XIX

Arminius in quell’inverno restò in Germania, dapprima agli ordini del legato Velleio negli alloggi invernali in un forte legionario a occidente del Reno; in seguito chiese il permesso di raggiungere il padre nella sua residenza e Velleio non si oppose. Ricordava che aveva convinto suo padre Sigmer, sovrano dei Cherusci, ad accettare una nuova alleanza con i Romani dopo essersene distaccato e poi aveva indotto lo stesso comandante Tiberio Cesare a ratificarla evitando così, con la sua preziosa mediazione, una lunga e sanguinosa campagna contro la più potente nazione germanica al di là del Reno.

La residenza di Sigmer era ancora come l’aveva conosciuta da bambino e da adolescente assieme a suo fratello Flavus: una costruzione grande a sufficienza per alloggiare una trentina di persone, fatta di tronchi d’albero scortecciati e da un tetto a due spioventi con il lato lungo rivolto a meridione. Davanti alla porta d’ingresso una tettoia sorretta da due pali su cui erano appena abbozzati un capitello e una base. All’interno vi erano diversi ambienti separati da tramezze di canne intonacate e uno centrale e più grande di tutti dove riceveva visite. Alle pareti armi e armature, scudi con lance incrociate, trofei di nemici sconfitti o di prede di caccia abbattute, doni di visitatori importanti messi in evidenza nei punti più illuminati.

Ricordava la camera dei suoi genitori, in cui a volte riusciva a intrufolarsi di prima mattina assieme a Wulf per saltare nell’enorme letto coperto di pellicce di orso e con le pedane di pelle di bisonte.

Aveva molte cose da raccontare a suo padre e anche alla madre, che non avrebbe mai immaginato di trovare ancora viva. Non per l’età, ma per una sua debolezza di costituzione che la rendeva fragile ed esile, e tuttavia soave di aspetto, delicata nei contorni del volto, nella luce azzurra degli occhi.

L’aveva abbracciata e le aveva fatto una ruvida carezza: «Madre, quanto tempo...».

Lei aveva abbassato il capo come per non dare spettacolo della sua emozione, perché le donne germaniche erano sempre e comunque modelli di forza d’animo. Arminius ricordava come gli amici di suo padre solevano esprimere il loro stupore al vedere figli tanto robusti partoriti da una donna così sottile.

«Quanto tempo» aveva risposto lei.

In quei mesi Arminius aveva ripreso ad andare a caccia con suo padre, con suo zio Ingmar a volte, e con la sua guardia del corpo, quasi volesse riabituarsi al rigido clima e alle condizioni aspre di un ambiente che negli anni della sua permanenza a Roma e in Oriente aveva quasi dimenticato. Suo padre gli aveva regalato un cavallo, un destriero pannonico abituato a correre nelle sconfinate praterie della sua terra di origine, a sua volta dono di un capo di una tribù lontana.

Le notti invernali erano lunghe, al tramonto il sole scendeva in una fosca atmosfera nebbiosa e annegava lentamente nella palude.

Cominciò a nevicare a larghe falde, che danzavano con il vento e stendevano una coltre bianca sulla terra da orizzonte a orizzonte. In quei giorni torpidi Arminius passava il tempo accanto al fuoco e ogni tanto aggiungeva un pezzo di legna che scoppiettava e sfrigolava. Suo padre gli faceva compagnia. Sua madre, in un angolo, filava la lana con la rocca e il fuso.

«Che cosa fanno i Romani d’inverno?»

«Non hai mai passato una stagione fredda con loro?»

«No.»

«Riparano le armi, i carri, le strade e i ponti; sistemano i magazzini e fanno gli inventari; gli ufficiali scrivono lettere agli amici, alle fidanzate, alle mogli, lamentandosi del freddo, dell’umidità, del cibo, del vino inacidito. La sera si giocano la paga ai dadi, a volte anche i vestiti. I più saggi invece ci comprano brache e mutande di lana...»

Sigmer scuoteva il capo perplesso: «Non sono mai riuscito a capire cosa vengono a cercare qui con tutto quello che hanno a Roma e in Italia».

«Un confine, quello che sia il più sicuro e difendibile, e barbari da civilizzare. Pensano sia la loro missione.»

«E tu?»

«Non dovresti farmi questa domanda. Hai fatto lunghe conversazioni con il comandante Druso. So i tuoi dubbi: perché il mio popolo deve pagare tasse e tributi al governatore romano? È vero, forse lui vi deruba, ma costruisce città e strade, ponti e acquedotti, scava canali e drena paludi; se avesse il tempo costruirebbe biblioteche, terme e teatri. Anche i Romani pagano le imposte e i tributi allo stato. Si lamentano, ma le pagano. E i cittadini vedono a che cosa sono serviti i loro denari quando percorrono una strada o attraversano un fiume su un ponte costruito per durare nei secoli. Noi non abbiamo mai fatto altro che ucciderci gli uni con gli altri e ognuna delle nostre generazioni è cresciuta più feroce delle precedenti. Lo sai? Da quando sono qui, con te, con mia madre, con i ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza, invece di intenerirmi mi sento ogni giorno più feroce e selvaggio.»

«È la nostra natura» rispose Sigmer. «Abitiamo una terra cupa e spietata. Non stai cambiando adesso, sei sempre stato quello che sei. Solo lo avevi dimenticato vivendo per anni in una terra incantatrice e luminosa.»

Arminius restò a lungo in silenzio come se ascoltasse le voci del bosco che affondava nelle tenebre. Poi disse: «Hai più visto la ragazza?».

Sigmer lo guardò con un’espressione interrogativa.

«... Quella che vidi alla festa di primavera.»

«Era una bambina. Ti dissi “lascia perdere”. Quella?»

Arminius annuì.

«Si chiama Thusnelda.»

«È sposata?»

«No. Ma come ti dissi allora, è promessa.»

«Dunque mi ha aspettato.»

«Per uno sguardo? Sei pazzo.»

Arminius decise allora di fargli l’unica domanda per cui era valsa la pena di raggiungerlo nella sua casa: «Sei stato tu a mandarmi un messaggio a voce tramite l’hermundur? Il messaggio in cui parlavi di una donna fra due teste, centro di tutto, della vita e della morte?».

Sigmer sospirò: «Non sapevo molto di voi, ma abbastanza, tramite il guerriero hermundur, e sapevo che nella vostra posizione e con l’amicizia del centurione Tauro avreste potuto intervenire in quell’intrigo e piegare il corso delle vicende nel verso che a voi, specialmente a te, fosse sembrato il migliore».

«Non avresti potuto essere più esplicito?»

«No. Un messaggio scritto avrebbe potuto essere intercettato e uno più chiaro vi avrebbe esposti a situazioni pericolose. Lo stesso hermundur non doveva essere in grado di comprendere. Solo tu e tuo fratello. Qualora vi fosse capitata l’occasione propizia, la svolta cruciale, avreste potuto prendere una decisione che vi avrebbe comunque messi in una posizione di grande vantaggio: o nei confronti dell’imperatore o nei confronti di tutte le nazioni germaniche che da più di tre lustri si battono contro di lui e i suoi figli, il comandante Druso e il comandante Tiberio.

Per me è sempre stato un dilemma insolubile: da un lato il destino dei nostri popoli, dall’altro il pensiero del comandante Druso, al quale, come sai, mi legava una forte amicizia e un’ammirazione ancora più forte.»

Arminius non si lasciava sfuggire anche solo un respiro del padre.

«Alla fine scegliesti di agire fermando la mano del sicario, e conquistando così la fiducia di Augusto. Non voglio chiederti se quella sia stata la tua scelta definitiva, ma si direbbe di sì e io stesso comincio a credere che sia quella giusta. A quanto ne so, tuo fratello Wulf non ha dubbi ed è considerato uno dei più valorosi ufficiali dell’esercito romano. Io sono avanti negli anni e ho le tempie grigie, mentre tu, figlio mio, hai ancora molti anni davanti per consolidare la tua scelta. Spero di aver risposto alla tua domanda.»

In quel momento Arminius incrociò lo sguardo della madre e non ebbe dubbi su quali fossero i suoi pensieri: trasparivano dalla luce quasi tagliente dei suoi occhi.

Una sera, al crepuscolo, mentre tornava da una battuta di caccia con un capriolo legato alla schiena del cavallo, Arminius si trovò improvvisamente di fronte a un muro di nebbia che avanzava fra i tronchi secolari: si fermò cercando intorno con lo sguardo una via di scampo. Cosa avrebbe fatto quando la nebbia lo avesse inghiottito? L’odore del sangue avrebbe attratto i lupi. Come aveva potuto essere così sprovveduto? Si assestò il pugnale e il fodero sul petto tenendosi pronto per qualunque cosa stesse per accadere, rallentò l’andatura e cercò di raggiungere un colle alla sua sinistra, per trascorrervi la notte. Sciolse i lacci lasciando cadere il capriolo a terra e si volse verso il colle. In quello stesso istante sentì un rumore di zoccoli e vide erompere dalla nebbia un cavaliere che correva a una velocità inverosimile per un luogo come quello.

Mise subito mano alla spada che pendeva dai finimenti e si preparò a combattere. Il cavaliere arrestò il cavallo e sguainò a sua volta.

«Che lingua parli?» domandò Arminius nella lingua ancestrale.

«La tua. Stupido» rispose una voce che ben conosceva.

Balzarono a terra nello stesso momento e si abbracciarono con tanta forza da farsi scricchiolare le ossa.

«Wulf!»

«Armin!»

«Che ci fai qui?»

«Quello che ci fai tu.»

«E perché correvi come un pazzo in un posto come questo?»

«Per sfuggire alla nebbia, al buio e...» si udì un ululato «a quelli.» Occhi gialli emersero dall’oscurità e ringhi si udirono vicini.

“Il cavaliere che esce al galoppo dalla nebbia con un cavallo nero...” pensò Arminius, lo aveva già visto... in sogno? In una notte italica, germanica?

Lasciarono liberi i cavalli e si inerpicarono sulla collina mentre i lupi si contendevano la carcassa del capriolo.

«E quando l’avranno finito?» domandò Flavus

«Potremmo andare avanti, ma con questo buio e la nebbia rischieremmo di perderci e di essere di nuovo aggrediti da altri branchi. In fondo sono solo cani selvatici. Queste basteranno» disse Arminius mostrando la spada nella destra e il pugnale nella sinistra.

L’assedio cominciò in piena notte e il cerchio prese a stringersi sempre di più. Nessuno dei due aveva un’armatura e si misero schiena contro schiena per fronteggiare gli assalitori. Le lame saettarono nell’oscurità percorrendo e presidiando ognuna un perfetto semicerchio. Ma i lupi agivano come un gruppo militare, seguendo una precisa strategia con attacchi e ritirate per trovare un varco, carne scoperta in cui affondare i denti.

«Dov’eri diretto?» domandò Arminius per alleggerire la tensione.

«A casa» ansimò Flavus.

«Anche io» disse Arminius, «ci sono da un mese. E tu da dove vieni?»

«Dall’isola dei Batavi.»

Combatterono fino allo sfinimento, circondati dalle carcasse dei lupi uccisi mentre altri ne uscivano in continuazione dal bosco.

Poi all’improvviso una meteora fiammeggiante percorse il cielo e cadde a poca distanza da loro: una torcia accesa che sfrigolò sulla neve subito seguita da un’altra. Flavus ne raccolse una: «Siamo salvi» disse.

«Ma chi...» cominciò Arminius raccogliendo l’altra.

«Lascia perdere. Andiamocene dietro alle orme dei cavalli finché dura il fuoco.»

Accesero alcuni fasci di sarmenti ai piedi di querce seccate e squarciate dal fulmine, che arsero scoppiando e crepitando avvolte dalla vampa incandescente. I lupi arretrarono e fuggirono.

Flavus e Arminius raggiunsero i loro cavalli che erano fuggiti per mettersi al sicuro e si diressero verso la dimora di Sigmer, illuminando il sentiero con le torce. All’affacciarsi sulla sommità di una collina videro un’altra luce vermiglia palpitare a mezzo miglio di distanza dentro a un bosco.

«È lui che ci ha gettato le torce perché ci difendessimo dai lupi» disse Flavus.

«Lui chi?» domandò Arminius.

«Non lo so e credo che non lo sapremo mai. Gli dobbiamo la vita: questo sappiamo.»

Sigmer non nascose la sua felicità al vedere tutti e due i suoi figli e sperò che restassero con lui per il resto della stagione invernale, ma così non accadde. I due fratelli si rimisero in viaggio una fredda mattina di febbraio diretti a settentrione. Dopo sole tre giornate di cammino si separarono. Arminius si diresse verso il campo invernale di Velleio e Flavus aspettò il traghetto che attraversava il Visurgis.

«Ci vedremo presto, spero» disse Arminius.

«Può darsi» rispose Flavus. «Comunque sia, è bene che ci salutiamo.» Si abbracciarono e Arminius restò a guardare il fratello mentre saliva con il suo cavallo nero su una chiatta che attraversava il fiume.

Alla fine dell’inverno ricominciarono le operazioni militari e Tiberio Cesare riprese l’alto comando dell’armata del settentrione. Intanto la flotta, agevolata da venti che soffiavano fra settentrione e occidente, prese a risalire l’Amisia, il Visurgis e l’Elba navigando a vela e trasportando rifornimenti, attrezzature e i primi contingenti di truppe. Il grosso sarebbe arrivato dopo. Lo spiegamento di forze era enorme: centinaia di navi e decine di migliaia di soldati, sia legionari che cavalieri e ausiliari. Velleio fu convocato nello stato maggiore come comandante di legione e divenne l’aiutante di campo di Tiberio Cesare. Nelle intenzioni del comandante supremo, quella doveva essere l’azione definitiva che avrebbe domato la Germania. Tiberio aveva già sottomesso tutte le popolazioni balcaniche e aveva combattuto ancora prima con il fratello Druso per stabilizzare il confine Reno-Danubio. Era l’uomo che non aveva mai perduto una battaglia, era l’idolo dell’esercito e non intendeva fallire nella missione più importante della sua vita. La flotta sbarcò i primi contingenti di truppe lungo il corso dei fiumi, alcuni sulla riva sinistra dell’uno, altri sulla riva destra dell’altro in modo che i corpi d’armata potessero convergere da oriente e da occidente contemporaneamente sul territorio compreso all’interno e sottometterlo. Quello dei Cherusci fu attraversato ma non devastato come era stato convenuto. Agli altri venne data la possibilità di discutere le condizioni di resa.

Arminius ottenne, almeno all’inizio, di poter prestare servizio di guarnigione nel territorio ancora governato dal padre e in tal modo evitò incarichi che lo avrebbero costretto a combattere in prima linea con i propri consanguinei.

Velleio sembrò apprezzare il suo comportamento. «Mi fido di te» disse, «ma verrà presto il momento in cui dovrai combattere in linea contro altri germani. L’amicizia richiede sempre nuove prove, un po’ come l’amore, e fra soldati si tratta spesso della prova del sangue.» Lo fissò dritto negli occhi a cercare un varco verso i suoi pensieri, ma lo sguardo di Arminius era indecifrabile come dovette essere un tempo quello della sfinge con Edipo alle porte di Tebe. «E ricorda una cosa: non c’è mai pietà per gli ausiliari germanici in battaglia da parte dei nemici consanguinei e dunque essi devono battersi fino all’ultima stilla di sudore e fino all’ultimo respiro.»

«Me lo ricorderò» rispose Arminius con una voce piana e senza colore.

Incontrò di nuovo Rufio Corvo e Sergio Vetilio nel campo della Diciottesima legione. Corvo comandava una centuria di prima linea nella terza coorte, Vetilio era tribuno militare della quinta.

Si trovavano spesso per bere birra e giocare a dadi in un villaggio di capanne e di tende costruito dai mercanti che seguivano l’armata, e la loro amicizia si consolidava nel cameratismo militare e nel condividere tutte le fatiche e tutta la spavalderia che quel tipo di vita comportava.

Il comandante Tiberio Cesare in persona ordinò che nella seconda parte della campagna Arminius fosse alla testa della cavalleria degli ausiliari e che avesse autorità, in caso di bisogno, anche sul comandante della fanteria germanica che militava con i Romani, in tutto circa quindicimila uomini.

Di suo fratello, Arminius non sapeva altro che le poche informazioni che gli arrivavano ogni tanto da occasionali messaggeri, da cui risultava che era sempre in prima linea in appoggio ora a questa ora a quella legione. Sembrava quasi che qualcuno tentasse di tenerli separati ma non veramente lontani. In realtà i due fratelli si comportavano nello stesso modo: combattevano con grande valore contro i nemici di Roma.

Più volte gli interventi di Arminius salvarono l’esercito romano da situazioni pericolose e la considerazione di Tiberio per lui continuò ad aumentare. Ben presto il capo supremo dell’esercito si rese conto che Arminius era un vero combattente, una macchina da guerra. Bastava lanciarlo nella mischia e il suo istinto belluino prevaleva immediatamente su qualunque altro pensiero, anche su quello di dover attaccare gente che parlava la sua lingua ed era dello stesso sangue. Il comandante supremo non fece nulla per risparmiargli questo tipo di azioni, in primo luogo perché sarebbe stato impossibile e in secondo luogo perché le azioni di Arminius costituivano per lui la prova della sua fedeltà all’impero e all’imperatore. In cuor suo Tiberio pensava che se il suo comandante degli ausiliari germanici avesse continuato a battersi a quel modo avrebbe chiesto per lui la più grande delle ricompense e il massimo degli onori.

L’offensiva di primavera portò l’armata del settentrione a muovere oltre il Visurgis e in direzione dell’Elba dove, secondo i piani di Augusto, avrebbe dovuto assestarsi la linea di confine fra oriente e settentrione. Per raggiungere un simile risultato Tiberio Cesare non doveva lasciarsi dietro alcun focolaio di resistenza e di ribellione. Augusto aveva affrontato quasi vent’anni di guerra con spese enormi, perdite ingenti di soldati e di straordinari comandanti come Druso, senza mai conseguire il risultato ultimo: ridurre la Germania a provincia romana, con un governatore romano, amministrazione romana e leggi romane.

Una sera, dopo una riunione dello stato maggiore della Diciottesima legione nella tenda pretoria, il legato Velleio trattenne per cena alcuni dei suoi più alti ufficiali, fra cui Rufio Corvo, Sergio Vetilio e lo stesso Arminius. Alla riunione si era parlato della grande manovra che Tiberio stava preparando: la flotta oceanica aveva imboccato l’Elba e lo risaliva sbarcando vari contingenti a seconda della consistenza degli insediamenti nemici da occupare, a volte l’intera legione, il che comportava almeno due giornate per la complessa manovra.

A cena la conversazione continuò sugli stessi temi. «Il fatto è» diceva il legato «che qui non è come in Gallia. Raccontava mio zio, che aveva militato con Giulio Cesare, che in quella terra c’erano insediamenti molto vicini per aspetto e caratteristiche alle nostre città e ognuno di essi era il centro intorno al quale ruotava tutta una vasta area con i popoli che conteneva. Bastava conquistare una di queste piazzeforti e si conquistava un’intera regione. I Galli le difesero strenuamente una per una e alla fine si calcola che abbiano pagato la loro eroica resistenza con un milione di morti...» Arminius non poté evitare di volgersi verso di lui. «Qui invece ci sono soltanto dei villaggi di capanne come quelle della Roma delle origini, hanno dai cinquanta ai duecento abitanti, non di più, sparsi nelle foreste e attorno alle paludi. Controllarli tutti è quasi impossibile a meno di effettuare un rastrellamento totale del territorio.

Ed è quello che vuole fare il comandante: l’armata del Reno muoverà verso oriente, l’armata dell’Elba muoverà verso occidente, spianando al suolo ogni villaggio di ogni popolazione che rifiuti di arrendersi. Ricordate le parole di Virgilio? Parcere subiectis et debellare superbos. Hanno comunque una scelta.»

«Ce la faremo, legato?» domandò Sergio Vetilio. «Questa guerra dura da quasi vent’anni.»

«Io dico sì» rispose Velleio. «Il comandante Tiberio non ha mai perso una battaglia e nemmeno una guerra. È vero, questo conflitto dura da troppo tempo, ma se si concluderà come io penso ne sarà valsa la pena. Ci sarà pace finalmente, pace per secoli. I nipoti e i pronipoti, generazione dopo generazione, dimenticheranno il sangue degli avi come lo hanno dimenticato i Galli, i cui capi indossano la toga laticlavia, siedono oggi nel Senato di Roma e promulgano le leggi cui il popolo romano dovrà ottemperare. Dopo qualche generazione anche per i Germani sarà la stessa cosa. Saranno diventati legionari, curatori di acquedotti e strade, commercianti e imprenditori. Riceveranno onori e riconoscimenti, vivranno in case con l’acqua corrente, mangeranno cibi cucinati con ricette elaborate. Alcuni di loro diventeranno poeti, filosofi e musicisti, altri ancora ci governeranno in qualità di magistrati, si taglieranno le selvagge criniere, adotteranno spontaneamente la lingua latina e il nostro taglio di capelli.

Io conosco il comandante: non si fermerà finché non avrà completato l’opera che gli è stata affidata. E so come concluderà questa campagna perché non mette mai a rischio inutilmente le vite dei suoi soldati e non attacca mai battaglia se non è certo di vincere.»

«Esiste anche la componente caotica della storia, legato» disse Sergio Vetilio.

In quel momento risuonò sotto il grande padiglione una voce che quasi tutti gli astanti riconobbero: «È vero, il caso è imprevedibile. Ma il tribuno Vetilio dimentica una cosa!».

“Tauro!” esclamò in silenzio dentro di sé Arminius.

«Che mi prenda un fulmine» mormorò Corvo all’orecchio di Vetilio. «Da dove sbuca il vecchio bastardo?»

«Vieni avanti, centurione!» comandò Velleio.

Tauro, splendente nella sua armatura di ordinanza e con in testa l’elmo a cresta traversa, si fece avanti.

«Che cosa ho dunque dimenticato?» gli domandò Vetilio.

«Hai dimenticato il comandante Druso» rispose. «Era suo fratello, e gli morì fra le braccia davanti alle legioni schierate. A dispetto degli dei e dei mortali, del cielo e dell’inferno, dei tuoni e dei fulmini, Tiberio non lascia mai conti in sospeso, né spazio al caso.»