito dopo la sua morte. E spesso meditava su questo evento, se fosse fatale che ogni impero fosse destinato a crollare, forse anche quello di Roma. E in quel momento il pensiero quasi lo spaventava.
Durante le soste nelle stazioni di cambio o nelle città Varo cercava di conversare con il giovane che comandava la sua guardia e che dimostrava un grande acume e una grande capacità di apprendere. «Ora il mondo è diviso fra due imperi: il nostro e quello dei Parti, che si estende verso oriente fino all’India e costituisce una minaccia continua per i nostri confini e per i nostri alleati. Si dice che Giulio Cesare, prima di essere assassinato, stesse organizzando l’invasione dell’Impero partico per estendere i nostri confini fino al cuore dell’Asia, dove soltanto Alessandro era arrivato tre secoli fa. Il progetto finì con la sua morte.»
Il viaggio proseguì fino ad Antiochia, una città meravigliosa, la terza dell’Impero per grandezza dopo Roma e Alessandria, con vie fiancheggiate da portici colonnati e templi d’incredibile fasto e bellezza, abitati da statue di culto scolpite o fuse dai più grandi artisti del passato e del presente, alcune di esse animate, capaci di muovere le braccia, di inclinare il capo, di roteare gli occhi guardando da una parte e dall’altra. E c’erano ippodromi e bagni con acqua calda e fredda e con piscine lunghe più di cento piedi in cui nuotare e giocare a palla.
Antiochia era il punto di arrivo di tutte le carovaniere che provenivano dalla Persia, dall’India e dalla Battriana con pietre preziose, stoffe di seta, perle e spezie; era la sede del governatore romano che rappresentava il potere di Roma e aveva il comando di quattro legioni, ma era anche il luogo di tutti i piaceri, i più raffinati e scandalosi, luogo di orge e di perversioni, il paradiso dei gaudenti e degli edonisti, il luogo di mille tentazioni, l’ideale per un giovane che volesse conoscere i segreti più tenebrosi e più torbidi dell’animo e del corpo. Arminius aveva lasciato il suo paese ancestrale quando era appena adolescente. L’unico pensiero d’amore gli era nato in cuore il giorno che aveva visto alla festa della primavera una ragazza con una corona di fiori, e i loro sguardi si erano incrociati. Quanto tempo era passato? Un’eternità gli sembrava, non perché fossero trascorsi molti anni, ma perché ognuno di questi anni era stato incredibilmente denso di eventi, di pensieri, di paure e di entusiasmi, di speranze e di sogni, tanto che valeva come tre o quattro e dunque lui si sentiva ormai un uomo, una persona adulta con responsabilità, consapevolezze, e con pensieri complessi, a volte intricati.
I suoi sogni non li ricordava mai, come se glieli avessero tolti o rubati, ma era sicuro che in qualcuno di essi viveva con suo fratello appassionanti avventure, corse sfrenate a cavallo, e voli anche, sulle cime dei monti, rasente le chiome delle foreste, la superficie dei fiumi dove i pesci saltavano fuori dall’acqua splendenti d’argento. Non perché ricordasse immagini, colori e suoni, ma perché i sentimenti e le emozioni che provava nel sonno sopravvivevano nella veglia per pochi istanti ogni mattina.
Quella sera scortò il proconsole Quintilio Varo fino alla residenza del governatore Calpurnio, quindi si allontanò essendo stato congedato e messo in libertà per la serata assieme ai suoi amici Rufio Corvo e Sergio Vetilio, che si erano offerti di fargli da guida nei labirinti del piacere.
Quintilio Varo, ospite della massima autorità romana in Siria, avrebbe passato una notte tranquilla, prima a discutere di affari e di politica con il collega, poi a dormire in una camera confortevole nel centro della guarnigione.
Per Arminius quella notte fu come una discesa in un inferno di sensazioni sconosciute: ardenti, torbide, passionali, e non poté dimenticarla per il resto dei suoi giorni.
Ad Antiochia le prostitute erano dappertutto. Le più ricercate si facevano chiamare alla greca “etere”, ossia “compagne”, vivevano in appartamenti di proprietà, erano di condizione libera e le più conosciute, in virtù delle loro arti erotiche, si davano per somme ingenti, riuscendo ad accumulare vere e proprie fortune. Il sogno di ognuna era di trovare un compagno fisso e facoltoso a cui concedersi in esclusiva. In tal modo lui avrebbe potuto avere rapporti senza il preservativo ed evitare la promiscuità con altri frequentatori; lei sarebbe vissuta nel lusso in una residenza elegante, con il giardino, servi e animali da compagnia, cibi raffinati e vini costosi. Le normali prostitute, quasi sempre schiave alle dipendenze di un impresario, vivevano in quartieri che nessun uomo né donna di rango sociale elevato avrebbe frequentato. Ma Antiochia era la capitale della provincia e nei pressi della città erano accampate almeno due legioni con migliaia di giovani maschi che dovevano soddisfare le loro esigenze.
Giunti all’ingresso di quel quartiere, Rufio Corvo offrì al suo giovane compagno di viaggio un oggetto che l’avrebbe preservato da malattie estremamente sgradevoli e in certi casi deturpanti e gli insegnò come usarlo. Cominciarono quindi insieme il viaggio nella città dell’eros e del piacere. Per prima cosa i tre assistettero a uno spettacolo teatrale in cui le scene d’amore erano rappresentate dal vivo con attori e attrici che si univano in amplessi di uomini con donne, uomini con uomini, donne con donne. In altri casi si mettevano in scena vere e proprie orge in simulati banchetti. Talvolta, in certi teatri, si rappresentavano vicende mitologiche in cui una Leda completamente nuda si offriva a un attore camuffato da cigno, che nel momento dell’estasi erotica emetteva acute e rauche strida da pennuto. Altre compagnie teatrali proponevano l’unione di Pasifae con il toro: una finta regina di Creta, appostata dentro una vacca di legno, era montata da un attore camuffato da toro nel mostruoso amplesso che avrebbe generato il non meno mostruoso minotauro.
Arminius e i suoi due compagni assistettero da ultimo all’unione pederastica di Zeus dove un omaccione grosso e peloso, lasciate le penne dell’aquila, deflorava un passivo e rassegnato Ganimede che ad Arminius pareva troppo ossuto e spigoloso rispetto alle rotondità dei modelli statuari cui l’aveva abituato Diodoro. Il pubblico sembrava più divertito che eccitato, anche perché la povertà della messa in scena e l’inadeguatezza degli interpreti e dei costumi non avrebbero convinto nessuno in ogni caso.
Di tanto in tanto Arminius osservava i suoi amici e li vedeva divertiti come la gran parte degli spettatori. Fu più volte sul punto di proporre un ritorno al loro alloggio lasciando perdere la parte successiva del programma, ma Rufio Corvo e Sergio Vetilio avevano preparato una specie di iniziazione sessuale per il giovane compagno che supponevano inesperto di pratiche erotiche: consideravano poca cosa i suoi incontri con le signore romane attratte dal suo fisico statuario e dai suoi occhi azzurri ma certo ignare delle raffinate pratiche d’amore delle etere antiochene, eredi di arti millenarie affinate nei ginecei degli antichi signori dell’Eufrate e del Nilo per contendersi i loro favori con l’unica arma che possedevano.
Arminius si rese subito conto che i suoi amici erano ben conosciuti in quell’ambiente, da come si muovevano e da come erano accolti e circondati dalle ragazze che lo abitavano. Qui le cose cambiavano: nessuna improvvisazione. La seduzione era un’arte sofisticatissima, e anche la cura dei corpi e dei volti. C’erano ragazze di tutte le etnie: frigie, egiziane, persiane e babilonesi, fenicie e greche, etiopi dalle membra colore del bronzo e dagli occhi umidi, armene dagli occhi verdi e dai capelli corvini, perfino ebree, ognuna abbigliata con i costumi e i gioielli della terra nativa.
Rufio Corvo e Sergio Vetilio affidarono il loro amico alle attenzioni di due ragazze fenicie dalla pelle ambrata, pagando in anticipo le loro prestazioni. Le piccole compagne di piacere gli offrirono del vino, lo spogliarono e, vedendolo così bello e giovane, gli dedicarono tutte le arti più raffinate, portandolo più volte fino a un passo dal delirio. Lo distesero in una condizione di semincoscienza, in una tensione lieve e tremante per poi risvegliarlo ancora e ancora, l’una e l’altra assieme, e fargli conoscere l’estasi estrema.
Durò tutta la notte.
Poco prima dell’alba prepararono un bagno di acqua termale profumata con olio di aloe e si immersero con lui, passandogli una spugna di mare sulla schiena e sul petto. Poi lo asciugarono, lo avvolsero in un telo di lino egiziano e gli si strinsero accanto avvolgendolo con i loro corpi levigati finché non chiuse gli occhi.
Giunsero al quartier generale appena in tempo per presentarsi alla legione, con sul viso i segni di una notte insonne. Dopo aver reso gli onori allo stendardo e all’aquila d’argento si ritirarono nei loro alloggi per recuperare qualche ora di sonno.
Nei giorni successivi Arminius tornò alla città del piacere, ma solo per osservare quel luogo strano e alieno che aveva vissuto per alcune ore senza percepirlo fino in fondo né vederlo in ogni suo anfratto. Voleva capire se anche quella fosse la civiltà del mondo di cui ormai faceva parte. Gli sovvenne di Iole, la prostituta bambina di cui per breve tempo suo fratello Flavus si era innamorato e che forse a quel punto era già morta. Pensò che quello e altri orrori fossero il prezzo da pagare alla civiltà piena e compiuta. Tornò al suo mondo quotidiano, alla normalità. Tornò alla vita di ogni giorno e di ogni notte.
Per un mese tutto si svolse in tranquillità e nella preparazione di un altro viaggio, verso oriente, e Arminius ebbe il tempo di esplorare i segreti di Antiochia e i culti di Baal, di Mitra e di Astarte con le sue prostitute sacre. La dea stessa dell’amore che i Greci chiamavano Afrodite e i Romani Venus si diceva apparisse ai fedeli che dormivano il sonno sacro all’interno del santuario. E quando Rufio e Sergio si accorsero che quel luogo sembrava destare la curiosità di Arminius, fecero in modo che questa venisse soddisfatta. L’impresa che aveva compiuto a Roma valeva di certo l’abbraccio di una dea.
Così, una sera, mentre si aggirava per il quartiere del tempio, Arminius fu avvicinato da un ragazzetto che vendeva acqua e ne prese un bicchiere. Oltre quello non ricordò altro se non il suo sogno: la dea gli era apparsa in un giardino di rose e melograni, rigoglioso, profumato, e la sua bellezza era più inebriante e intensa di quel profumo. Era circondata da un’aura lunare, una luce ialina che ne esaltava le fattezze e il volto. Indossava una veste di un tessuto sconosciuto aperta dalla cintura fino ai piedi. La sua divinità era attestata dall’assenza sul ventre dell’ombelico. Solo un lieve incavo, più un ornamento che una cicatrice. Si era distesa accanto a lui che non riusciva a credere a un simile miracolo. Il sogno era talmente reale che le carezze della dea lo facevano tremare, rabbrividire, vibrare come una canna nel soffio del vento.
E c’era un canto. In una lingua ignota, remota, di una estenuante, sottile armonia. Il desiderio gli bruciava il cuore e i pensieri. Si sentiva ardere tutto di una febbre mai provata prima, il sudore gli imperlava la fronte, lo sentiva scendere come lacrime sul viso.
Poi, senza vedere e senza parlare, s’insinuò dentro di lei, e fu invaso da un vaneggiamento allucinato, da un tremore convulso e incontrollabile. La tensione era talmente forte che avrebbe potuto morirne. Quando si ritrasse da lei anche il sogno svanì, e si sentì sprofondare in un buio più cupo della notte. Un alito caldo soffiava su di lui: il vento delle montagne? Il vento del mare? Poi una pioggia leggera, profumata, gocce di nebbia, gli lavò soavemente il corpo, purificandolo.
Per un attimo fu certo che sarebbe scivolato dal sonno nella morte senza dolore.
E non si sarebbe mai più risvegliato.
Partirono una mattina di buon’ora. Il proconsole Varo viaggiava sulla sua carrozza e di tanto in tanto a cavallo, seguendo la strada che correva fra la Siria e l’Anatolia tenendo a sinistra la catena del Tauro con le cime ancora innevate. A destra si estendeva la pianura, prima verde con vigneti e campi di grano e qua e là ciuffi di palme da datteri, poi più secca e stepposa. I villaggi erano fatti di poche case di mattoni crudi di argilla e paglia dove vivevano gli agricoltori. In una quindicina di giorni arrivarono a Nisibi e poi, piegando verso meridione, a Carre.
Carre. Aveva già sentito quel nome ma non poteva ricordare.
«Ci fu qui, mezzo secolo fa, una spaventosa battaglia» cominciò a raccontare Sergio Vetilio. «Un magnifico esercito romano di ben sette legioni fu annientato dai Parti. Il comandante era il triumviro Marco Licinio Crasso. Si era addentrato in questo territorio ingannato dalle informazioni di capi tribù locali che lo esortavano ad attaccare con tutta la forza disponibile. Incapace quanto avido, Crasso voleva raggiungere Seleucia, dove sperava di trovare il favoloso tesoro dei Parti, e si affidò ai consigli e alle informazioni di un capo Arabo, un piccolo re. Era una trappola. Crasso si spinse a marce forzate in un territorio arido e piatto sotto il sole cocente e la fanteria pesante romana arrivò esausta al contatto con il nemico. Il comandante dei Parti, giovane, astuto, intelligente, seppe manovrare la sua cavalleria corazzata e i temibili arcieri a cavallo, capaci con i loro archi di centrare il bersaglio tirando all’indietro anche mentre fuggivano o fingevano di fuggire...»
Il paesaggio tutto intorno sembrava rendere presenti e tremendi quegli eventi lontani. Varo e i suoi cavalieri guardavano la pianura bruciata dal sole e alla loro sinistra le mura di Carre, antichissima città sempre contesa. Si sentiva solo il sibilo sottile del vento che sollevava una leggera foschia dal terreno nudo, vasto e piatto. Varo sembrava che non ascoltasse che quello, come assorto nelle sue meditazioni. Sergio Vetilio riprese il suo racconto: «Crasso schierò i suoi in un blocco compatto che divenne così ancora più facile da accerchiare per i nemici che non ingaggiavano mai il corpo a corpo ma sempre colpivano da lontano e poi si disimpegnavano. Tutto attorno al blocco romano i Parti facevano rombare dei giganteschi tamburi che incutevano terrore e scoramento tra le file dei legionari. Il comandante romano arrivò a un tale sconforto da sperare che i nemici esaurissero i dardi... Ma era una speranza vana. Centinaia di cammelli erano carichi di quelle armi micidiali. E la pioggia di frecce era continua e incessante. Niente poteva fornire protezione da quella pioggia letale. I dardi trapassavano gli scudi e poi le braccia e le mani dietro di essi. Molti cercavano di svellere le frecce dai corpi martoriati, dalle mani e dalle gambe, ma in tal modo si laceravano la carne provocando terribili emorragie».
Sergio Vetilio sembrava in uno stato di allucinazione, come se la scena si svolgesse davanti ai suoi occhi e Arminius continuava a guardarsi intorno da tutti i lati quasi temesse un’aggressione, come se i cavalieri catafratti, demoni coperti d’acciaio, dovessero apparire da un momento all’altro.
Vetilio si guardò intorno a sua volta e si allontanò di qualche passo. Sembrava l’attore di una tragedia che si muove sul palco, il volto coperto dalla maschera scenica da cui escono i suoi lamenti: «Il comandante romano tentò una manovra azzardata lanciando la cavalleria gallica al comando di suo figlio Publio contro i cavalieri nemici che si allontanarono in fuga dandogli l’illusione di aver condotto una carica vittoriosa: ancora una volta si sbagliava. Quando Publio e i suoi cavalieri gallici si furono abbastanza allontanati dal centro della battaglia, i Parti reagirono circondandoli. Publio, ferito in ogni parte del corpo, domandò al suo attendente di finirlo perché non aveva più la forza di reggere la spada. I Parti gli mozzarono la testa, uno di loro la conficcò su una picca e prima che calasse il sole passò al galoppo davanti alle file romane così vicino che Crasso poté vedere lo scempio del suo figliolo...».
Al narratore la voce tremò mentre pronunciava quelle parole. Rufio Corvo si avvicinò all’orecchio di Arminius: «Il giovane attendente che affondò la spada nel fianco di Publio Crasso e lo aiutò a morire era suo nonno. Non so quante volte l’ho sentito narrare questa storia».
Arminius non si rendeva conto del perché si trovavano in quel luogo a quell’ora ad ascoltare quella tragica rievocazione e perché Varo aveva voluto spingersi fin là e se ne stava ora in silenzio voltando le spalle alla grande distesa deserta.
«Il massacro si fermò al calare della sera perché i Parti, come i Persiani, non combattono mai di notte. Crasso cercò di raggiungere Carre abbandonando i feriti che levavano urla strazianti: il giorno successivo furono tutti uccisi uno per uno. Quattromila uomini. La battaglia durò in tutto tre giorni e due notti, in diversi luoghi e diverse situazioni. Alla fine anche Crasso fu ucciso, la sua testa mozza fu portata a Seleucia e usata, a quanto si seppe in seguito, in una rappresentazione delle Baccanti di Euripide nella scena in cui il re Penteo viene fatto a pezzi dalle donne in un’orgia dionisiaca.»
Sergio Vetilio tacque mentre il cielo si copriva di nubi da settentrione. Varo sembrò riscuotersi: «Andiamo avanti, voglio vedere i luoghi della battaglia».
«Ma, proconsole» disse Rufio Corvo, «forse potremmo rimandare a un altro giorno con un tempo migliore.»
«Voglio farlo ora» rispose Quintilio Varo. «La tempesta è lontana, sui monti.»
I due ufficiali e Arminius si misero dunque alla testa del drappello e procedettero verso meridione. Anche Varo lasciò il suo carro da viaggio e montò a cavallo.
Sia Rufio che Sergio Vetilio conoscevano la strada e Arminius pensò che fosse quello il motivo per cui Quintilio Varo li aveva voluti con sé.
L’itinerario non era privo di pericoli. In quella zona il confine era molto vago perché il deserto si estendeva per centinaia di miglia e le tribù nomadi di predoni andavano e venivano a loro piacimento e con loro anche gruppi di cavalieri parti, veloci e micidiali. Verso la metà del pomeriggio apparvero i primi segni del massacro: armi corrose dal vento, dalla sabbia e dalla ruggine, elmi e spade romane, frammenti di armature smembrate, appena riconoscibili, punte di freccia conficcate nel terreno in tale numero che Arminius e i suoi compagni preferirono scendere per non azzoppare i cavalli e per meglio distinguere i passaggi più sgombri.
A mano a mano che procedevano il paesaggio si faceva via via più angoscioso e spettrale.
Ossa.
A migliaia.
Ce n’erano in quantità spaventosa. I resti dei quattromila feriti abbandonati da Crasso e macellati dai Parti, fatti a pezzi, decapitati. Varo si faceva sempre più accigliato e torvo, non proferiva parola ma lasciava scorrere lo sguardo sullo sterminato campo di morte. Di tanto in tanto il suo volto aveva delle contrazioni, dei trasalimenti improvvisi, come se udisse le urla dei morenti e il tuono dei tamburi.
Poi apparvero ossa di cavalli mescolate a ossa umane, i grandi scheletri dei guerrieri celti di Publio Crasso: si vedevano ancora i segni dei denti delle iene e degli sciacalli che avevano spolpato i cadaveri mezzo secolo prima. C’erano anche dei cavalieri galli nel gruppo degli ausiliari e i loro volti si fecero grigi come la terra al vedere i miseri resti dei loro antichi compagni.
«Torniamo indietro, proconsole, ti prego» disse Sergio Vetilio incapace di sopportare oltre la vista della più grave sconfitta che Roma avesse mai subito dopo la battaglia di Canne. «Il tempo sta peggiorando. Se si alza una tempesta di polvere rischiamo di perderci e di fare la stessa fine di questi sciagurati.»
Varo sembrò finalmente rendersi conto della situazione, mentre si udivano i tuoni rumoreggiare lontano. «Sì» rispose, «torniamo a Carre.»
Il vento rinforzò, sollevando una nube di polvere e il cielo si oscurò, le tamerici secche nel letto dei torrenti aridi furono pervase dal soffio che si trasformava in sibilo e in lamento. I cavalieri si muovevano curvi nella foschia come spettri. Caddero le prime gocce e l’aria si riempì di un odore di polvere spenta, la foschia si diradò, poi un lampo illuminò la pianura di una luce accecante, un tuono fragoroso esplose sulle loro teste e la pioggia cominciò a cadere fitta e pesante. Il terreno non poteva assorbire tutta l’acqua e presto si formarono dei rivoli che confluivano nelle fenditure delle rocce e poi nei torrenti in secca. Arminius pensò ai teschi dei caduti su cui si abbatteva quella pioggia, quasi a dissetarne le mandibole disarticolate, e pensò ancora al motivo di quel viaggio assurdo. Non avrebbe potuto chiederne conto al proconsole, ma forse Sergio e Rufio avrebbero potuto rivelarglielo.
Gli mancava suo fratello, con cui da sempre era abituato a scambiare impressioni e dubbi. Non sapeva nemmeno dove si trovasse.
La pioggia cessò a notte fonda e apparve fra le nubi stracciate la luna piena, che diffuse il suo chiarore sulla pianura gessosa. Arminius vide Rufio Corvo e Sergio Vetilio seduti attorno al bivacco dove stavano asciugando i panni bagnati. Scese da cavallo per unirsi a loro.
«Perché siamo venuti in questo posto dove non c’è niente, e perché siamo andati a vedere il luogo di quella battaglia?»
Parlò per primo Sergio Vetilio: «Sconfiggere i Parti e vendicare questo massacro è stato il sogno di molti comandanti. Varo è stato governatore di questa provincia, è possibile che anche lui abbia pensato di tentare l’impresa. La sua ambizione è smisurata. Ha domato una grande rivolta in Giudea e ha crocefisso duemila persone. Quella però non è stata un’impresa gloriosa: solo l’opera di un macellaio».
«Non capisco» disse Arminius.
«Forse con questo viaggio e questa macabra ricognizione ha voluto cancellare nella sua mente ogni tentazione di gettarsi in un’impresa folle e suicida. Varo non è un pazzo, e la disfatta di Carre è un monito tremendo. Non trovo altra spiegazione.»
Intervenne Rufio: «La tua interpretazione non è plausibile. È molto improbabile che lui possa essere di nuovo destinato a questo fronte, ma sa anche che la sua carriera è ancora aperta e la vicinanza alla casa di Augusto alimenta le sue ambizioni. Ha voluto semplicemente comprendere gli errori del passato per non ripeterli nel caso di una sua impresa militare nel futuro. Credo di averlo capito da certi discorsi che mi ha fatto dopo cena, quando gli ho sottoposto la relazione sul diario degli ultimi giorni».
«E quali conclusioni ha tratto secondo te?» domandò Arminius.
«Non me lo ha detto né avrei osato chiederglielo, ma ho fatto le mie deduzioni.» Rufio elencò contando sulle dita della mano:
«L’esercito romano, anche il più agguerrito, può essere battuto.
Mai fidarsi di uno straniero, anche se nostro alleato.
Mai farsi attirare in un territorio che non conosci ma che è noto al nemico come il palmo della sua mano.»
I tre ufficiali si guardarono l’un l’altro in silenzio. Il richiamo di uno sciacallo, come un lungo lamento, echeggiò dal deserto di Carre.