Arminius aveva preparato la più grande azione bellica che fosse mai stata messa in campo contro le forze romane di occupazione in Germania. I capi tribù e l’aristocrazia guerriera avevano in buona parte compreso il suo piano e si erano convinti che il principe dei Cherusci fosse l’unico in grado di sconfiggere i Romani perché conosceva profondamente il sistema militare imperiale e sapeva quali erano i suoi punti deboli. Ma non tutti i combattenti ne erano altrettanto sicuri. Ancora avevano davanti agli occhi l’attacco devastante condotto da Tiberio tre anni prima e la forza travolgente delle sue legioni e le temevano.
Occorreva dunque apprestare un dispositivo che desse loro la sicurezza di vincere e la convinzione di poter colpire senza nemmeno vedere le possenti formazioni dell’esercito romano e le sue migliori unità combattenti attaccando da un punto di forza di assoluta sicurezza.
Il luogo in cui avrebbe spinto Quintilio Varo, la foresta di Teutoburgo, sarebbe stato quindi una trappola mortale, un mattatoio più che un campo di battaglia.
Ormai Tauro non aveva più dubbi. Sergio Vetilio e Rufio Corvo lo avevano informato della missione di Seghest, di come avesse cercato in ogni modo di convincere Varo che Arminius lo stava tradendo, che occorreva arrestarlo subito e incatenarlo assieme ai suoi amici. Chiunque avrebbe capito che diceva la verità, fuorché Varo.
«Torniamo indietro» disse Vetilio, nuovo legato della Diciottesima legione, dopo che Velleio aveva seguito Tiberio in Pannonia. «È evidente che quel bastardo ci aspetta in fondo a questa strettoia.»
«Non credo che potremmo farcela» replicò Tauro, «se torniamo indietro dovremmo semplicemente ordinare fronte contrario. Loro devono essere tutti qui intorno e potrebbero attaccarci da un momento all’altro, specialmente mentre manovriamo in questo terreno insidioso con i carri e le bestie da soma. Non possiamo nemmeno sapere se la direzione di marcia da quella parte sia praticabile. Tutte le nostre guarnigioni sono state annientate, i magazzini e le armerie saccheggiati. Quando sono passato ho notato molti movimenti sospetti e penso di essere vivo per miracolo. Adesso non possiamo fare niente, sta calando la notte. Dai ordine di mettere ogni tipo di ostacoli sul fianco sinistro della colonna, metti sentinelle avanzate dappertutto, fate accendere fuochi e distribuire le razioni di cibo. Gli uomini devono stare in forze.»
Corvo avvertì il comandante e l’ordine passò attraverso l’intera colonna.
Al secondo turno di guardia il tempo peggiorò, lampi balenarono lontano nell’oscurità, poi un tuono lacerò il silenzio della notte e continuò a rumoreggiare tra i fianchi delle montagne. Il suo ultimo rantolo venne ripreso da un altro tuono apparentemente più basso e sordo ma incredibilmente potente. Rombava da una gola lontana, faceva vibrare la terra e il cuore nel petto.
«Vogliono spargere il panico» disse Sergio Vetilio.
«E ci riescono anche» ribatté Tauro. «Guardate i nostri uomini: sono atterriti. Sono abituati a minacciare, non a sentirsi minacciati.»
La notte passò senza troppi danni, ma nessuno riuscì a chiudere occhio, con la mano anchilosata attorno all’impugnatura della spada. All’inizio del terzo turno di guardia un urlo soffocato nelle tenebre, poi un altro e un altro ancora. Tre sentinelle crollarono a terra. Una, colpita al ventre e con visceri sparsi al suolo, urlava. Tauro pose fine alle sue sofferenze. «Addio, amico, ci vedremo all’inferno tra non molto.» Uno sfrascare dal bosco: avevano colpito e ora sparivano nel fitto della foresta. Solo loro ne conoscevano i recessi più profondi.
L’esercito riprese la marcia alle prime luci del mattino. Una luce livida che a stento filtrava fra le nubi nere. Non c’era strada, ma solo un passaggio non sempre praticabile, il fondo di massi e pietre sconnesse, i fianchi coperti di una fitta vegetazione che faceva aumentare la paura nei legionari, oppressi da una natura minacciosa e scura, abitata da presenze inquietanti. Poi si avvicinò la tempesta.
Arrivò prima il vento che piegava le chiome delle querce e dei faggi. Subito dopo, una pioggia torrenziale si abbatté sugli uomini stanchi. La folgore schiantò una quercia secolare e un ramo enorme cadde di traverso sul sentiero ferendo non pochi uomini, azzoppandone altri e facendone altrettanti intralci per la marcia. Li deposero su uno dei carri dove forse un chirurgo avrebbe potuto intervenire per salvarli. Le condizioni erano ormai impossibili per la marcia, i carri e gli animali da traino intralciavano continuamente il cammino, la pioggia torrenziale rendeva scivoloso il terreno inducendo nei soldati un senso di profondo scoramento, quasi una rassegnazione alla sconfitta prima ancora che iniziasse la battaglia.
Lo stillicidio di perdite aumentava quasi a ogni passo. I guerrieri germani si trovavano a loro agio nel fitto della boscaglia, invisibili, mobilissimi, leggeri; colpivano fulminei e si ritiravano per andare ad appostarsi oltre. L’impossibilità di difendersi faceva sentire i soldati romani come bersagli immobili di un cacciatore micidiale e spietato. E il martello di Thor non cessava di far tremare l’aria e la terra del suo cupo boato.
«Non c’è modo di farlo tacere?» urlò Corvo nel fragore della tempesta.
«E come?» gridò Tauro più forte. «Il suono proviene da tutte le parti. Per ora dobbiamo andare avanti a tutti i costi finché non usciamo dal temporale e, volesse il cielo, non troviamo uno slargo per dispiegare la nostra forza!»
A mano a mano che procedevano, le incursioni dei nemici si facevano sempre più frequenti e talvolta il balenare di lampi accecanti rivelava d’improvviso i guerrieri germanici con il volto striato di nero come spettri dell’inferno. Gli assalitori volevano sfiancarli, far sanguinare l’esercito, che avanzava come un lungo serpente, fino a stremarlo. Ci fu un momento in cui parve che nemmeno gli assalitori potessero resistere all’infuriare degli elementi e Tauro cercò di avanzare con il suo gruppo per esplorare il percorso, ma proprio allora apparve un cavaliere luccicante di pioggia su un cavallo nero e con il volto coperto da una maschera di lamina di bronzo.
«Chi sei?» domandò Tauro.
«Un cavaliere romano» rispose l’uomo con una voce giovanile e con un accento germanico.
«Che vuoi?»
«Non andrei avanti, se fossi in te. Prima voglio andarci io, a mezza costa.»
Tauro pensò di aver già udito quella voce, ma non avrebbe saputo dire quando. Il cavaliere urlò: «Non ti muovere!», e partì al galoppo sotto la pioggia battente. Spronò il suo cavallo nero gridando «Ah! Ah!» e sparì nel bosco. Passò del tempo, poi riapparve più avanti di cento passi, su una modesta altura e lanciò qualcosa ai piedi di Tauro e Sergio Vetilio. Le teste di due guerrieri germanici.
Fece loro cenno di avanzare e sparì di nuovo. A quel punto Vetilio Celere tornò indietro a cavallo fino al luogo in cui si trovava il comandante generale, il governatore Quintilio Varo. Tauro restò dov’era, alla testa dell’esercito, per controllare la posizione più rischiosa. Pensò che valesse la pena di verificare se il cavaliere con la maschera avesse effettivamente liberato un punto di osservazione da due sentinelle nemiche.
Tauro aveva informato il governatore Varo che sarebbe andato in avanscoperta a vedere se c’era un passaggio e di che larghezza, e partì più in fretta che poté sul sentiero tutto buche e massi sporgenti che si stava trasformando in un torrente turbolento e minaccioso. Molti carri erano danneggiati, altri affondavano fino ai mozzi nel fango, non pochi animali da tiro si erano azzoppati fra i sassi aguzzi. Centinaia di civili che seguivano l’esercito per vendere cibo, vino, panni e altre mercanzie erano di inciampo alla colonna in marcia, ma se ne stavano ben stretti ai ranghi dei soldati per non essere subito preda degli assalitori. Molte donne, in parte prostitute, avevano con sé non pochi bambini, fradici di pioggia e atterriti, che gridavano disperati.
In meno di un’ora, Tauro e i suoi arrivarono in un punto in cui il sentiero si faceva per certi aspetti più praticabile, ma non meno pericoloso per il pantano che si estendeva fino alla base di una collina rocciosa, alta circa quattrocentocinquanta piedi. La parte pianeggiante era percorsa da rigagnoli limacciosi che scendevano dai fianchi della collina e andavano a gettarsi in una enorme palude verso settentrione. La parte superiore della collina era completamente coperta di vegetazione e per quanto ne pensava Tauro poteva esserci chiunque in quella boscaglia. Non vedendo però nessuno, tornò indietro ad avvertire il resto dell’esercito che a quel punto si estendeva su una colonna lunga ben oltre le due miglia.
Gli attacchi e le imboscate si intensificarono e molti soldati cadevano feriti, inchiodati dalle lance e dalle frecce scagliate da invisibili nemici. Da parte loro, i legionari non potevano reagire per il pendio sdrucciolevole a destra e a sinistra, per l’infuriare della tempesta, appesantiti da un’armatura di ferro che pesava quasi un talento. Le scarpe dei soldati si stavano disintegrando per l’asprezza del sentiero e a molti sanguinavano i piedi.
A un certo momento la tempesta sembrò calmarsi e il vento cadde quasi improvvisamente. Si udiva solo il rumore dell’esercito in marcia, quindicimila uomini coperti di ferro.
Il sentiero si fece un poco più agevole, s’incurvava alla base della collina rocciosa mentre un altro si spingeva verso la palude e i pantani. Per qualche tempo anche il rombo del martello di Thor sembrò tacere.
Echeggiò allora d’un tratto un urlo e dal fianco della collina si alzò una nube di dardi. Migliaia di lance germaniche salivano verso il cielo per poi precipitare sibilando e abbattersi sulla legione in marcia. Crepitavano sugli scudi e sugli elmi come una grandine d’acciaio.
Tauro, di nuovo in testa alla colonna, si rese conto di quanto stava succedendo e gridò: «Attenti a sinistra! Imboscata! Imboscata! Scudi sulla testa! Testudo... vallaria! A me, uomini, a me!».
Un secondo lancio e un terzo si susseguirono a distanza di breve tempo e la pioggia micidiale trapassò migliaia e migliaia di uomini nel collo, fra le scapole, nelle braccia, nelle gambe, nel ventre. Il terreno era melmoso e i legionari affondavano fino a metà gamba. Arrivò al galoppo Rufio Corvo, vide Tauro e lo raggiunse proteggendosi alla meglio con lo scudo: «Hanno deviato il sentiero! Dobbiamo allontanarci e uscire dal raggio di tiro delle lance! Via, via! Non attaccare il vallo, non farlo, centurione! Allontaniamoci, io vado indietro a deviare la nostra colonna che sta arrivando».
Tauro, che stava disponendo contro il terrapieno una testudo vallaria per dare l’assalto all’argine, arretrò compattando i suoi uomini che si proteggevano con gli scudi.
La base della collina era un paramento di zolle d’erba applicate a un graticciato di vimini di palude perfettamente mimetizzato con il verde della collina rocciosa. Nemmeno lui se n’era accorto nella sua prima ricognizione. Ora il terreno era tutto rosso di sangue e l’aria risuonava di urla di dolore. I feriti cercavano di svellere dal petto e dalle cosce le punte di freccia e di lancia lacerando e strappando le carni dalle ossa. Altri, affondati nel pantano, diventavano bersagli immobili per i dardi scagliati dai nemici.
Quando Arminius si accorse che l’esercito di Varo era disgregato, decimato dalle lance germaniche, incapace di muoversi e di contrattaccare, lanciò i suoi all’assalto fuori dal vallo.
Mai prima quei guerrieri avevano affrontato corpo a corpo le legioni e non pareva loro vero di sfogare la rabbia a lungo compressa su quei reparti in disfatta, in preda al panico e alla confusione. Imbracciando asce a due tagli squarciavano e mutilavano senza sosta; colpendo nel mucchio spezzavano ossa, decapitavano chi giaceva al suolo senza potersi difendere e conficcavano le teste su picche come trofei.
Il reparto di Tauro, piccolo ma duro e compatto, sembrava uno scoglio fra i marosi in tempesta, e continuava a difendersi. Tutto attorno era orrore, sangue, grida raccapriccianti, arti mutilati.
Vala Numonio, il prefetto della cavalleria e secondo in comando dopo Varo, trovandosi al centro della lunghissima colonna in un primo tempo non si era reso conto di quanto stesse realmente accadendo. Pensava fosse un attacco della piccola tribù ribelle, ma poi, capito che si stava consumando uno dei più grandi disastri militari della storia di Roma, diede ordine di accelerare la marcia per dare manforte. Così facendo, però, peggiorava la situazione, immettendo nel luogo del massacro altre truppe che generavano ancora più panico e confusione.
Tauro si accostò a Vala Numonio chiedendogli di tornare indietro e stornare quanti più legionari possibile verso il luogo in cui il suo alfiere teneva l’aquila della Diciottesima legione ancora ben salda nel terreno...Voleva portarli a uno spiazzo abbastanza libero e leggermente sopraelevato per costituirvi un accampamento di fortuna. Pensava poi che avrebbe potuto inviare uno dei migliori cavalieri a cercare Lucio Asprenas, nipote di Varo e acquartierato sul Reno, per avere rinforzi, se si fosse fatto ancora in tempo.
Intanto Arminius, in groppa a Borr, imperversava contro i soldati romani impantanati e ormai impotenti, ma presto vide che verso oriente si andava costituendo, attorno a Tauro, un grumo di resistenza che avrebbe potuto diventare pericoloso, e si lanciò avanti con la spada in pugno. Gli fu addosso quasi senza che Tauro se ne accorgesse.
«Due soldati romani si rincontrano sempre, vero centurione?» gli gridò.
Tauro evitò per un soffio un fendente che gli avrebbe mozzato la testa e si raccolse in una guardia stretta tenendo basso lo scudo e alto il gladio. Arminius impose a Borr una conversione che quasi sembrò spezzargli la schiena e lo lanciò di nuovo a tutta velocità contro il centurione.
«Ti ho preso a frustate una volta e lo farò di nuovo, bastardo, uomo senza onore!» gridò Tauro, ma si trovava sulla traiettoria di un cavallo da mille libbre spinto da un cavaliere alto sei piedi. Restò immobile, fermo come una statua. Poi, quando Borr fu a tiro, gli scagliò fra le zampe la sua fionda balearica e lo fece stramazzare con il suo cavaliere.
«Se gli hai fatto del male ti farò scuoiare vivo» ringhiò Arminius balzando nuovamente in piedi.
«Provaci!» ribatté Tauro, trincerato dietro il suo scudo, alle spalle l’aquila legionaria.
Si avventarono l’uno contro l’altro facendo sprizzare scintille dalle loro armi, ma Tauro aveva cinquantatré anni e Arminius ventisei. Il centurione aveva inoltre alle spalle una lunga notte insonne, una marcia durissima, due ore di combattimento incessante e lo stomaco vuoto, e il suo destino parve presto segnato, quando una voce echeggiò alla loro sinistra: «Provaci con qualcuno che te le può dare! E non con un anziano!».
Arminius si volse da quella parte e si trovò di fronte un cavaliere con il volto celato dietro una maschera di bronzo che indossava un’uniforme romana ma brandiva una spada germanica e montava un cavallo nero.
«Fatti avanti!» esclamò Arminius.
E chi era mai quello? La voce usciva deformata dalla maschera, che le dava un timbro metallico.
Tauro si appoggiò a una roccia ansimando stremato: non era uscito incolume dal violento scontro con Arminius e dal fianco gli scendeva un rivolo di sangue. Chi era il cavaliere con la maschera?
Tutto intorno era un delirio di grida, lamenti, fragore di armi che cozzavano, animali rantolanti, nitriti di cavalli sventrati, ma sul piccolo rialzo si andavano radunando molti che fino a quel momento erano sopravvissuti. Si preparavano all’ultimo scontro e alla morte, ancora preannunciata dal cupo boato del martello di Thor.
I due cavalieri si allontanarono, trascinati dal galoppo delle loro cavalcature, furente quello dello stallone nero, più incerto quello di Borr, che ancora soffriva della sua caduta. Finché si fermarono ai bordi di una radura sabbiosa che circondava una grande palude. I due guerrieri si affrontarono prima a cavallo e poi a piedi con violenti fendenti di spada e di pugnale. Arminius impugnava anche l’ascia, che roteava con enorme potenza, facendola rombare nell’aria densa di Teutoburgo. Il cavaliere con la maschera schivava piegandosi in due per poi riemergere e colpire con la spada germanica e la spada romana. Non parlavano più, si colpivano soltanto con incredibile violenza, cercavano di mutilarsi l’un l’altro mirando alle braccia, alle gambe, alla testa.
Poi un colpo più forte di Arminius alla spalla sinistra del suo avversario fu deviato in alto dalle lastre d’acciaio dello spallaccio segmentato e la maschera cadde a terra.
Erano uno di fronte all’altro, ansimando e rantolando.
«Tu?» disse Arminius sbalordito.
Il cavaliere balzò sul suo stallone nero e volò via attraversando al galoppo il campo di sangue e di morte.