XXI

I loro sguardi si erano incontrati ed era stato come in quel remoto giorno di primavera, una vampa di fuoco.

Sigmer se ne accorse ma non disse nulla. Ricordava quando aveva cercato lo sguardo di Antonia sulla nave ammiraglia del comandante Druso senza mai incontrarlo e aveva detto mille volte a se stesso “Non è per te”. E quante volte negli anni successivi aveva pensato alla sua amicizia segreta con Druso quasi come a un folle tentativo e a una impossibile speranza di rivedere lei. E quella visione, quelle ombre che facevano l’amore proiettate dalla lucerna contro la parete della tenda, continuava a torturarlo. Ma lì, nel bosco sacro, era ben diverso: Arminius era un principe dei Cherusci e lei una giovane nobile, figlia di Seghest. Non doveva sembrare così irraggiungibile a quel figlio perduto. In fondo Thusnelda era promessa ma non concessa, il suo ragazzo così doveva pensare. Eppure volle ancora una volta provare a dissuaderlo.

«Figlio mio, non c’è ragazza del nostro popolo che non sognerebbe di diventare tua sposa e di darti dei figli perché sei un principe e perché sei un uomo di alto rango nell’Impero dei Romani, cosa che affascina molti, sia giovani che ragazze. Perché vuoi quella? Ti porterà a contrasti violenti, o a conflitti sanguinosi...»

«Perché se non l’avessi rimpiangerei per tutta la vita di non averla conquistata. Non ci sono altre donne per me che lei. Chiunque voglia impedirmelo dovrà affrontarmi, te compreso, padre mio.»

Sigmer non disse altro e Arminius passò a salutare la madre prima di partire. La trovò preoccupata per la sorte di ambedue i suoi figli. Capiva che combattere era la loro occupazione abituale. Non erano come i guerrieri della loro gente, che combattevano solo per necessità o per difendersi. Ma come spiegare a sua madre che cos’era l’Impero Romano? Per lei i Romani erano quelli che le avevano rubato i figli ancora piccoli e li avevano portati lontano, così lontano che le notizie che inviavano non arrivavano mai. I loro guerrieri erano tutti uguali, con le stesse vesti e le stesse armi come le formiche, e solo uno comandava... Come spiegare a sua madre che cos’era la disciplina? E portavano la terra dove c’era l’acqua e l’acqua dove c’era la terra: come spiegarle che cos’era un’opera pubblica, che cos’era la strada che non si ferma mai?

L’abbracciò stretta e le disse: «Madre, tornerò presto a trovarti; non ti lascerò più sola per tanto tempo. Se tu sapessi leggere potrei mandarti le mie parole anche da molto lontano».

La madre sorrise pallida: «Vai d’accordo con tuo fratello? Ho saputo che si è sposato».

«Vado d’accordo, madre, ma non è sempre facile. Qui la vita è più dura di quando eravamo a Roma. Ho visto sua moglie: la figlia di un personaggio importante della città che hanno costruito dall’altra parte del Rhein.»

Restò ritta davanti alla porta della sua dimora a guardarlo mentre balzava a cavallo e partiva al galoppo dileguandosi in lontananza.

Giunto a Magontiacum, Arminius si ricongiunse al suo squadrone e poi alla Diciottesima, dove incontrò Velleio e rimase in attesa di ordini.

L’ordine di mobilitazione di Tiberio arrivò alla fine di febbraio e il secondo in comando, il legato Senzio Saturnino, radunò l’intero corpo d’armata del settentrione: quattro legioni più alcune ali di cavalleria, che comprendevano anche gli ausiliari germanici, cominciarono la discesa verso meridione attraversando un paese apparentemente tranquillo. Nello stesso giorno in cui era previsto che l’armata del settentrione si mettesse in marcia, quattro cavalieri senza insegne partirono da Carnuntum diretti in Pannonia per portare al corpo d’armata pannonico-dalmata, composto da quattro legioni, l’ordine di muovere verso Carnuntum e proseguire poi in direzione del regno di Marbod, che già aveva cercato un contatto con Tiberio allo scopo di negoziare condizioni favorevoli per la sua resa. La conquista dell’ultima parte ancora indipendente della Germania era a portata di mano.

Arminius sentiva non solo l’eccitazione dei legionari, ma anche quella dei suoi cavalieri Cherusci e Hermundur. Tutti erano ormai convinti che l’esercito romano fosse invincibile e che la costituzione della provincia di Germania fosse imminente, ed era chiaro che chi avesse dato un contributo alla realizzazione di quel progetto avrebbe ottenuto poi grandi privilegi e posizioni di potere e di prestigio all’interno dello sterminato impero. L’imperatore Augusto era anziano e prima o poi gli sarebbe succeduto Tiberio, che non avrebbe dimenticato i suoi amici e i suoi soldati.

Arminius si chiedeva dove fosse suo fratello Flavus: come poteva mancare a un simile evento? E nemmeno aveva visto Tauro: cercare qualcuno in mezzo a ventimila uomini era molto difficile.

L’ordine di Tiberio era di trovarsi a cinque giorni dal confine del regno di Marbod alla fine di marzo, e il momento si stava avvicinando. I suoi messi arrivavano ormai ogni giorno e altrettanti ne inviava Saturnino. In questo modo i movimenti dei due corpi d’armata erano perfettamente sincroni e riportati ogni giorno sulla grande mappa.

Alla vigilia dell’ultima tappa, Velleio invitò Arminius a cena assieme ad altri ufficiali della legione nella tenda pretoria e illustrò l’itinerario da seguire. L’impresa era praticamente compiuta e mancavano soltanto cinque giorni di marcia al raggiungimento del confine con Marbod. Il solo coordinamento dei due corpi d’armata era stato un capolavoro strategico che sarebbe stato citato nei manuali. Ma quando ormai la cena stava per finire arrivò un messaggero a spron battuto e chiese di conferire immediatamente con il comandante della Diciottesima. Fu introdotto alla presenza di Velleio: era fradicio di sudore e si reggeva a stento in piedi per la fatica.

«Legato» disse, «purtroppo porto cattive notizie.» Velleio trasalì e proprio in quel momento gli vennero in mente le parole di Vetilio: “La componente caotica della storia...”.

«Vai avanti» lo incoraggiò, e contemporaneamente fece cenno ai servi di portargli da bere. Il messaggero trangugiò una coppa di acqua fresca in pochi sorsi.

«Pannonia, Illirico e Dalmazia sono in rivolta.»

«Non è possibile» esclamò Velleio.

«Purtroppo è vero.»

«E dunque?»

«Il comandante Tiberio Cesare deve tornare indietro con le legioni che ha portato fin qua.»

«Ma è un errore. Dobbiamo terminare quello che abbiamo cominciato.»

Arminius ebbe un lieve sussulto che non sfuggì a Velleio. Il messaggero riprese a parlare: «Il comandante Tiberio ha mandato un altro come me a Marbod. Gli ha fatto sapere che se muoverà un dito contro Roma lui tornerà indietro si trovasse anche in capo al mondo e non lascerà un filo d’erba, né un essere umano, né una pecora o un vitello in tutto il suo regno. E lui sa che Tiberio mantiene sempre quello che promette. Il nostro comandante supremo pensa che Marbod non si muoverà e che la sua inerzia sarà di esempio a tutti gli altri che vivono fra il Reno e l’Elba».

«Ma perché prima non entriamo nel regno di Marbod e gli facciamo vedere che non scherziamo?» domandò Velleio come se parlasse direttamente con Tiberio.

Il messaggero doveva essere persona di una certa importanza, capace di rispondere come avrebbe fatto il suo comandante: «Tiberio ha già rischiato moltissimo lasciando sguarnite le province orientali. Ora la strada è aperta verso l’Italia e Roma e se i barbari tentassero un’invasione non troverebbero nessuno a fermarli. È un rischio troppo grande che non possiamo assolutamente correre».

Velleio chinò il capo: non c’era altra scelta.

«È tutto?» domandò.

«Se tu mi permetti» disse il messaggero, mentre gli si avvicinava per parlargli all’orecchio: «Il comandante Tiberio Cesare ti chiede di metterti in marcia al più presto con la legione e gli ausiliari per raggiungerlo a Carnuntum. Di là proseguirete insieme fino a destinazione».

«Ti farò preparare qualcosa da mangiare e ti darò un alloggio per riposarti: devi essere sfinito.»

«Mangerò qualcosa» rispose il messaggero, «ma fammi svegliare al terzo turno di guardia: devo tornare al più presto a riferire.»

Velleio congedò gli ospiti e l’indomani svegliò personalmente il messaggero e gli fece trovare un cavallo fresco, cibo, acqua e panni per coprirsi in caso di maltempo.

«Riferisci al comandante Tiberio che lo ringrazio per la sua fiducia, e che lo raggiungerò al più presto.»

Arminius seguì la Diciottesima con i suoi ausiliari Cherusci e Hermundur due giorni dopo l’arrivo del messaggero e cavalcò a fianco dei legionari durante le interminabili marce prima verso Carnuntum e dopo fino ai piedi delle Alpi e al Danubio, l’altro grande fiume che segnava il confine dell’impero.

La lotta fu di un’asprezza mai vista nemmeno in Germania. I popoli dell’Illirico, della Pannonia e della Dalmazia si erano ribellati per le vessazioni che subivano dai governatori romani ed erano disposti a morire tutti in battaglia piuttosto che vivere da schiavi. Una volta Tiberio, dopo aver catturato uno dei capi ribelli, gli chiese perché mai si fosse rivoltato contro lo stato romano e questi gli rispose: «Perché avete mandato a governarci non un cane da pastore ma un lupo».

Erano gente fiera, attaccatissima alla loro terra povera e nuda dove gli abitanti erano soliti pascolare greggi, mandrie di bestiame oppure tagliare querce per vendere il legname per i cantieri navali sulla costa o per le armature e le centine che i Romani utilizzavano nella costruzione dei loro edifici in pietra, degli archi e degli acquedotti.

Arminius si era abituato da tempo a non avere pietà di nessuno, perché in battaglia la regola è una sola: uccidere per non essere uccisi, spargere il terrore per non essere aggrediti, apprendere tutto il possibile e non far trapelare niente dei propri pensieri.

Pensava a Thusnelda, questo sì, anche quando aveva giaciuto con una donna barbara terrorizzata, catturata in un villaggio, posseduta brutalmente per dare sfogo al proprio istinto e poi consegnata ai suoi uomini perché ne avessero soddisfazione anche loro.

Ma nel momento in cui si abbandonava sul suo letto da campo, esausto, e cadeva in un sonno profondo, lo sguardo di lei sorgeva dalle tenebre come il chiarore della luna d’estate. Sognava di portarla sul suo cavallo lungo la riva del lago dove suo padre Sigmer soleva portare lui e Flavus quando erano piccoli. Parlava con lei parole che svanivano subito lasciando solo un suono malinconico a echeggiargli nel cuore.

La sentiva a volte anche cantare, con una voce che in realtà non aveva mai udito, sonora e limpida, antiche canzoni della sua gente.

Sognò una volta, soltanto una, una notte d’amore con lei, una danza di ombre e di fiamme, il profilo del suo corpo nudo come quello delle statue che aveva contemplato nei templi e nelle piazze di Roma. Passò più di un anno in mezzo agli orrori di una guerra talmente feroce da non sembrare vera, uno scontro disumano, fiumi di sangue in cui gli pareva di affogare. L’ardore dello scontro, vortice di una violenza atroce, urlante, gli bruciava il cuore. Tutta quella sofferenza finì per essere accettata, assimilata come necessità ineluttabile. Si rese conto di aver varcato l’ultimo confine, il limite oltre il quale non c’è più ritorno.

Poi un giorno l’aiutante di campo di Tiberio Cesare lo mandò a chiamare per dirgli che suo padre era morente e che per questo il comandante supremo lo aveva destinato al quartier generale dell’armata del settentrione. Gli consegnò un paio di messaggi da recapitare a Senzio Saturnino, suo braccio destro in terra germanica, e una piccola scorta di poderosi ausiliari hermundur.

Arminius partì immediatamente, con il cuore pesante, ma anche con il desiderio di raggiungere suo padre prima che morisse. Forse anche Flavus l’aveva saputo e si stava affrettando come lui per raggiungere il padre prima che volasse nel paradiso degli eroi. Attraversò il Norico e decise di passare per il regno di Marbod per risparmiare tempo, pur sapendo di rischiare. Entrò nel suo territorio di notte con gli Hermundur, giganteschi e terrificanti nel loro ghigno, nei loro tatuaggi e nelle loro armature irte di punte ferrate, coperti tutti di mantelli scuri. Cavalcarono per tre giorni e gran parte delle notti fermandosi solo per poche ore a dormire. Il quarto giorno furono fermati e accerchiati da un drappello della cavalleria di Marbod.

«Chi siete e dove andate?» domandò l’uomo che li comandava.

«Sono il principe Armin dei Cherusc, figlio di Sigmer, e sono il comandante degli ausiliari di Tiberio Cesare. Che cosa volete?»

«Stai attraversando il territorio di Marbod senza essere stato invitato e chiedi a me che cosa vogliamo?»

«Sto cercando di raggiungere mio padre prima che muoia» rispose Arminius. «Puoi anche tentare di fermarmi se vuoi, ma te lo sconsiglio: saresti il primo a morire.»

«Ma poi morireste anche voi, tu e i tuoi hermundur. Meglio se mi seguite.»

«E dove?»

«Lo vedrai presto.»

Arminius fece cenno ai suoi uomini di andargli dietro mentre seguiva la squadra di cavalieri che li aveva fermati. Il re era poco distante con il suo accampamento e questo spiegava la presenza di drappelli armati che perlustravano il territorio tutto attorno.

Marbod era un uomo molto robusto, con uno sguardo penetrante e Arminius lo incontrava per la prima volta faccia a faccia.

«E così sei il figlio di Sigmer e il capo degli ausiliari germanici di Tiberio. Stai correndo al capezzale di tuo padre che non se la passa molto bene e attraversi il mio regno con questi spaventosi guerrieri senza chiedere nemmeno il permesso. Ma che modi sono questi?»

«Non ho intenzioni ostili. Voglio vedere mio padre prima che muoia. Se avessi avuto il tempo sarei venuto a chiederti il permesso, ma devo vederlo prima che chiuda gli occhi.»

Marbod non aveva fretta e indugiava nella conversazione con battute ironiche o sarcastiche e questo inquietava fortemente Arminius. Alla fine, però, l’intenzione del re dei Marcomanni si rivelò abbastanza chiara: «Ora ti lascerò libero di andare dove vuoi con le tue temibili guardie del corpo, ma dovrai ricordare una cosa: data la situazione ho dovuto accettare un patto con Tiberio, di fatto una capitolazione. Il mio esercito è forte ma non tanto da sfidare dieci legioni romane, sei alae di cavalleria e diecimila ausiliari. Ora Tiberio ha i suoi guai da risolvere in Pannonia, però potrebbe cambiare direzione in qualunque momento e riapparire sui miei confini. Saturnino si è ritirato dalla mia frontiera settentrionale ma non è scomparso. Comunque vadano le cose ricorda che se prevarrà il movimento antiromano io ti ho lasciato libero e ti ho trattato da amico; se dovessero prevalere i Romani ricorda che ho aiutato un cittadino romano, comandante delle forze germaniche ausiliarie. Siamo d’accordo? In qualunque momento tu abbia qualcosa di importante da riferirmi, ricorda che la mia porta è sempre aperta». Arminius annuì e i due si strinsero la mano.

Arminius e i suoi passarono la notte indisturbati nell’accampamento di Marbod e il giorno dopo, di buon mattino, ripresero il viaggio.

In capo a sette giorni Arminius giunse alla residenza di suo padre. Sua madre Siglinde, prima e unica sposa di Sigmer, lo accolse con gli occhi velati di lacrime.

Il figlio la fissò con un’espressione interrogativa; lei chinò il capo: «Tuo padre sta morendo».

«E Wulf?»

«Non so dove sia, ma ho mandato uno dei nostri a Magontiacum dove molti lo conoscono.»

«Manderò io uno dei miei hermundur che lo troverà di sicuro. Portami da mio padre.»

Siglinde lo introdusse nella camera da letto immersa nella penombra. Sigmer grondava sudore, il colorito era pallido, il volto emaciato.

«Che cos’ha?» domandò alla madre.

«Non lo sa nessuno. Dopo che tu te ne sei andato l’ultima volta, con i Romani, e quando tuo fratello è scomparso, è partito anche lui per un lungo viaggio, accompagnato da un gruppo di guerrieri: quando è tornato non era più lui. Sembrava vivere in un incubo giorno e notte, sembrava vedere cose che lo terrorizzavano, che lo riempivano di orrore...»

Arminius avrebbe voluto dire a sua madre quali orrori aveva vissuto nella guerra che aveva combattuto con i Romani in Illiria e Pannonia e che all’orrore si può sopravvivere, ma non lo fece. Si avvicinò a suo padre e gli prese la mano scarna: «Sono qui, sono Armin. E Wulf non è scomparso. Si è sposato, avrà dei figli. Li vedrai».

Sigmer si volse verso di lui ma senza fissarlo. Il suo sguardo era perso in uno spazio vuoto, eppure capiva e vedeva: altri luoghi, altri tempi forse. A un certo momento Arminius vide che gli faceva cenno di avvicinarsi e si avvicinò. Accostò l’orecchio alla sua bocca riarsa e gli parve di udire un suono, poi una frase e un’altra e un’altra ancora. Suo padre sembrava parlare una lingua che non aveva mai udito, una lingua in parte comprensibile, ma di cui gli sfuggivano tante parole.

Sentì più volte, profondo, il senso di orrore e di paura:

«Hai consultato l’oracolo dei Germani? Grande Thor! Che cosa hai fatto, padre mio? Perché? Perché?»

Sigmer proferì altre parole in quella lingua strana, aliena e famigliare a un tempo... e Arminius allora capì che suo padre sapeva, e sapeva attraverso la sola rivelazione dell’oracolo germanico quello che lui aveva nascosto nel cuore: il lento, doloroso travaglio che lo aveva reso consapevole delle sue invincibili radici selvagge, la verità che lo costringeva a non farne parola con nessun essere umano, nemmeno con suo fratello, era un segreto di cui Sigmer era a conoscenza. E ora, sul letto di morte, lo implorava di rinunciare al suo intento.

Il destino aveva fatto suonare l’ultima ora per Sigmer e per la sua decisione definitiva nello stesso momento. Non poté credere a ciò che udiva. Eppure era stato suo padre ad accompagnare il comandante Druso davanti alla caverna dell’oracolo per udire una sentenza di morte: “Morirai prima”. E ora, attraverso la voce di suo padre in agonia, gli diceva: “Morirai dopo”.

Sentì una lama ghiacciata passargli il cuore. Non poteva più tornare indietro. «Ormai è troppo tardi, padre» disse. «Ho deciso. Libererò i nostri popoli dal giogo dei Romani, per sempre. Ho conquistato la loro fiducia, ho sempre obbedito ciecamente, anche se mi ripugnava, sono di fatto uno di loro e forse convincerò anche Wulf a passare dalla nostra parte. Insieme fonderemo un impero germanico dal Rhein alle sterminate pianure d’oriente. Anche i Celti si uniranno a noi quando vedranno che possiamo vincere».

Sigmer lo fissò intensamente con uno sguardo pieno d’incredulità e di disperazione, poi i suoi occhi si fermarono d’improvviso nell’attonita fissità della morte.

Il funerale di Sigmer, signore dei Cherusci, durò tre giorni e i sacerdoti invocarono a lungo con canti il nome di Odino perché accogliesse il grande guerriero che saliva verso il suo palazzo dorato. I bardi cantarono le sue gesta e i guerrieri, indossando le armi più belle, cavalcarono tre volte attorno alla pira gridando il suo nome e lanciando il grido di battaglia. Poi fu appiccato il fuoco ai quattro angoli della grande catasta. In quel momento giunse in mezzo alla radura Flavus, indossando solo una tunica grigia e portando a tracolla una spada con un balteo d’argento. Arminius gli si avvicinò con il suo cavallo, insieme sguainarono la spada per salutare il loro padre, uniti. Quel gesto scaldò il cuore a molti, eppure mai come allora i due fratelli erano stati divisi.

Terminate le esequie, le ceneri di Sigmer furono tumulate ai piedi di una quercia immane, millenaria, e le donne attorno a Siglinde versarono lacrime sulla sepoltura del più grande dei Cherusci.

Arminius e Flavus cavalcarono in silenzio fino alla collina che sovrastava il lago ormai scuro e Arminius fu tentato di dire al fratello quello che aveva detto al padre morente, ma non poteva trovare le parole. Gli fece solo una domanda: «Tua moglie ha partorito?».

«Sì» rispose Flavus, «un maschio.»

«E gli hai dato un nome?»

«Sì, Italicus. Ti piace?»

«È un bel nome» rispose Arminius. Poi domandò: «A chi somiglia?».

«È biondo. Quindi a me. Sua madre, come sai, è bruna.» Flavus restò in silenzio per un poco, ascoltando il calpestio dei cavalli sul sentiero battuto, poi riprese a dire: «Lo sai? Ieri correva una voce al campo, prima che partissi. Pare che l’imperatore abbia scelto quello che potrebbe essere il nuovo governatore della Germania... Finora Saturnino ha ricoperto sia funzioni di governo che di comando militare, ma ora Tiberio potrebbe avere bisogno di lui in Pannonia e Illiria, quindi probabilmente dovrà essere rimpiazzato».

«E chi sarebbe il nuovo governatore?»

«Si fa il nome di Publio Quintilio Varo. Tu lo conosci bene, se non sbaglio.»

«Infatti» confermò Arminius.

In quel momento ebbe chiaro davanti agli occhi il suo futuro. L’oracolo germanico consultato da suo padre si era pronunciato e aveva indicato per lui e per il suo popolo una meta da cui non c’era ritorno. Era come un cane che improvvisamente ricorda di essere un lupo.

Capì che non avrebbe dovuto parlare in nessun modo del suo progetto al fratello e che le loro strade si separavano forse per sempre. Pensò anche che un giorno avrebbero potuto battersi l’uno contro l’altro e il pensiero gli spezzò il cuore.