Nessuno dei due ha la patente. David compie sedici anni l’anno prossimo in marzo, Sarah in aprile. Adesso siamo ai primi di luglio e i due sono ancora lontani dai sedici e dalle chiavi di un’auto. Restano due mesi di estate, un tempo che appare infinito, ma a livello intuitivo loro avvertono anche che non è un intervallo lungo e passerà molto in fretta. Il loro livello intuitivo è sempre molto acutizzato, quando stanno insieme. L’intuito gli dice solo cosa vogliono, non come ottenerlo, e la cosa è intollerabile.
La loro storia è cominciata sul serio quest’estate, benché il prologo abbia richiesto tutto l’anno scorso. Per tutto l’autunno e la primavera dell’anno scorso hanno vissuto sempre e solo in riferimento l’uno all’altra, e visti come un tacito binomio dal resto del mondo. Poco sottolineata ma universalmente percepita, questa tensione fra loro, inquieta per non dire pericolosa. Quando fosse cominciata era più difficile da dire. Entrambi avevano fatto delle esperienze – nessuno dei due era vergine – e questo poteva aver sia accelerato che rallentato gli eventi. L’autunno di quel primo anno, tutti e due avevano cominciato la scuola legati a qualcuno che andava in un altro posto, più normale. Mentre la loro scuola era speciale, mirata ad attirare i più bravi in certe discipline da tutti i posti normali della metropoli e oltre, fino alle desolate cittadine di cintura: ardito esperimento dieci anni prima, adesso era un istituto d’élite, trasferito di recente in un nuovo e costoso fabbricato pieno di dotazioni «professionali» di «livello internazionale». Una scuola intesa a separare, a recidere legami che era preferibile recidere, relegare all’infanzia. Sarah e David lo avevano accettato come uno dei dolorosi riti necessari alla loro eccezionale futura esistenza; forse, addirittura, avevano profuso un surplus di tenerezza sui residuali partner mentre li dismettevano. La scuola si chiamava «Citywide Academy for the Performing Arts» ma loro due e tutti gli altri allievi e docenti la chiamavano, con una certa boria, CAPA.
Alla CAPA gli allievi del primo anno di Teatro facevano Scenotecnica, Shakespeare, Musica a Prima Vista e, al corso di recitazione, Esercizi di Fiducia: tutti termini che, gli era stato insegnato, richiedevano la maiuscola in virtù del loro legame con l’Arte. Di Esercizi di Fiducia ce n’era una varietà apparentemente infinita. Alcuni erano basati sul dialogo e somigliavano alla terapia di gruppo; altri richiedevano silenzio, occhi bendati, cadute all’indietro da tavoli o scale a pioli sull’intreccio formato dalle braccia dei compagni. Quasi tutti i giorni bisognava mettersi supini sulle fredde mattonelle del pavimento in quella che Sarah, molti anni dopo, avrebbe appreso essere la posizione yoga del cadavere. L’insegnante, il professor Kingsley, passava tra loro felpato come un gatto in morbidi mocassini di pelle a punta, cantilenando un mantra di consapevolezza muscolare. Lasciate che la consapevolezza vi si spanda negli stinchi, riempiendoli adagio dalla caviglia al ginocchio. Lasciateli diventare liquidi e pesanti. Anche mentre percepite ogni cellula, mentre la abbracciate con la consapevolezza così acuita, la state lasciando andare. Lasciatela andare. Lasciatela andare. Sarah si era conquistata l’ammissione con un monologo tratto dalla versione teatrale dell’Invito di nozze di Carson McCullers. David, che era stato a un laboratorio estivo di teatro, aveva fatto Willy Loman in Morte di un commesso viaggiatore. Il primo giorno di scuola Kingsley si era insinuato nell’aula come una lama – si muoveva in un silenzio da imboscata – e non appena i ragazzi avevano smesso di parlare, cioè quasi subito, gli aveva rivolto uno sguardo che nei recessi della mente Sarah ancora rivedeva. Pareva mescolasse il disprezzo a una sfida. Secondo me non valete niente, diceva quello sguardo, investendoli come un getto d’acqua fredda. E poi, come a stuzzicarli, rettificava: ...o magari mi sbaglio? THEATRE, aveva scritto col gesso Kingsley a grandi lettere sferzanti sulla lavagna. «Scritto così, all’inglese», aveva detto. «Scrivetemelo theater all’americana anche una volta sola, e vi boccio». Erano queste le prime parole che aveva detto, in realtà, non lo sdegnoso «Secondo me non valete niente» che si era immaginata Sarah.
Sarah portava un paio di jeans unici. Benché li avesse comprati in un centro commerciale, non li aveva mai visti addosso a nessun altro: erano inconfondibilmente suoi, molto attillati, con delle cuciture elaborate. Cuciture che tracciavano spirali e motivi che si allargavano sul culo e sulle cosce, davanti e dietro. Anzi, nessun altro indossava jeans operati; le ragazze portavano tutte Levi’s a cinque tasche o leggings, i ragazzi gli stessi Levi’s a cinque tasche oppure, per un breve periodo, pantaloni di nylon da breakdance, alla Michael Jackson. Un giorno durante l’ora di Esercizi di Fiducia, forse verso la fine dell’autunno – David e Sarah non ricordavano bene, non ne avrebbero parlato fino all’estate successiva – Kingsley aveva spento tutte le luci della sala prove senza finestre, precipitandoli in un caveau buio e sprangato. A un’estremità dell’ambiente rettangolare c’era un palcoscenico rialzato, forse un’ottantina di centimetri da terra. Una volta spente le luci, nel silenzio assoluto, avevano sentito Kingsley rasentare la parete di fronte e salire sul palco, del quale distinguevano appena il bordo da certi scampoli di nastro fluorescente, sospesi in una linea spezzata come un’esile costellazione. Ben dopo che gli occhi si erano adattati, ancora non si vedeva altro: un’oscurità come quella dell’utero o della tomba. Dal palco era venuta la voce placida e severa, a svuotarli di ogni tempo precedente. A spogliarli di ogni conoscenza. Erano neonati ciechi, dovevano avventurarsi nel buio e vedere cosa trovavano.
Strisciare, quindi, in modo da non farsi male e tenersi ben lontani dal palco dove Kingsley si era seduto ad ascoltare. E ascoltavano attenti anche loro mentre, al tempo stesso inibiti e disinibiti dal buio, dall’occultamento che offriva, si azzardavano ad azzardare. Un soffuso disturbo acustico di scorrimenti e fruscii. L’aula non era grande; i corpi avevano subito preso a incontrarsi e allontanarsi di soprassalto. Kingsley lo sentiva, o lo supponeva. «C’è forse qualche altra creatura qui con me, nel buio?», mormorava, in un ventriloquio della loro apprensione. «Che cos’ha questa creatura – che cos’ho io? Quattro arti che mi portano avanti e indietro. Una pelle che sente il caldo e il freddo. Il ruvido e il liscio. Che cos’è l’altro. Che cosa sono io. Che cosa siamo noi».
Oltre a strisciare, quindi: toccare. Cosa non già tollerata bensì incoraggiata. Forse perfino obbligatoria.
David rimase sorpreso da quanto riusciva a individuare con l’olfatto, un senso al quale non faceva mai molto caso; adesso se ne ritrovava aggredito a colpi di informazioni. Come un segugio o una guida indiana, valutava ed evitava. I cinque maschi oltre a lui, a partire da William: in apparenza il suo più ovvio rivale che non era un rivale per niente, William emanava un virile aroma di deodorante prodotto in serie, simile a un eccesso di detersivo da bucato. William era bello, biondo, flessuoso, aggraziato, sapeva ballare, conservava una qualche memoria razziale delle convenzioni cortesi tipo come si infila il cappotto a una ragazza, le si porge la mano scendendo dall’auto, le si tiene la porta aperta, cose che non poteva certo avergli insegnato la madre, severissima e pazza, dato che era assente da casa venti ore al giorno perché faceva due lavori a tempo pieno e quando in casa c’era, si chiudeva in camera e si rifiutava di aiutare i figli, William e le sue due sorelle, con i pasti e le faccende, figurarsi con roba più raffinata tipo i compiti; queste erano le cose che uno apprendeva sui propri compagni quattordicenni, nel giro di poche settimane, se studiava Teatro alla CAPA. William era l’idolo romantico della religiosa Julietta, della grassa Pammie, di Taniqua la ballerina e delle sue appendici Chantal e Angie, che strillavano di gioia quando lui le faceva fare piroette e casqué, quando la faceva girare per tutta l’aula come una trottola. Per parte sua, William non esternava altro desiderio che ballare il tango con Taniqua; la sua energia era priva di ardore sessuale come la sua sudorazione era priva di odore. David si tenne ben lontano da William, senza neppure sfiorargli un tallone. Accanto c’era Norbert: aroma untuoso di brufoli. Colin: aroma capelluto della sua assurda afro da pagliaccio. Ellery, nel quale aroma untuoso e capelluto si mescolavano in maniera appetibile, anzi quasi gustosa. E infine Manuel, «ispanico» come da modulo d’iscrizione, etnia di cui alla CAPA non c’era in pratica nessun altro esponente malgrado la palese sovrabbondanza nella metropoli. Forse proprio questo spiegava la sua presenza, forse per la scuola Manuel era una specie di gettone necessario all’ottenimento di fondi. Rigido, silenzioso, privo di qualsivoglia talento percepibile, con un forte accento che lo metteva chiaramente a disagio; e senza un amico, perfino in quella serra di intime confidenze spesso sollecitate e prontamente concesse. L’aroma di Manuel era l’aroma saturo di polvere e sporcizia del suo giaccone di velluto a coste foderato di montone sintetico.
David riprese a muoversi, strisciava rapido e agile senza badare a strascichii, stropiccii, respiri. Un nodo di sussurri e prodotti per capelli profumosi: Chantal, Taniqua e Angie. Mentre passava una delle tre gli strizzò le chiappe, ma lui non rallentò.
Quasi subito Sarah si era resa conto che i suoi jeans la marchiavano, come una scritta in braille. Solo Chantal era riconoscibile quanto lei. Chantal indossava ogni santo giorno un cardigan lungo fino alle cosce di un colore molto acceso tipo rosso scarlatto, rosa fucsia o turchese, ben stretto in vita da due giri di cintura borchiata. Cardigan diverso ma stessa cinta, o magari svariate cinte identiche. Non appena le luci si erano spente qualcuno si era fiondato accanto a Sarah, l’aveva frugata a tentoni fino a trovarle i seni e poi aveva strizzato forte come sperando di estrarne succo. Norbert, ne era certa: se l’era visto seduto vicino, a fissarla come faceva sempre, finché le luci erano rimaste accese. Lei si era appoggiata all’indietro sulle mani e aveva spinto forte con tutti e due i piedi, rimpiangendo di essersi messa le ballerine, un tempo bianche ma ora grigiastre e malconce, anziché gli stivaletti a punta con tre fibbie e i tacchi ferrati che si era comprata poco tempo prima con i soldi guadagnati facendosi entrambi i turni di apertura del weekend alla panetteria Esprit de Paris, ragion per cui si alzava prima delle sei ogni giorno della settimana benché di rado andasse a letto prima delle due di notte. Lo strizza-tette, chiunque fosse, era tornato ruzzolando nell’oscurità in silenzio, senza neppure un ansito, e da quel momento Sarah si era messa a camminare di traverso su mani e piedi, come un granchio, con il culo basso e le cosce strette. Magari era stato Colin, o Manuel. Manuel che non la fissava mai, che non incrociava lo sguardo di nessuno, di cui Sarah non era neanche certa di aver mai sentito la voce. Forse era tutto violenza e desiderio represso. «...ogni tipo di forma, al buio. Questa è fredda, i margini sono compatti, se ci metto le mani sopra non reagisce. Quest’altra è tiepida, con uno strano profilo irregolare; se ci metto le mani sopra si muove...» La voce con cui il professor Kingsley ricamava l’oscurità aveva lo scopo di farli aprire, tutto aveva lo scopo di farli aprire, ma Sarah si era chiusa e le erano cresciuti aculei da istrice, era un disastro, la sua ultima declamazione all’ora di Shakespeare era stata tremenda, lei tutta rigida, piena di tic.
Più di tutto temeva di imbattersi in Julietta o in Pammie, entrambe così sincere e prive d’imbarazzo, come bambine. Di certo si erano messe ad accarezzare gioiose qualunque cosa gli capitasse sotto mano.
Eccola, trovata. Una mano le afferrò il ginocchio sinistro, il palmo le percorse la coscia, le creste ondulate delle cuciture. Ne percepiva il calore attraverso i jeans. Così, come niente, sentì un tuffo alla bocca dello stomaco, una botola che si apriva scattando in silenzio, come se la voce di Kingsley fosse il vento ostinato che aveva inutilmente sbatacchiato il fermo che ora questa mano aveva fatto saltare.
Quella rimase ferma sulla coscia mentre l’altra cercava la sua mano destra e la portava di piatto su una faccia leggermente sbarbata. Le afferrò il pollice, molle e indifeso, lo sistemò in posizione e premette come a voler fissare un’impronta. Sotto il polpastrello Sarah sentì un bozzo lieve, come il pomfo lasciato da una zanzara. Il neo di David, una voglia color cioccolato in leggero rilievo, dello stesso diametro della gommina in cima a una matita, sulla guancia sinistra, appena al largo della bocca.
Non avevano ancora, a quel punto della loro esigua conoscenza, mai parlato del suo neo. Quale quattordicenne parla di nei, sempre che li noti? Ma senza parole Sarah lo aveva notato. E senza parole David lo aveva capito. Quello era il suo marchio, il suo braille. Ora la mano di Sarah non era più posata passivamente sulla faccia bensì la reggeva, come a tenerla in equilibrio sul collo. Gli fece scorrere il pollice sulle labbra, inconfondibili nella forma quanto il neo: piene ma non femminee, più scimmiesche. Vagamente Mick Jagger. Gli occhi, benché piccoli, erano profondi e somigliavano ad agate azzurre. Avevano anche qualcosa di intelligentemente ferino. Non era bello in modo convenzionale, per niente, ma non ne aveva bisogno.
David le prese il pollice in bocca, lo sfiorò delicatamente con la lingua, senza sbavarlo, se lo riportò sulle labbra con un bacio. Il pollice gli percorse la fessura tra le labbra come a prenderne le misure.
Il professor Kingsley stava sicuramente continuando a sciorinare indicazioni, ma loro non lo sentivano più.
David non aveva mai dilazionato a quel modo un bacio. Si sentiva trafitto dal desiderio e come in grado di rimanere sospeso là, a galla sul dolore. Risalì con le mani, insieme, e gliele chiuse sui seni. Sarah rabbrividì e gli si fece contro e lui sollevò le mani di un millimetro, in modo che i palmi le sfiorassero soltanto i capezzoli che tendevano la trama sottile della maglietta di cotone. Se portava il reggiseno era un soffio da niente, un morbido straccetto di seta a racchiuderle le costole. Quei capezzoli gli scrosciarono nella mente sotto forma di dure gemme scintillanti, quarzi e diamanti e quei grumi sfaccettati di cristallo di rocca che si facevano crescere su uno spago dentro un vasetto di vetro. I piccoli seni erano perfetti per lui, della taglia precisa della mano che li racchiudeva. Li soppesò e li misurò, in preda alla meraviglia, sfiorandoli con i palmi o con la punta delle dita, molte volte allo stesso modo. Con la ragazza ora dismessa della scuola di prima aveva messo a punto la Formula e poi vi era rimasto imprigionato: prima Bacio con la Lingua per il lasso prestabilito, poi Tette per il lasso prestabilito, poi Dito Dentro per il lasso prestabilito, prima di culminare nella Scopata. Mai trascurato un passaggio né cambiato l’ordine. La ricetta del sesso. Adesso, d’un tratto, si rese conto che non doveva per forza essere così.
Si misero ginocchia contro ginocchia, lui con i palmi a cullarle i seni, lei con le mani a reggergli il cranio ai due lati della faccia, il viso premuto contro la sua spalla al punto che un pezzo della polo gli si inumidì di fiato caldo. David si girò infilando il viso nella massa dei capelli di Sarah, beandosi del suo aroma, esultando. Per come l’aveva trovata. Anzi riconosciuta, non c’era altra parola per dirlo. Una qualche sostanza chimica aveva plasmato lei per lui, lui per lei; non erano ancora incasinati dalla vita al punto da non rendersene conto.
«Avvicinatevi a uno spazio contro la parete e sedetevi. Mani rilassate lungo i fianchi. Occhi chiusi, per favore. Riaccenderò la luce per gradi, per agevolare la transizione».
Ben prima che Kingsley terminasse il discorso Sarah si staccò da David, strisciando come in fuga da un incendio fino a colpire una parete. Raccolse le ginocchia al petto, schiacciò il viso contro le ginocchia.
David aveva la bocca riarsa, si sentiva strangolato dalle mutande. Le mani, così acutamente sensibili un istante prima, erano goffe come dentro guanti da pugile. Si scostò molte volte i capelli, corti e immutati, dalla fronte.
Al riaccendersi delle luci, tutti e due guardavano fisso il centro vuoto dell’aula.
Il primo cruciale anno di apprendimento proseguì. Nelle aule con i banchi, si sedevano in banchi distinti. Nelle aule con le file di sedie, si sedevano in file distinte. Quando ciondolavano negli spazi comuni, a mensa, sulle panchine dei fumatori, aderivano a distinti gruppi di conversazione, talvolta a pochi centimetri di distanza, dandosi le spalle. Ma nei momenti di passaggio, di movimento generale, lo sguardo di David bucava l’aria, l’occhiata di Sarah guizzava verso di lui e poi lontano, come una frusta. A loro insaputa, erano evidenti come fari. A riposo, perfino quando entrambi guardavano dritto avanti a sé, tra loro c’era un filo teso, e i compagni cambiavano strada per evitare di inciamparci.
La distanza gli serviva a procurarsi altra oscurità. Alla fine dell’anno, un ginocchio che ballonzolava inquieto, gli occhi che scandagliavano gli angoli più remoti dell’aula, le nocche che scrocchiavano nevrotiche, David si fermò accanto a Sarah e le chiese, biascicando, l’indirizzo. Andava in Inghilterra con la famiglia. Voleva spedirle una cartolina. Lei lo scrisse rapidamente, glielo passò, lui girò sui tacchi.
Le cartoline cominciarono una settimana dopo. Davanti, niente di speciale: il Ponte di Londra, le guardie serissime a Buckingham Palace, un punk pittoresco con un metro di cresta moicana. Diversamente da David, la cui famiglia faceva abitualmente viaggi in posti tipo l’Australia, il Messico, Parigi, Sarah non era mai uscita dagli Stati Uniti, ma perfino lei si rendeva conto che le cartoline erano molto generiche, pescate a caso dall’espositore girevole del negozio di souvenir. Dietro, invece, tutta un’altra storia, ricoperte di scrittura da un bordo all’altro, indirizzo e francobollo pigiati a fatica tra le righe. Era grata al postino che le recapitava; di certo le sbirciava, come faceva lei, ma con emozioni diverse. Almeno una al giorno, talvolta di più, che subito recuperava dalla cassetta dopo il passaggio del portalettere, lasciando le bollette e i buoni sconto alla madre per quando rientrava dal lavoro. David aveva una calligrafia esuberante, quasi femminile, occhielli slanciati e ampi svolazzi eppure di grande regolarità, con tutte le lettere inclinate al medesimo angolo, tutte le t e le l alte uguali. Il contenuto somigliava molto alla forma: rigoglioso di osservazioni eppure abilmente misurato. Ogni cartolina descriveva una piccola scena. E negli angoli in basso a destra, compressa accanto al codice postale, una qualche titubante espressione di affetto che le faceva mancare l’aria.
Nella vasta metropoli del Sud degli Stati Uniti in cui abitavano abbondava il terreno e mancava tutto il resto: niente corsi d’acqua, niente fossi o canali, non una collina, nessuna varietà topografica di nessun tipo, niente trasporti pubblici ma neppure la consapevolezza che mancassero. La città, come i rampicanti privi di sostegni, si estendeva caotica, rada e insensata, con quella disorganizzazione come solo elemento unificante. Raffinati quartieri di querce virginiane e basse ville signorili in muratura, come quello dove abitava David, sorgevano accanto a spianate di ghiaia, o a centri meccanizzati delle Poste che somigliavano a basi dell’Esercito, oppure a stabilimenti d’imbottigliamento della Coca-Cola che somigliavano a impianti di depurazione delle acque scure. E i pacchiani, labirintici comprensori residenziali come quello in cui viveva Sarah, con le loro centinaia di scatolette a due piani disseminate intorno a schiere di piscine macchiate di alghe, nelle loro propaggini orientali potevano andare a morire sul larghissimo viale, alberato di palme consunte, che dall’altro lato costeggiava i cancelli del circolo ricreativo per ebrei più prestigioso della città. La madre di David, al ritorno della famiglia da Londra, si sorprese piacevolmente nel vederlo interessato allo squash e al nuoto del Circolo Ebraico per il quale, da quando si era iscritto alla CAPA, non aveva mostrato che disprezzo. «Che poi, ce l’hai ancora la racchetta?», gli chiese.
Lui estrasse una racchetta dal fondo dell’armadio. E perfino un telo di spugna. Oggetti che gli pendevano flosci dalle mani quando si presentò alla porta di Sarah. La reale distanza tra il circolo, dall’altro lato del vialone, e la porta di Sarah si era rivelata ben più grande di quanto suggerissero le molte contiguità. La scarpinata – senza l’ausilio di marciapiedi né di attraversamenti, perché la metropoli non era fatta per i pedoni – dal parcheggio del circolo al cancello sud del comprensorio di Sarah era durata quasi venti minuti, nel caldo infernale, lungo uno spartitraffico piantumato ad azalee riarse ma senza un albero, durante i quali svariati automobilisti avevano accostato per chiedergli se aveva bisogno d’aiuto. Nella metropoli solo i poveri più poveri, o le vittime di un crimine appena commesso, andavano a piedi. Una volta entrato nel vasto e intricatissimo comprensorio, David si sentì girare la testa: era enorme, una città nella città, senza cartelli. Sarah e la madre si erano trasferite lì quando lei aveva dodici anni, il quinto trasloco in quattro anni ma il primo in cui il padre di Sarah non c’entrava. Sarah e la madre avevano smesso di perdersi nel labirinto dei posti auto solo dopo aver fatto una croce col gesso sul cancelletto di legno scolorito che separava la loro piazzola dal loro giardinetto posteriore. Luglio nella metropoli: temperatura media diurna, trentasei gradi. Dall’unico indizio in suo possesso, il numero dell’appartamento, David non avrebbe mai potuto arguire che rispetto al circolo Sarah abitava dal lato più lontano, quello occidentale, vicino all’ingresso opposto. Proprio da lì lei gli aveva fornito indicazioni, che lui però aveva ignorato perché sapeva che non sarebbe venuto da quella parte. Ma era stato troppo l’imbarazzo di spiegarle il suo piano di farsi prima dare un passaggio fino al circolo, troppo l’imbarazzo di non avere una macchina sua, malgrado nessuno dei due avesse una macchina sua perché avevano quindici anni e ancora per un anno non potevano guidare. Non gli era venuto in mente che lei la pativa altrettanto, la feroce privazione di non avere la patente in quella città di auto. Era un elemento della crudele condizione intermedia in cui si trovavano: non più bambini, ma privi dei poteri di cui godevano gli adulti. Le «vie» all’interno del comprensorio non erano vie affatto, ma solo instancabili metastasi ramificate di vialetti pedonali, o per le macchine, i primi distinti da bordure di impatiens morenti, i secondi dal fatto che delimitavano gli spazi di posteggio. David ci mise più di un’ora a trovare casa di Sarah, facendosi forse tre o quattro chilometri a piedi. Si era immaginato di prenderla tra le braccia come aveva fatto quel giorno al buio, invece rimase là, incollato sulla sua soglia, col sangue bollito dal sole che gli faceva tremolare la vista. Temendo di vomitare o di svenire. Poi fu sfiorato dall’aria condivisa della loro infanzia: quella particolare aria della loro città, mucidamente sepolta e rinfrescata dall’interminabile viaggio attraverso condotti di climatizzazione che il sole non raggiungeva mai. Che uno abitasse in una villa o in una scatoletta di mattoni, l’aria aveva sempre lo stesso odore. David vi si avvicinò ciecamente. «Ho bisogno di una doccia», riuscì a dire.
Il sotterfugio lo aveva costretto a indossare pantaloncini, calzettoni al ginocchio, puerili scarpe da tennis bianche e una T-shirt sportiva. Tenuta che mise Sarah in imbarazzo. Le sembrò alieno, sgraziato, rimostranza che tuttavia le pigolava fioca all’orecchio da sotto il macigno del desiderio. Desiderio che fu a sua volta eclissato da un’emozione diversa e inaudita, un attacco di dolente tenerezza, come se dietro il ragazzo si fosse visto trasparire per un attimo l’uomo che sarebbe diventato, colmo di zone d’ombra e debolezze impossibili da immaginare. Il ragazzo la scansò per andare a chiudersi nel bagno. La madre di Sarah lavorava tutto il giorno chissà dove; madre e figlia condividevano il bagno piccolo e trasandato, così diverso da tutte e quattro le stanze da bagno a casa sua. In quel territorio estraneo David si fece la doccia con un panetto liscio di sapone Ivory, passandoselo tra le gambe, insaponandosi risoluto ogni centimetro quadrato, meticoloso e paziente perché autenticamente spaventato; non era mai stato a letto con una ragazza che amava. Fin lì c’era stato con due, che gli si erano entrambe ormai dissolte nella mente. La mente, in via di lenta dilatazione ora che la temperatura del sangue calava rispetto al pericoloso bollore. Aveva tenuto l’acqua della doccia sul fresco, quasi freddo. Uscì guardingo dal bagno, un asciugamano intorno alla vita. Lei lo aspettava a letto.
Kingsley, il loro insegnante, conviveva con un uomo che definiva marito; nel dirlo, rivolgeva alla classe un occhiolino provocatorio. Questo succedeva nel 1982, lontano da New York. Nessuno di loro, eccetto Sarah, aveva mai conosciuto un uomo che definisse marito un altro uomo facendo un occhiolino provocatorio. Nessuno di loro aveva mai conosciuto un uomo che aveva vissuto per molti anni a New York, che aveva fatto parte del cast originale di Cabaret e che si riferiva a Joel Grey,1 nel rievocare quei tempi, dicendo solo «Joel». Nessuno di loro, di nuovo eccetto Sarah, aveva mai conosciuto un uomo che potesse tenere appesa in ufficio, fra altri cimeli affascinanti e un po’ osé, la fotografia di una donna esuberante e discinta, con il trucco spesso e le braccia spalancate, che non si sa come pur non somigliandogli affatto ricordava stranamente lo stesso professor Kingsley e della quale si diceva che fosse il professor Kingsley, anche se nessuno ci credeva. Suo cugino, raccontava tranquillamente Sarah ai compagni con gli occhi sgranati, il figlio della sorella di sua madre, era una leather queen; questo cugino viveva a San Francisco, spesso cantava ballate sentimentali vestito da donna, e in generale forniva a Sarah una chiave interpretativa degli esoterismi del professor Kingsley che ai suoi coetanei mancava del tutto. Era per questo che David l’aveva notata la prima volta: per la sua aura di maggiore consapevolezza. A volte la vedeva ridere con Kingsley, e la loro risata appariva condivisa, sul medesimo remotissimo piano. Come tutti gli altri David glielo invidiava, quel piano, e avrebbe voluto farne parte anche lui.
Nel 1982 nessuno di loro, eccetto Sarah, aveva mai conosciuto una persona omosessuale. E allo stesso modo, nel 1982, nessuno di loro vedeva l’omosessualità di Kingsley come altro che l’ennesimo aspetto della sua manifesta superiorità a tutti gli adulti che popolavano il loro mondo. Kingsley era assurdamente spiritoso e talvolta assurdamente sferzante; la prospettiva di dovergli parlare li terrorizzava e li galvanizzava; si bramava di essere alla sua altezza e allo stesso modo si temeva che fosse impossibile. Ovvio che Kingsley fosse gay. Loro non conoscevano il termine, ma l’intuito produceva comunque il brivido: Kingsley non era soltanto gay ma anche un iconoclasta, il primo che avessero mai conosciuto. E questo ambivano a essere anche loro, per poco che riuscissero a esprimerlo a parole. Erano tutti bambini che fino a quel momento non erano mai riusciti a integrarsi, o non erano riusciti, al limite dell’infelicità completa, a sentirsi appagati, e si erano appigliati all’impulso creativo nella speranza di salvarsi.
Bizzarre perturbazioni e scosse, come a farlo apposta, annunciarono la fine dell’estate. Dai Caraibi avanzava verso di loro l’uragano Clem, facendo la ruota durante il notiziario serale; la madre di Sarah si era presa la settimana di ferie, e se ne stava in casa a osservare la figlia con aria di stanca diffidenza e a farle mettere croci di nastro adesivo alle finestre e riempire d’acqua tutti i recipienti disponibili. Sarah riuscì a sfuggirle solo affermando che doveva andare in biblioteca, quella del campus universitario vicinissimo a casa di David. Sia lei che lui si fecero lasciare molto distanti l’uno dall’altra e ambedue per sbaglio distanti dalla biblioteca, e anche una volta ricongiunti continuarono a sentirsi per qualche verso bistrattati. Si avviarono nell’arsura da capogiro, da un’estremità all’altra del campus deturpato dall’estate, alla vana ricerca di un posto dove fermarsi, troppo accaldati e sconvolti per darsi la mano. Ogni tanto passava un giardiniere, a bordo di una golf car stracarica di teloni impermeabili e sacchi di sabbia, e li guardava strano. Studenti non ce n’erano. Il campus era tutto chiuso, biblioteca compresa. Dopo aver attraversato un mare d’asfalto da parcheggio si trovarono davanti il campo da football, come un rudere di Roma antica muto e sbiancato dalla canicola. Sgusciarono dentro da un cancelletto piegato. E al riparo di un chiosco, ai piedi della macchina per i popcorn, sopra un paio di cartoni appiattiti che puzzavano di grasso rancido, Sarah si lasciò scopare da David, la bocca schiacciata contro il suo orecchio, le gambe allacciate alla sua vita, le mani che faticavano a tenergli la schiena viscida di sudore. Quando lui venne, i suoi ansiti ritmati e angosciosi le scottarono il collo. Lei invece per la prima volta non venne, e provò un senso di solitudine. Si rannicchiarono separati per rivestirsi. David non le spazzolò via i frammenti di roba appiccicata alle gambe, né fece un qualsiasi commento a rassicurarla che si poteva ridere. David, mentre litigava con le stringhe delle scarpe, avrebbe preferito non essere venuto senza di lei. Avrebbe preferito non averla sentita così rigida sotto di sé su un letto di cartone. Era stato molto diverso dalle volte a casa di Sarah quando avevano a disposizione tutto il suo letto e la moquette sul pavimento e il corridoio e perfino il divano e la poltrona del salotto per spargerci sopra il loro desiderio, quando a volte riemergevano come da un sogno e ridevano nel trovarsi in un’altra stanza, e lui le sfiorava ogni centimetro di pelle con le labbra, e le spingeva la lingua nella fica, e le abbrancava le mani quando lei s’inarcava e prorompeva in un grido, tutti e due sorpresi ed esaltati dal suo piacere.
Una volta rivestiti uscirono dal campus, essendo arrivati così vicini al confine, e si ritrovarono nello stesso centro commerciale della panetteria francese di Sarah. In un negozio che le piaceva, David la guardò provarsi dei bijou, strana roba fatta a mano con pietre grezze. Quando davanti alla vetrina del negozio comparve la Toyota di sua madre, Sarah scappò di corsa senza lasciarsi baciare di fronte alla commessa. David si trattenne un po’ di più e se ne andò con una scatolina legata con un nastro.
Ripensate all’incredibile densità di eventi del tempo, all’emozione e alla trasformazione pressate come polvere da sparo nella canna. Ripensate alla dilazione e alla diffusione, ai giorni lunghi anni. I loro erano interminabili; vite intere sbocciavano e morivano tra il risveglio e mezzogiorno. L’uragano Clem raggiunse la terraferma e mutò il viale che David aveva attraversato a luglio in un rabbioso fiume bruno che risucchiava le auto parcheggiate e ribaltava gli alberi. L’inizio della scuola fu ritardato di una settimana, a conferma del sospetto condiviso che non un’estate fosse trascorsa, ma un’esistenza: era impossibile che avessero ancora tutti quindici anni. Ed essendo attori avevano portato all’eccesso l’ambizione, naturale a quell’età, di sbalordire i coetanei con una metamorfosi estiva. Chantal tornò a scuola con una testa afro. Norbert tentava, con esiti incerti, di nascondersi sotto una barba. Le più intime amicizie femminili erano chissà come spirate. Sarah non sapeva perché, ma s’irrigidì tutta quando, appena varcata la soglia della Scatola Nera, vide Joelle Cruz venirle incontro strillando. In primavera ci aveva praticamente convissuto, con Joelle: a scuola c’era anche una sua sorella più grande, Martine, e Sarah aveva passato più serate in giro con Joelle, sul sedile posteriore della macchina lercia di Martine, a cercare alcol, o droga, o un buttafuori che credesse alle loro penose carte d’identità false, che a casa. Joelle l’aveva iniziata alla coca, al Rocky Horror e all’abbinamento tra ballerine e jeans; e adesso Sarah si schifò solo a vederla. La carne madida e rosea, l’odore di ascelle. Non le sembrò di fare niente di diverso dal solito; solo, era diversa. Non liquidò Joelle. Non le parlò in tono freddo. Però no: era cambiata. Non era più amica di Joelle. La cosa le parve così preordinata, così radicata nelle nuovissime circostanze del secondo anno da convincersi che anche Joelle l’avesse capito, magari l’avesse addirittura voluto: un atto esplicito a cui Sarah aveva solo reagito.
Ma l’irrilevanza di Joelle era irrilevante per Sarah, anche con Joelle lì davanti a parlarle. Per Sarah era tutto irrilevante tranne David. S’immaginò il suo cenno di saluto luccicarle incontro come uno specchio. Lei e David erano andati molto avanti, loro due soli; erano spariti al di là di un orizzonte, lasciandosi alle spalle ciò che erano a scuola. Se si tenevano addosso la vecchia pelle era solo per camuffarsi. Per Sarah andava da sé che quell’estate dovesse rimanere tra loro, un segreto Olimpo (se ai tempi avesse saputo che cos’era) dove ritirarsi a bisbigliare come dèi; non le era proprio venuto in mente di spiegarlo a David. Dava per scontato che lui lo sapesse già.
David irruppe nella Scatola Nera non come uno specchio luccicante ma come un faro puntato, luminoso e rovente, le braccia che oscillavano un po’ a scatti. Nascondeva qualcosa che mise in evidenza proprio nel tentativo di celarlo, circondato da una decina di compagni aggrappati come laniccio al suo carisma, e Sarah si ritrovò con una scatolina infiocchettata in mano e tutti che la guardavano fisso.
Colin, beffardo: «Ora si mette pure in ginocchio!»
«Ma guardati, sei rossa come un peperone!», rise Angie.
«Aprila, dai», la pregò Pammie.
Sarah ricacciò la scatolina in mano a David. «La apro dopo».
«Aprila adesso», la incalzò David. Forse Colin, Angie, Norbert, Pammie e tutti gli altri spettatori di cui Sarah era così grottescamente conscia per lui erano invisibili, e nemmeno li sentiva. Quella visione, di lei sola al cuore del suo sguardo, non era durata che un attimo, e il fatto che lui fosse indifferente agli astanti le sembrò un modo per sfidarla, per metterla alla prova. Non vide una smentita di questa sua furibonda idea nella vampa cocente sul viso di lui, intensa come la sua; se lei era rossa come un peperone lui andava a fuoco, arroventato da chiazze che insieme alla rada barba adolescenziale gli sfiguravano il viso.
«La apro dopo», ripeté, mentre il professor Kingsley entrava in uno sventolio di braccia a indicare che sì, era splendido essersi ritrovati, ma adesso per favore chiudessero il becco e prendessero posto.
David andò a finire due file dietro Sarah, che non dovette guardare per sapere esattamente dove stava. Rivolta in avanti, ardeva per la sensazione di un torto. Fatto o subìto? Non si sarebbe girata, non avrebbe guardato dalla sua parte per quanto forte lui lo volesse. L’adrenalina scorreva fragorosa in entrambi, un avvertimento pressante e oscuro. Appena pochi minuti prima David varcava l’ampia doppia porta della scuola a lunghe falcate, o meglio saltellando, o meglio camminando strambo per la leggerezza che aveva in cuore, perché finalmente entrava in scena nel ruolo del suo ragazzo. Sarah, la sua ragazza. Per David quei ruoli erano sacri; erano i due a cui teneva di più. Chi cazzo se ne fregava di Amleto? Aveva temuto che la scatolina fosse troppo piccola, che lei rimanesse delusa da una scatolina che le stava tutta sul palmo della mano. Ma quando l’avesse aperta, la catenina d’argento si sarebbe srotolata, e la pietra azzurra posata nell’incavo della gola che lui adorava. Da lei sarebbe sgorgato qualcosa di simile alla gioia raggiante che provava lui – non lo spavento, o la ripulsa, che aveva visto. O la vergogna? Di lui, ovviamente.
David tornò faticosamente a nascondere la scatolina. Doveva portarla all’armadietto, distruggerla, quel grumo indigeribile in tasca ai jeans era una barzelletta. Per David, l’amore era dichiarazione. Che altro, se no? Per Sarah, l’amore era un segreto condiviso. Che altro, se no? Per tutta la lezione Sarah si sentì addosso gli occhi di David e rimase perfettamente immobile, li trattenne lì con la forza del pensiero. Anni dopo, in un futuro dove entra a teatro solo come spettatrice, Sarah vedrà una pièce in cui un attore chiede: «Non potrebbe esistere una lingua silenziosa?», e si sorprenderà al sentirsi gli occhi pieni di lacrime. Due file avanti a David, dolorante per lo sforzo di mantenersi perfettamente immobile in modo che lo sguardo di lui, come una falena, non si involi dalla sua nuca, Sarah non conosce ancora le parole di questa lingua che non ha parole. Non capirà che cosa significa, quando David smetterà di parlarla con lei.
«La Ricostruzione dell’Ego», disse il professor Kingsley, «richiede un fondamento. Miei cari allievi di Seconda, un anno più vecchi e saggi di quando ci siamo visti la prima volta: quale potrebbe essere questo fondamento?»
Quanto avrebbero voluto compiacerlo, quanto. Ma su come farlo non c’era mai una risposta chiara. Dicendo la cosa giusta? (Ma quale poteva essere?) Dicendo una cosa volutamente sbagliata ma spiritosa? Rispondendo alla sua domanda con un’altra domanda, come lui faceva spesso rispondendo alle loro?
Pammie alzò la mano, speranzosa e zelante. «La modestia?»
Lui le rise in faccia, incredulo. «La modestia! Adesso spiegaci perché lo pensi, Pammie, e ti prego di non essere modesta. Anzi ostentalo, il tuo processo mentale, così forse riesco a capirlo».
Pammie, visetto paffuto sotto due fermagli dorati, avvampò fino all’attaccatura dei capelli. Ma possedeva una singolare ostinazione, una capacità di tenere il punto e ribattere. Era religiosa, cosa comunissima fuori dalla loro scuola ma sfavorita dentro, anzi dileggiata, e nel corso dell’anno precedente si era abituata a difendersi. «La gente con troppo ego è piena di sé», disse. «Essere modesti significa non essere presuntuosi».
«Chiariamo subito una cosa: l’ego non è mai “troppo”, fintanto che lo si controlla».
Controllo di Sé: ciascuno di loro temeva di mancarne. Sarah, per esempio. All’inizio dell’anno scolastico aveva chiesto a sua madre di presentare la domanda per farle ottenere un permesso di necessità, cioè una patente di guida per minori a partire dai quattordici anni che ne avevano bisogno per contribuire al bilancio familiare, cosa che Sarah aveva sostenuto di fare, col risultato di offendere a morte la madre. Nella lite che ne era seguita, Sarah aveva scagliato una sedia di cucina contro la vetrata scorrevole che dava sul giardinetto, e la riparazione le era costata le paghe di tutta l’estate alla panetteria. «E tu saresti in grado di guidare», le aveva detto la madre.
David, per esempio. Il giorno che Sarah gli aveva restituito la scatolina lui se l’era schiacciata in mano, riuscendo peraltro a procurarsi un bel taglio. E quando lei più tardi aveva tentato di chiedere: «Adesso posso aprirla?», lui aveva risposto: «Non so di che parli». Se questi esempi costituissero una prova di autocontrollo o della sua mancanza, restava da capire.
«Il fondamento necessario alla Ricostruzione dell’Ego è la Decostruzione dell’Ego», concluse Kingsley. Ne avevano tutti sentito parlare l’anno prima, dagli allora allievi di Seconda e ora di Terza, che facevano continui riferimenti a questo mistero rifiutando però di condividere il minimo particolare. «Quando ci arrivate ci arrivate». «Siete solo in Prima! Le scale si salgono dal primo gradino». «Guardate che non si attraversa un ponte partendo dalla metà». Gli allora di Seconda e ora di Terza erano un gruppo unitissimo, straordinariamente estroverso ed evidentemente dotato di una particolare aura che agli ora di Seconda mancava, e non era solo questione di età. Gli allora di Seconda e ora di Terza erano più fotogenici, sia presi singolarmente sia tutti insieme. In una scuola in cui non si praticavano sport, davano l’impressione di un gruppo di cheerleader. Sfoggiavano abiti coordinati e candide dentature diritte. Si erano appaiati in modo rapido e duraturo, con l’eccezione di una coppia – Brett e Kayley, la cui saga, durata qualche settimana, di rotture, sofferenze e gioiose riconciliazioni era stata seguita da tutta la scuola con l’avidità di norma riservata alle soap – a confermare la proverbiale regola. E i pochi ancora single godevano di affiliazioni esclusive, come Reggitori di Moccolo o Migliori Amici. Tra loro non c’erano lupi solitari come Manuel, né sfigati terminali come Norbert; non c’era nessuno come Sarah, il cui terribile segreto era che durante la pausa fra Brett e Kayley aveva passato una notte con lui a casa di suo padre, nottata nel corso della quale Brett le aveva parlato di Kayley, e aveva pianto, e a un certo punto aveva interrotto un bacio con Sarah per gettare lenzuola e coperte dalla finestra. Dopo aver fatto la pace con Kayley, nella penombra delle prove di un saggio Brett l’aveva presa per un polso e l’aveva avvertita: «Non dirlo a nessuno», e lei si era talmente spaventata per la macchia che avrebbe potuto infliggere alla sua immagine che non l’aveva detto neanche a David.
Anche se adesso David si scansava, quando la vedeva arrivare. E se inevitabilmente si vedevano a lezione lui la guardava freddo e lei lo guardava anche più gelidamente fredda ed era una gara, ad ammucchiare gelo, a spalarselo furibondi dal cuore.
«Mettetevi in cerchio», disse Kingsley.
Come già molte altre volte, nel sedersi per terra a gambe incrociate ciascuno fu preso dalla fastidiosa consapevolezza del proprio inguine e si sentì intirizzire il culo dal linoleum ghiacciato. In molti avevano concluso tra sé che la Decostruzione/Ricostruzione dell’Ego fosse una specie di orgia disincarnata, e ora arrossivano inermi, con la pelle d’oca per l’eccitazione e il terrore. La parete di specchi raddoppiava il cerchio, intorno al quale il professor Kingsley orbitava passeggiando, con lo sguardo rivolto verso un qualche punto al di là di loro. Anche solo quello sguardo gli diceva chiaramente quanto poco fossero all’altezza – di quelli di Seconda dell’anno prima? Del loro stesso potenziale? Degli attori che Kingsley aveva conosciuto a New York? Avvertivano il deficit anche più acutamente perché l’unità di misura era del tutto ignota. Sarah tentò di individuare David, ma lui le si era messo vicino quanto bastava, a destra o a sinistra, da impedirle di vederlo, e lontano quanto bastava da non lasciarsi intuire. Sarebbe stato scelto David? Sarebbe stata scelta Sarah?
«Joelle», mormorò il professor Kingsley, in un rammaricato tono di biasimo. Se non di pena per la sua inadeguatezza, ma che male aveva fatto Joelle? Aveva la pelle arrossata dodici mesi l’anno, e un’estate di scottature l’aveva ridotta tutta chiazze e spellature in faccia e lungo il décolleté, ampiamente esposto dalla maglietta attillata con il collo a V. La cute nuova, fragile e rossastra, le diventò purpurea al sentire il proprio nome; tutti i lembi di pelle morta e mezza sfaldata parvero fremere di paura. In superficie faceva schifo, pensò Sarah. «Joelle, per favore, mettiti al centro esatto del cerchio. Tu sei il mozzo. Da te partono linee invisibili che vanno verso ognuno dei tuoi compagni. Queste linee sono i raggi. Tu e i tuoi compagni, insieme ai raggi, formate la ruota. Tu sei il perno della ruota».
«D’accordo», disse Joelle in un rossore furibondo, con una fontana di sangue a martellarle sotto la pelle.
«Adesso vorrei che scegliessi un raggio. Osservalo per tutta la lunghezza. In fondo c’è qualcuno. Qualcuno a cui sei legata, da quel raggio che vi trapassa entrambi. Chi è la persona che stai guardando?»
Il freddo del linoleum non si sente più. No, ti prego, pensa Sarah di colpo, fissando il tronco di Joelle proprio di fronte, la sua pancia morbida nascosta sotto la maglia attillata.
«Sto guardando Sarah», dice Joelle, con una voce roca che è quasi un sussurro.
«Dille cosa vedi».
«Non mi hai chiamato per tutta l’estate», esala a stento Joelle.
«Vai avanti», dice il professor Kingsley, lo sguardo a mille miglia da lì; non è neanche puntato su Joelle. Forse sta usando il gigantesco specchio della sala per osservarne con la coda di un occhio la pelle che brucia, gli occhi che scintillano, la maglia troppo attillata.
«E io ti chiamavo, e tu non mi richiamavi, e cioè, magari sono io, però è come se, mi sento come se...»
«Rivendica i tuoi sentimenti, Joelle!», latra Kingsley.
«Ero la tua migliore amica e adesso fai finta di non conoscermi!» Il dolore strozzato nella voce è ben più insopportabile delle parole. Sarah è impietrita, una statua, fissa con occhi ciechi la parete di fronte con la porta che dà sul corridoio come se potesse trasportarsi col pensiero fuori da questa sala, e poi d’un tratto è Joelle a scappare: Joelle corre fuori dal cerchio incespicando, praticamente calpestando Colin e Manuel, spalanca la porta e con un lamento acutissimo scompare nel corridoio. Nella sua scia nessuno fiata, nessuno guarda se non per terra, nessuno guarda neppure Sarah. La vita è sospesa. Di colpo, il professor Kingsley si gira verso di lei.
«Che stai aspettando?», chiede perentorio, e Sarah sussulta, allarmata. «Valle dietro!»
Sarah schizza in piedi e fuori dalla porta, incapace d’immaginarsi le facce che si lascia alle spalle, perfino quella di David. Non saprebbe neanche dire in che punto del cerchio stava.
I corridoi sono deserti, i viscidi scacchi bianchi e neri del pavimento percuotono bruschi le suole dure degli stivaletti. I suoi stivaletti punk, punta crudele, tacchi a spillo ferrati e tre grosse fibbie quadrate d’argento per ciascuno. Dietro le porte chiuse delle aule nel corridoio ovest quelli di Prima e di Terza sonnecchiano tra i programmi ministeriali, lettere e matematica, sociologia e spagnolo. La vera vita della scuola si sente lungo i corridoi sud ed est: l’orchestra jazz che sguazza tra le note di Ellington, le dita del pianista solitario impettite sui tasti nell’aula di danza insieme a un battere di piedi fasciati e insanguinati. Il cortiletto dei fumatori è vuoto, le panchine sbiancate dal sole sono coperte solo di ghiande dell’enorme quercia virginiana. Anche l’aula all’aperto, un rettangolo d’erba cinto da un muretto con un palcoscenico a un’estremità, è vuota, il cancello lato strada chiuso con un lucchetto. Sarah vorrebbe tanto che fosse David, non Joelle, a comparire in questi luoghi appartati, David seduto sulla panchina vuota dei fumatori, David seduto sotto la quercia. L’ingresso sul retro conduce al parcheggio sul retro, dove gli studenti posteggiano e pranzano anche, sui cofani delle auto, quando fa bel tempo. Joelle è lì fuori, piegata in due, a ululare singhiozzi. È chiaro che intendeva andare a chiudersi in macchina, ma il dolore l’ha rallentata; le chiavi dell’auto sbucano da un pugno chiuso. Si tratta di quel missile di Mazda nuova di zecca pagata in contanti – oltre diecimila dollari di contanti – che Joelle una volta ha fatto vedere a Sarah, ficcati in un barattolo di caffè sotto il suo letto. Sarah non sapeva da dove provenisse quel denaro. Spaccio di droga, aveva ipotizzato; forse anche altro. Ogni giorno Joelle arriva in macchina fino a casa di un’amica che abita a poche traverse da lei e poi si fa l’ultimo tratto a piedi, in modo che i suoi non vedano l’auto. Joelle non è contorta anzi è semplice, non musona anzi allegra, eppure conduce la vasta esistenza clandestina di una delinquente di professione, cosa da cui un tempo Sarah restava incantata. Adesso Joelle le appare messa a nudo, esposta nella sua essenza: è solo una troietta smaniosa di piacere. La folgorazione la fa trasalire, non per la sua ingenerosità ma perché, comprende Sarah a un tratto, è proprio il genere di folgorazione che il professor Kingsley tenta costantemente di tirar fuori dai suoi allievi. Lui che passeggiava avanti e indietro impaziente l’anno scorso quando, a Osservazione, loro si dicevano cose tipo: «Sei veramente simpatica», o: «Ti trovo molto bello». Eppure in questo momento, comprende Sarah altrettanto bene, si svolge una storia in cui per i suoi veri sentimenti non c’è posto. Adesso è tenuta ad abbracciare Joelle, a fare ammenda. Lo sa per certo, come se Kingsley fosse lì a sovrintendere al tutto: anzi ha la forte sensazione che lui sia lì.
Joelle, precocemente formosa e acre, è tanto ignara della sua sensualità che Sarah si ritrova disgustata dalla propria, così come dalla propria carne, dal proprio aroma. I seni enormi di Joelle sono coperti di lentiggini, le pieghe e i solchi in trappola sono sempre sudati; l’inguine di Joelle, racchiuso dai jeans, si porta dietro una scia olfattiva come certi appiccicosi fiori notturni che infiammano i pipistrelli tropicali. Joelle va a letto con uomini molto più grandi; a scuola ignora i compagni come se non fossero neppure maschi incipienti. Ha occhi solo per Sarah.
Socchiudendo gli occhi, quasi a denti stretti, Sarah la prende tra le braccia. Joelle le si aggrappa riconoscente, le inzuppa la spalla di lacrime e moccio scivoloso. Anche questo è autocontrollo, pensa Sarah. Questo brutale imporre a sé stessi di agire. Fino adesso Sarah credeva che l’autocontrollo fosse solo tenersi a freno: non scagliare la sedia contro la vetrata.
«Mi dispiace tantissimo», si sente borbottare. «Al momento sono troppo incasinata, non volevo sembrare distante. Solo che è tutto così assurdo...»
«Che succede? Lo sapevo che stava succedendo qualcosa! L’avevo capito...»
Ben presto la simulazione è completa. Sarah non intendeva confidarsi con nessuno, e meno che mai con Joelle: adesso, come se leggesse da un copione, le racconta della racchetta usata come diversivo, del chiosco vuoto, e a confessione resa torna a essere l’oggetto della piena devozione di Joelle. I singhiozzi di Joelle si mutano in gioia, le miserande suppliche in esultanza. Rimane aggrappata a Sarah non più per la fragilità del dolore ma per impedirsi di fare salti di gioia sul marciapiede. Ora che si è ricomprata un’amicizia che non voleva più profanando la cosa a cui più teneva, Sarah capisce che non importa aver vincolato Joelle a una «segretezza» che la manda in estasi. Joelle le sta avviluppata addosso come un rampicante mentre tornano barcollando in classe e vanno quasi letteralmente a sbattere contro David, perché sono state via così tanto che la lezione è finita, e lui è stato il primo ad alzarsi, a scappare. Al vederlo Joelle scoppia a ridere e si copre la faccia. David scansa bruscamente Sarah con una spallata e Sarah si sente scoppiare un falò sotto la pelle. Il professor Kingsley, che sta uscendo a sua volta, dice come ripensandoci: «Sarah, passa da me domani durante la pausa pranzo».
Neppure David in fuga manca di sentire la convocazione, né manca di capire cosa significhi. Perfino Joelle, che ha totalmente equivocato il patteggiamento tra sé e Sarah, capisce cosa significa la convocazione di Kingsley. Irrobustisce la morsa rovente su di lei con un’invidia da sorella. Sarah è diventata il genere di Problema che tutti loro vorrebbero essere.
«Gentile da parte tua, ieri», esordì Kingsley dopo averle chiuso la porta alle spalle con un sonoro clic. Le aveva indicato la sedia dove sedersi, e forse era stata la novità di trovarsi seduta su una sedia nel suo ufficio a indurla a ribattere, immediatamente: «Non intendevo essere gentile». Avvertiva un pericoloso impulso a litigare col professore.
«Perché no?», chiese Kingsley.
«Perché non mi sento più in confidenza con Joelle, e con tutto quello che lei ci ha insegnato pensavo che la cosa giusta da fare fosse tenere fede ai miei sentimenti. Invece ieri ho avuto l’impressione che quello che sentivo non avesse la minima importanza».
«In che senso?»
«Lei voleva che le andassi dietro, la facessi sentire meglio e le dicessi che è ancora la mia migliore amica. E io l’ho fatto, anche se non era vero. E adesso devo continuare a mentire perché Joelle è convinta che siamo tornate amiche».
«Come mai pensi fosse quello che volevo?»
«Perché mi ha chiesto di andarle dietro!»
«Sì, ma io ti ho chiesto solo quello. Non ti ho chiesto di farla sentire meglio. Non ti ho chiesto di mentire e dirle che eravate ancora amiche».
«E che altro avrei dovuto fare? Piangeva. Mi sono sentita in colpa». Adesso era lei a piangere, cosa che aveva giurato di non fare. Tutta la rabbia che aveva portato in quell’ufficio si era trasformata in singhiozzi. All’estremità della scrivania più vicina alla sua sedia c’erano dei fazzolettini di carta, come se a chi si sedeva dov’era seduta lei capitasse spesso di piangere, che fosse di rabbia o di qualche altra emozione. Sarah ne prese una manciata e si soffiò il naso.
«Dovevi starle vicina in quel momento, con tenacia e onestà. Ed è quello che hai fatto».
«Non sono stata onesta, le ho detto una balla!»
«E sei consapevole della balla, e consapevole del motivo per cui l’hai detta. Eri presente alla circostanza, Sarah. Più tu di Joelle».
Che da parte del professor Kingsley quel modo di denigrare la sua compagna, lì di fronte a lei, potesse considerarsi disonesto, non passò allora per la mente a Sarah. Sotto certi aspetti il commento le parve giustificato, e per un istante il suo pianto si attenuò. «Continuo a non capire come il raccontare balle possa rendermi fedele ai miei sentimenti, a meno che secondo lei far sentire meglio qualcuno sia più importante che dire la verità».
«Non sto dicendo niente del genere. L’onestà è un processo. Rivendicare le proprie emozioni è un processo. Non significa calpestare chiunque altro. Se tu non fossi una persona integra, non credo che saresti qui a contestarmi su quello che è successo ieri». Sarah provò un brivido d’animazione, al sentirsi descrivere come una che lo «contestava». Era evidentemente la cosa giusta da fare. «Voglio poter contare su questa tua integrità quando arrivano gli studenti inglesi, in primavera», proseguì lui. «Gli servirà, l’assistenza di una persona come te».
Quel futuribile ruolo di guida parve a Sarah molto meno realistico delle sue attuali emergenze. «Ho la sensazione, ad averle detto che siamo ancora amiche, di essermi messa in trappola».
«Troverai il modo di uscirne».
«Come?»
«Lo troverai tu, sottolineo».
Sarah riprese a piangere con forza rinnovata, e per così tanto tempo che alla fine si rese conto di essersi concessa un lusso inedito. Perlopiù piangeva da sola, e di rado davanti a sua madre, ma in ciascun caso ad accompagnare il dolore era l’insofferenza: la sua, e quella di sua madre, davanti alle lacrime. Invece Kingsley pareva farsi tanto più appagato e paziente quanto più lei piangeva. Sedeva là, a sorridere benevolo, e sotto il narcotico di quella pazienza Sarah ebbe la tentazione di confidargli per chi stava piangendo davvero, ma solo a pensarci piangeva troppo forte per parlare, e a un certo punto ci aveva pensato e pianto su talmente a lungo che si sentì come se in effetti avesse parlato di David, e addirittura le fosse stato detto cosa fare, e fu invasa da uno strano senso di pace che poteva anche essere solo spossatezza. Il professor Kingsley continuava a sorridere benevolo, l’aria sempre più soddisfatta.
«Raccontami qualcosa della tua vita fuori da scuola», le disse quando il torrente di singulti si fu calmato.
«Per esempio? Uhm. Io e mia mamma abitiamo ai Windsor Apartments».
«E dove stanno?»
«Non lo sa? Oddio, sono tipo il comprensorio residenziale più grande del mondo. Ogni fabbricato, posteggio e albero uguale all’altro. Il primo anno che ci abitavamo, ogni volta che uscivamo poi tornando ci perdevamo. Abbiamo dovuto segnare il nostro cancello col gesso». Questo lo fece ridere, e lei gongolò.
Gran parte di quello che fanno, con Kingsley, è frenarsi per potersi poi sfogare. A quanto pare, per accedere alle proprie emozioni devono soffocarle. Accesso alle emozioni = presenza nel momento. Recitare = reagire con emozioni autentiche a circostanze fittizie. Riempiono i quaderni di queste e altre singolari asserzioni, ciascuna delle quali, mentre la scrivono, sembra contenere la chiave, o forse la chiave di volta, che garantirà la coesione dell’intera struttura; solo che dopo, quando rilegge gli appunti, a Sarah sembra di sentire una melodia ripetitiva che non culmina né finisce mai, come l’esasperante musichetta del furgone dei gelati d’estate. Sarah non incolpa quest’insieme di note, né il professor Kingsley, loro fonte, più di quanto biasimerebbe il libro che si sforza di leggere – Tropico del Cancro di Henry Miller – per la sua impenetrabilità. È chiaramente troppo giovane per leggere Tropico del Cancro, ma non lo accetta: se sa cosa significano le parole, allora il significato del libro dovrà rivelarsi. E lei continua ostinatamente a provarci. Allo stesso modo, con la recitazione, continua ostinatamente a provarci. Allo stesso modo, con David, tiene ostinatamente viva la sua metà del duetto che ognuno dei due incolpa l’altro di avere cominciato, questa nuova variante del desiderio, resa più aspra dall’offesa ma che continua a legarli in maniera esclusiva. È ancora una promessa, ritiene ostinatamente. Ancora un’esibizione che ciascuno riserva solo all’altro. Sarah nasconde la paura di sbagliarsi – di non possedere il minimo talento, né David – sotto una giovanile e indifferente spavalderia, un ribadire che è pronta a tutto.
Con la fine di settembre cominciano le prove per il saggio. La loro giornata scolastica termina già tardi, alle quattro, diversamente dalla giornata nelle scuole normali, che finisce alle due e mezza. Ma nei periodi che precedono il saggio, cioè più di metà dell’anno, le prove cominciano alle quattro e mezza e si protraggono anche per tre o quattro ore. Durante la pausa, tutta la massa degli allievi di Teatro si riversa nel parcheggio, diretta da U Totem in cerca di cibo spazzatura: anelli di mais alla cipolla e ciccioli piccanti, coppette di gelato, pacchetti di caramelle agrodolci e cataste di KitKat. Gran parte dei prodotti Joelle li ruba, e non la beccano mai. Tornati nel parcheggio s’ingozzano del bottino, gettano gli incarti nei bidoni della spazzatura e si lavano le mani prima di tornare alle prove. Pur con tutta la loro immaturità di urla e spintoni, la loro indifferenza per l’alimentazione corretta, l’antigienico disordine riscontrabile nei loro armadietti, zaini, e, per chi ha già la patente, veicoli, vi sono alcune pignole abitudini che tutti gli allievi di Teatro osservano collettivamente, in maniera automatica. Non si sognerebbero mai di mangiare sul palco, dietro le quinte o nella sala con le poltroncine di velluto rosso; saranno anche adolescenti, ma non c’è nulla di adolescenziale nella loro devozione a questo spazio, la loro cattedrale. Ci defecherebbero, nel corridoio fra le poltrone, piuttosto che mangiarci una barretta al cioccolato. Alcune di queste abitudini le conserveranno per tutta la vita. Ben dopo essersi lasciati alle spalle il teatro, e i loro sogni teatrali, scriveranno ancora theatre all’inglese. La grafia americana gli sembrerà sempre cafona. L’orgoglio del mastro artigiano in un mestiere difficile: dovranno ringraziare Kingsley per averglielo donato, qualunque sia il giudizio finale che daranno su di lui.
Queste lunghe giornate, quest’esistenza condotta quasi interamente lontano dai genitori, quasi senza supervisione in un mondo di coetanei, sono all’origine del fervido affetto che provano per la loro scuola. La libertà, il senso di sé – queste idee astratte che forse un tempo credevano di esclusiva pertinenza degli adulti – di fatto sono già loro. Perfino Sarah, ancora lontana mesi dalla patente e forse un’eternità da un’automobile dopo che ha dovuto spendere tutti i suoi guadagni per far riparare la vetrata scorrevole, assapora la libertà adesso che Joelle l’accompagna ovunque, in qualunque momento, con la Mazda, malgrado il fatto che abitino a un’ora di macchina una dall’altra, ai capi opposti della città. Efficace balsamo sul risentimento che prova per essere stata costretta a riaccendere la loro amicizia. Entrambe assegnate al reparto costumi, non hanno niente da fare finché il professor Freedman, costumista, non finisce di prendere le misure, ma si fermano alle prove perché non si sognerebbero mai di andarsene; siedono in teatro con i noiosi compiti di storia. David è alle scenografie, e lui pure non ha niente da fare perché il suo reparto attende la risoluzione di certi conflitti artistici tra il professor Browne, direttore di scena, e il professor Kingsley, regista, ma anche gli attrezzisti si fermano in teatro; tutti si fermano, che debbano oppure no, con l’eccezione di alcuni di Prima che ancora non capiscono la norma non scritta, o i cui genitori si oppongono a una giornata scolastica di dodici ore.
Dalla poltroncina in platea Sarah vede David, durante un’interruzione della prova tecnica, attraversare il palco da destra a sinistra rasente al muro di fondo, per poi sparire in direzione dei locali della scenografia. I sipari sono tutti alzati, raccolti nella torre scenica; il palco è una fauce, di una concretezza e vastità da brivido, dentro cui gli attori ciondolano in attesa. Sarah si alza di colpo, dicendo a Joelle che va in bagno. Uscita dal teatro piega a sinistra, per seguire il corridoio che conduce alla porta esterna della scenografia; neanche a farlo apposta, la porta si apre e ne esce David. Sono le sei passate; il corridoio è deserto. Sono soli, per la prima volta da quel giorno di tarda estate al campus. Il corridoio è deserto, ma non lo resterà a lungo; la porta della scenografia è qui accanto, poco più giù c’è la porta del piano di carico che arriva fin dentro la sinistra del palco, i macchinisti non stanno ancora montando, in attesa, come gli attrezzisti, che si risolvano certi conflitti sulle decisioni sceniche, ma da un momento all’altro potrebbero entrare qui, nel loro regno.
Sono mesi che Sarah e David accumulano fiumi di accuse da rovesciarsi addosso. Ma ora la collera li abbandona. «Ehi», fa David, con un rossore infuocato che gli affiora dal colletto della polo.
Alla vista di quel rossore, Sarah sente il petto che si gonfia e implode. Il mal d’amore non passa dal cuore, bensì dal fragile condotto cavo dello sterno.
«Ciao», dice, guardandogli lo sterno nascosto dalla maglietta. Quanto vorrebbe poggiare lì il capo, a riposo dallo strazio di tanto desiderio.
«Dove vai?», chiede lui.
«Non lo so», dice lei onestamente.
Rientrano in scenografia insieme. Lo spazio di lavoro occupa tutta l’altezza disponibile. Sega circolare, sega a nastro, scarti di compensato scheggiato, segatura per terra. Dal lato opposto, una scala così ripida che sembra a pioli sale a un piano ammezzato di deposito; in fondo alla zona di deposito un’altra porta dà sul corridoio del primo piano, regno di sale prove per musicisti. Durante l’estate qualcuno ha sgomberato tutti i vecchi fondali, smantellato scene fisse e altri residuati, perciò l’ammezzato è quasi vuoto. Escono dalla porta sulla parete di fronte e si ritrovano nel corridoio del primo piano. Sarah avanza fino alle doppie porte della sala prove per l’orchestra. Queste doppie porte sono montate una sessantina di centimetri più indietro rispetto al corridoio, sicché formano una rientranza larga e poco profonda; Sarah tenta di aprirle, ma sono chiuse a chiave. Quando si volta, David le cattura la bocca con la bocca, spingendola nell’angolo della rientranza al punto che lei si sente mordere il braccio dai cardini sporgenti. Assolutamente non protetta né nascosta; con la schiena schiacciata in quell’angolo, vede tutto il corridoio. L’unica speranza è che nessun compagno gironzoli nei paraggi. Questi pensieri le strisciano sul fondo della mente, limpidi ma ignorati, mentre con la bocca divora la bocca di David. È questa la sua potenza su di lei: non il cazzo né le mani, ma la bocca. Cazzo e mani sono piuttosto precoci. Appartengono a un uomo fortunato e sicuro di sé, e per oscuri motivi hanno viaggiato nel tempo fino ad appendersi a un adolescente. La bocca invece non è una potenza straniera; è la parte di sé che le manca. Vedendolo per la prima volta, l’anno prima, Sarah si era soffermata riconoscendola proprio sulla bocca, su quell’aria sgraziata e scimmiesca, sulle labbra lievemente troppo larghe per lo stretto viso da ragazzino. Una bocca del tutto diversa dalla sua perché fatta per la sua; baciarlo per la prima volta era stata la sua prima esperienza di vita che avesse superato le aspettative.
Boccheggiando, Sarah gli prende il cranio tra i palmi e gli infila la lingua nella spirale dell’orecchio perché ha imparato che questo gli fa perdere il controllo, perfino più di quando si sforza di prendergli tutto il cazzo in bocca. In quel caso, un qualche indelebile scrupolo o imbarazzo interferisce con il piacere, mentre la lingua nell’orecchio lo manda in deliquio. Ne avevano addirittura fatto una battuta, durante l’estate: dicevano che era la sua kryptonite. Lui adesso geme, senza freni, e cade letteralmente in ginocchio, trascinandola con sé. Con la mano libera si slaccia i jeans, armeggiando per estrarre la spessa erezione dalla fessura dei boxer. Lei non ha brecce di quel genere negli indumenti, è necessario che si sfili del tutto i jeans, almeno una gamba, il che implica togliere uno stivaletto e poi anche gli slip; ansanti, eccoli entrambi a tirarle e strattonarle il vestiario nel bel mezzo del pavimento a scacchi bianchi e neri del corridoio, con l’istintiva diligenza che impiegherebbero nel disporre una tela sull’armatura di legno del fondale di una scena. A quel punto Sarah è nuda dalla punta di un piede alla vita, e il caldo, sdrucciolevole incastro si realizza; malgrado la sin qui feroce reciprocità, restano ambedue sconvolti nel sorprendersi a copulare in uno spazio comune della loro scuola, e adesso ci danno dentro anche di più, finché con orrende torsioni del viso David viene, e con gli spasmi manda la testa di Sarah a sbattere inaspettatamente forte contro la porta dell’aula di musica, ora dietro di lei. Quasi nel medesimo istante sentono un’altra porta aprirsi e chiudersi rapidamente di schianto: la porta dell’ammezzato della scenografia.
Tremano entrambi, le dita inutili come salsicce, mentre si ricompongono. Non si scambiano un’altra parola; Sarah neppure capisce se incrociano e distolgono lo sguardo mentre sgusciano via in direzioni opposte, nessuno dei due verso la porta dell’ammezzato. David si avvia verso la scala posteriore che porta all’ingresso dell’area di carico, Sarah gira l’angolo verso il corridoio principale, imbocca l’ampia scalinata centrale, il piazzale, e rientra dalle porte del teatro.
«Dove sei stata?», dice Joelle, poi si mette a ridere. «Ragazzaccia». Le passa il portacipria, e nell’oblò impolverato Sarah si guarda la bocca. Il rossetto è sparito, le labbra sono gonfie e irritate, e stranamente larghe per la sua faccia, come quelle di lui.
Finalmente, mezzi e fine sembrano combaciare.
Hanno una nuova materia, Movimento, in cui gli verrà insegnato a muoversi. Impareranno a muoversi muovendosi; impareranno a liberare i propri movimenti con il movimento libero. La missione dell’insegnante di Movimento è talmente semplice che Sarah la trova idiota. Nella nuova materia c’è qualcos’altro che Sarah vede con vaga antipatia: e non sa bene come reagire quando si rende conto che quest’antipatia deriva dal fatto che l’insegnante è femmina. Il professor Kingsley, il professor Browne, il professor Freedman, il professor Macy che insegna Scenografia, Drammaturgia e Storia del teatro: tutti uomini. A insegnargli Movimento sarà la professoressa Rozot. Dal primo momento in cui la vedono, le mancano tutti velatamente di rispetto. Qualcosa nello sguardo di Kingsley, quando gli presenta la collega, li avverte: possono anche beffarsi di lei, ma è meglio se la cosa resta tra loro.
Lei è una ballerina e un’«artista multidisciplinare», e trema di gioia alla prospettiva di essere la loro insegnante. «L’insegnamento è un compito sacro», sbrodola. «Voi siete il futuro». Loro, nonostante la segreta mancanza di rispetto, si sentono segretamente lusingati. Le daranno una possibilità.
Dal convegno amoroso nel corridoio del primo piano, David ha tagliato il filo che li legava. Neppure la rabbia fa più da punto di contatto. Il suo sguardo arretra da Sarah come un magnete che sfugga al proprio doppio; David ha perfezionato il trucco di esistere altrove perfino quando si trovano nella stessa stanza. Nel suo corpo abita un alieno, l’amnesia gli ha spazzolato il cervello. A ogni conferma che lui è scomparso, lei si sente più angosciata ed esposta, come se il suo momento di disperato abbandono fosse ancora in corso davanti agli occhi sgranati di tutta la classe. Le lezioni di Movimento si terranno nella Scatola Nera; loro arrivano mentre quelli di Quarta se ne stanno andando, e Sarah vede David fermarsi con Erin O’Leary. Erin è di Quarta, bionda e minuta, il viso privo di difetti e reso serio dalla consapevolezza della propria supremazia. Erin ha già un film all’attivo e la tessera del sindacato attori. Gira con una decappottabile sportiva d’epoca, celeste. È superiore da talmente tanti punti di vista che la cosa fa ridere; Erin sembra un improbabile personaggio di finzione. Il suo corpo minuto, con gli ideali fianchi minuti, i seni minuti e il piccolo culo compatto, pesca l’attenzione generale a strascico. I maschi, perfino quelli di Quarta, la temono: si dice che esca con veri attori affermati che conosce «sui set». Le femmine la odiano. Viaggia in un cilindro di aria rarefatta, indisturbata dal proprio isolamento sociale: è qui solo perché lasciare le superiori è da poveracci. L’anno prossimo andrà alla Juilliard.
«Cos’hai alla prossima ora?», le chiede David.
«Commedia della Restaurazione. Tu?»
«Movimento».
«Puah, io non lo sopportavo. Dovremmo farci una doccia».
«No, tu sei a posto», dice David, al che Erin ride, civettuola. È così perfettamente, adorabilmente bassa che la cima della sua lucida testa bionda gli sfiora appena il mento. Alza lo sguardo su di lui, beatamente sottomessa. Una che può fare quello che vuole. Anche uscire con uno di Seconda, se vuole. Consacrarlo.
Sarah imbocca a fatica la Scatola Nera, accecata dalla rivelazione. Guance, ascelle e inguine le formicolano di punture roventi, le familiari stimmate. Nel pugno del petto, le costole si spezzano come rametti secchi. «Benvenuti!», esulta la Rozot. «Benvenuti a Movimento». Subito gli fa lasciare le sedie, insieme a libri, giubbotti e borse, e li fa scendere fino alla grande piattaforma quadrata del palco. Sarah ha difficoltà ad abbandonare la sua pila di libri, cartellette, blocchi a spirale, la copia logora e indigeribile di Tropico del Cancro in cima al mucchio come una decorazione su una torta; si stringeva la pila al petto come uno scudo o una benda, e nel lasciarla prova un dolore fisico. Il petto le geme nel ritrovarsi scoperto. A stento riesce a stare diritta. David è in un qualche punto alle sue spalle, Sarah lo sente – la sta guardando? Quando lei non può girarsi a guardarlo a sua volta? Forse la stanno guardando tutti. Tutti sono al corrente del suo problema. Il giorno prima, nel tentativo di sfuggire alla sconcertante assenza di David, che ora invece comprende, si era arrampicata sulla graticcia e al posto della solitudine aveva trovato Pammie, con la faccia chiazzata e appiccicosa di lacrime. A sette metri d’altezza non avevano avuto altra opzione che parlarsi, queste due ragazze obbligate dal programma scolastico a un livello d’intimità ben più profondo di quello che hanno con il resto del mondo, e al tempo stesso anche due ragazze che non si sono mai scambiate una parola non indispensabile. «Lo ami, vero», aveva detto Pammie.
La Scatola Nera era proprio come diceva il nome, una sala a forma di scatola nera con un grande palco al centro rialzato quanto bastava da non richiedere scalini, una tribuna di posti da ciascuno dei quattro lati e corridoi intorno al palco e intorno alle tribune. Durante gli spettacoli una serie di drappi neri trasformava i corridoi dietro le tribune in quinte, in quattro nascondigli vellutati e talvolta anche clandestinamente utili, ma oggi i drappi sono arrotolati, la scatola è aperta fino alle pareti e al lontanissimo soffitto, intersecato dalle passerelle luci. Loro devono camminare, camminare, camminare – muoversi, muoversi, muoversi! – per tutto questo meraviglioso spazio; devono rendersi liberi di esplorarne ogni centimetro. No, le scale e le passerelle no. [Risate.] «Ah, come no, furbissimi! Potete esplorarne ogni centimetro terrestre. In letteratura esiste il concetto di scrittura automatica, in cui si scrive senza posare la penna. La penna deve muoversi senza sosta. Magari sta scrivendo: “Perché cazzo devo continuare a scrivere?”» [Altre risate, sconvolte e incantate, per la parolaccia. La parolaccia, venata com’è dall’accento della Rozot, è più incantevole che scioccante. Possibile che si stia guadagnando il loro rispetto?] «Ecco, questo moto ininterrotto, quello della penna, schiude i segreti. E se una penna può fare questo, quanto più potrà fare il corpo? Lasciatevi condurre dal vostro corpo. Unico ordine da dargli: non smettere mai di muoverti. A parte questo, comanda lui! Vi aiuterò con la musica».
Ah, no, impossibile rispettarla. È tutto troppo ridicolo. E la musica che mette! Cat Stevens. I Moody Blues. Satireggianti, allora, si mettono a camminare, camminare, camminare! – facendosi le boccacce, sventolando le braccia, molleggiandosi, accelerando scherzosi fino a marciare come robot. Ogni volta che s’incrociano, Norbert e Colin si fanno delle smorfie assurde. Poi, quando s’incrociano di nuovo, fanno tutti e due la faccia assurda e un balzo in aria, sempre senza perdere il passo. Questo comportamento si diffonde, si evolve: quasi tutti i maschi adorano i Monty Python, e durante la pausa pranzo mettono in imbarazzo le femmine con i loro scambi di battute – fedeli e penose repliche di sketch in cui loro, gli interpreti, si tagliano dal ridere. Nella Scatola Nera quindi i maschi fanno le «camminate strambe», e poi le cadute da pagliacci per far vedere che si tagliano dal ridere. Nel complesso, le femmine si fanno sempre più serie man mano che i maschi si fanno più ridicoli. Non camminano più, semmai sfilano, rasentano, fendono. La musica diventa roba classica senza parole. Le femmine cominciano a prendere velocità. Si aggiunge un altro livello: alta velocità senza colpirsi. Intessono un arazzo folle, con quei loro movimenti; qualcuno cambia direzione senza preavviso sperando nell’urto. Qualunque cosa facciano, anche la più sovversiva, da bordo palco la Rozot strilla:
«Bene!
«Muoversi! Muoversi! MUOVERSI!
«Uh – state costruendo qualcosa».
Infatti. Per qualche motivo, di colpo smettono di fare gli scemi. Ogni forma di movimento teatrale – le «camminate strambe» e le cadute fragorose, ma anche i dondolamenti di braccia («Spensieratezza totale!») e i cambi intenzionali di direzione («Faccio come mi pare!») – pian piano si placa. Al suo posto è emersa un’inattesa collettività: e, cosa forse ancor più importante, si è abbandonato l’imbarazzo. Senza rendersene conto, non lo provano più. La velocità si è uniformata al punto che tutti viaggiano più o meno allo stesso ritmo. I percorsi tortuosi, i raccordi a quadrifoglio, i tornanti e le curve ampie sembrano intessere una sorta di trama prestabilita, come se tutti avessero imparato questo ballo di calendimaggio da bambini accanto ai genitori, come se li legasse a qualcosa, e facesse di loro qualcosa.
Sarah ha il volto inondato di lacrime. Al punto in cui dovrebbe svoltare a destra o a sinistra va diritta e si precipita fuori dalla Scatola Nera imboccando il corridoio, di corsa, la velocità a strapparle le lacrime dalla faccia.
Nella quinta di destra, dietro il camerino delle femmine, c’è una solitaria toilette che nessuno usa mai, se non durante gli spettacoli. Sarah ci si chiude dentro e soccombe, piegata in due e percorsa da spasmi violenti come se stesse per vomitare nella tazza. La mente la sorprende con il desiderio di essere morta. Morta, anziché in preda al dolore. Col suicidio, capisce in quel momento, non ci si chiama fuori dal futuro, ci si chiama fuori dal presente: perché chi ce la fa, a vedere più futuro di così? Il riferimento al futuro, alla sua ininterrotta potenzialità, è un riflesso di quelli che ancora lo vedono, il miraggio del futuro. La gente così è fortunata, illusa.
Come evocata dai suoi pensieri, la Rozot entra nel camerino e insiste per parlare del futuro. Sarah non capisce proprio, se non tramite l’autolesionistica stregoneria della sua stessa mente, come abbia fatto l’irritante hippy francese a scovarla in questo bagno. La Rozot è nuova della scuola; e l’esistenza del bagno dietro il camerino è nota a meno della metà degli allievi e docenti esperti della scuola. Davanti alla porta del gabinetto la Rozot chiama: «Sa-ràh? Sa-ràh?», mettendoci in fondo un accento che non c’è. «Sarah, sei lì dentro? Ti senti male?»
«Mi lasci in pace, per piacere», singhiozza lei, rabbiosa. Ma perché cazzo dev’essere così difficile, trovare un po’ di solitudine? Se solo avesse una macchina, pensa per la miliardesima volta. Chiuderebbe tutte le portiere e via.
«Sarah, voglio dirti una cosa. Penso che ti aiuterà. Voi giovani provate il dolore più intensamente di noi che siamo un pochino più vecchi. Parlo del dolore emotivo. La vostra sofferenza è maggiore, per forza e durata. È più difficile da sopportare. Questa non è una metafora. È un dato, fisiologico. Psicologico. La vostra sensibilità emotiva... è superiore a quella dei vostri genitori, dei vostri insegnanti. Ecco perché questo momento della vita, quando avete quindici anni, sedici, diciassette, è così difficile, ma anche così importante. Ed ecco perché è essenziale coltivare il vostro talento a quest’età. Questa accresciuta sofferenza emotiva è un dono. Un dono complicato».
Suo malgrado, Sarah ascolta. «Sta dicendo», riesce a rispondere dopo un po’, «che in futuro, quando sarò più grande, le cose non faranno più così male?»
«Sì, esatto. Ma sto anche dicendo un’altra cosa. Non voltare le spalle al dolore. Quando sarai più grande, sì, sarai più resistente. Il che è un bene e un male».
La professoressa Rozot non insiste per farle aprire la porta, e questo fatto in sé apre Sarah. Entrambe indugiano, Sarah non sa per quanto, dai lati opposti della porta. «Grazie», sussurra infine lei.
«Fai con calma», dice la Rozot, e se ne va.
È risultato ovvio fin dall’inizio, chi è fatto per Broadway e chi no. Quelli che davvero sanno cantare, che possono far sfoggio dell’old razzle-dazzle, che vivono per quella one singular sensation, in gran parte hanno attirato l’attenzione su di sé dal primo giorno di scuola. Nei giorni di pioggia, durante la pausa pranzo, si radunano intorno al piano della Scatola Nera e cantano brani tratti da The Fantasticks. Vengono a scuola con la felpa di Cats che si sono comprati in vacanza a New York. Alcuni, come quello di Terza di nome Chad, sono musicisti invidiabilmente capaci che sanno non solo cantare ma anche suonare le canzoni di Sondheim, per davvero, leggendo lo spartito. Alcune, come Erin O’Leary, non si limitano a cantare ma ballano come Ginger Rogers, avendo evidentemente mosso i primi passi già con le scarpe da tip-tap ai piedi.
Una volta per Sarah l’incapacità di essere Erin O’Leary era un punto d’orgoglio, per quanto traballante. Adesso ce l’ha a morte con i suoi capelli crespi e pesanti, proprio il contrario dei fili setosi di Erin, con i suoi fianchi larghi, il contrario di quelli stretti di Erin, con i suoi piedoni goffi nelle ballerine sporche e bistrattate, il contrario dei piedini di Erin che tracciano sforbiciate fulminee. Sarah ce l’ha a morte con lo stridio vacillante della sua voce, il contrario della «gola da usignolo» di Erin. Storicamente, gli allievi di Teatro come Sarah (e David) che non sapevano cantare né ballare si consolavano con Uta Hagen, Beckett e Shakespeare, rammentando a sé stessi che erano seri Artisti Teatrali e che Broadway è solo una gran pacchianata. Naturalmente si tenevano questa consapevolezza per sé, per rispetto nei confronti del professor Kingsley e genuina soggezione del suo talento musicale. La loro condiscendenza non li turbava minimamente, o almeno era così per Sarah. Ma adesso che si ricomincia con i provini per il saggio tutti sono costretti a ricordarsi, e taluni più dolorosamente che altri, di quanto li esaltano i grandi musical. David adora Jesus Christ Superstar, sa tutte le parole, canta stonato sul disco quando è solo. Sarah ha la stessa relazione segreta con Evita. Sono attori seri; ma quanto sarebbe meglio se sapessero anche cantare, se fossero in grado di stupire e commuovere i compagni in quei giorni di pioggia intorno al pianoforte? Se il professor Kingsley li supplicasse, potrebbero abbassarsi a interpretare Cristo, o Evita – per il bene dello spettacolo, essendo i più adatti al ruolo, no?
Questo segreto talento, però, non gli appartiene. Rammentano a sé stessi – ma non conversando, perché David e Sarah non si parlano, né hanno idea di dove sia seduto l’altro, a tante file di distanza da essere ridotto a una testa scura china su un libro, remoto, indifferente, odioso e del tutto trascurato (anzi, neppure notato) – quant’è melenso Bulli e pupe, quanto sono contenti di poter saltare questi provini, quanto più appassionante stanno trovando Finale di partita (David) o la prima scena di Re Lear, oltre la quale ancora non è riuscita a spingersi (Sarah). Non condividono queste analoghe sensazioni, non avendo l’analogia per loro alcun significato. Ma ovviamente ai provini assistono, con il cuore in gola, sentendosi quasi male a forza di sperare per gli altri.
Di fatto, pensa amaramente Sarah, assistono all’incoronazione di Erin O’Leary. Erin che naturalmente farà Adelaide. A conferma di questo canta «Adelaide’s Lament», con il maestro Bartoli – l’accompagnatore dei corsi di danza che funge anche da direttore musicale del saggio – che praticamente saltella sullo sgabello mentre suona, tanto è il piacere di suonare per lei. Molti, moltissimi ragazzi, tra cui diversi che, come David, non sanno cantare, ma che, diversamente da David, se ne fregano, si cimentano nel primo brano del musical, compensando la voce mediocre con un sacco di smorfie e gesti buffi. Alcuni verranno presi, dato che gli scommettitori non devono essere melodiosi e devono invece essere divertenti. David arrossisce, conscio della propria vigliaccheria, della fraudolenza del fascino che esercita su Erin. Ben presto anche lei come Sarah lo troverà repellente, a meno che lui riesca a rendersene degno. Guardando senza vedere la pagina di Finale di partita, giura a sé stesso che l’anno prossimo farà il provino per il musical. Nella loro sezione i provini si tengono continuamente – per gli spettacoli-showcase che servono ogni anno ai fini della valutazione; per i Saggi di Regia della Quarta; per lo Shakespeare all’Aperto ogni mese di maggio; per il Saggio Primaverile (Prosa) e, come adesso, il Saggio Autunnale (Musical) – e ogni tornata di provini tende a confermare una sua gerarchia, di volta in volta leggermente diversa: la pura gerarchia sociale degli allievi di Seconda, in cui sia Sarah sia David occupano posti di rilievo; la gerarchia degli Attori Seri, che David ha cominciato a scalare; la gerarchia degli Adulti-in-Formazione, gli eterni Direttori di Scena, di cui il professor Browne riesce sempre a snidare le capacità anche quando loro cercano di nasconderle (Sarah teme che questo sia il suo destino). Ma solo i provini autunnali per il musical svelano un ordine gerarchico applicabile a tutta la scuola, perché solo al musical autunnale partecipa tutta la scuola. I ballerini si assoggettano di buon grado a ruoli di fila. Gli allievi di strumento tengono i loro provini per l’orchestra del saggio. Fra gli allievi di Teatro si sente ripetere spesso che lo spettacolo di prosa e il musical hanno pari dignità, ma tutti sanno che è una cazzata: un ruolo da protagonista nel saggio di prosa vale meno di un ruolo secondario nel musical e nessuno di loro, neppure quelli che sono entrati nella scuola animati da un odio viscerale per i musical, mette in dubbio questa classifica. Nessuno si chiede come andrebbero le cose se, per dire, a dirigere il corso di Teatro fosse una persona diversa dal professor Kingsley. Brillante com’è, le sue gerarchie devono per forza essere oggettive; e l’anno scorso, quando per lei non essere Erin O’Leary era ancora un punto d’orgoglio, Sarah aveva addirittura chiesto alla madre lezioni private di danza classica, danza moderna e tip-tap, per avere risultati migliori a scuola. «Stai scherzando?», aveva risposto sua madre. «Non è la roba che già fai tutto il giorno, anziché prepararti per l’università?»
Man mano che i provini vanno avanti, Sarah mette via Re Lear e lei, Pammie, Ellery e Joelle, tutti addetti ai costumi, giocano a indovinare la composizione del cast. I ruoli femminili sono scontati; impossibile sbagliarsi. Tra i maschili, più numerosi, ogni tanto spunta qualche outsider, e il divertimento sta nell’azzeccare quelli. Norbert farà il provino, ed Ellery affonda nella poltroncina aggrappandosi a Sarah e Joelle sedute accanto a lui: «Ragazze», mormora, «datemi la forza».
«Tu perché non ci provi?», gli chiede Sarah.
«Solo perché sono nero e bellissimo, non vuol dire che so anche cantare».
L’anno scorso, in Prima, avevano studiato canto a prima vista, ed erano stati costretti a gorgheggiare accanto al piano un’intera pagina di spartito scelta senza tenere minimamente conto delle loro estensioni vocali, se pure ce le avevano. Non era stata una grande occasione di mostrare abilità nel canto, ma neanche nella lettura a prima vista, e qualcuno, come spesso accadeva, aveva fatto schifo, mentre qualcun altro aveva inaspettatamente trionfato. Taniqua e Pammie, entrambe veterane coriste di chiesa, avevano stupito per alfabetismo musicale e competenza della voce. All’altro capo dello spettro Manuel, chiamato al piano, era rimasto paralizzato, con lo spartito che sbatacchiava nel vento delle mani tremanti. La carnagione, sempre di un bruno impolverato, si era fatta del rosso ipnotico di un tizzone nel camino; e proprio quando sembrava che stesse per svenire, aveva lentamente aperto bocca – ed era rimasto così, muto, come il pupazzo abbandonato di un ventriloquo. Fra gli astanti era passato un refolo di riso incipiente. «Zitti», aveva detto il professor Kingsley, suonando la prima nota del brano che aveva dato da cantare a Manuel. Tutti erano stati obbligati a guardare il tremore di Manuel durare più della lunga vibrazione della nota. «Di nuovo», aveva detto Kingsley, battendo sul tasto e rinfrescando la nota nelle orecchie di tutti. Poteva un impietrimento totale farsi ancor più totale, ancor più impietrito? Evidentemente, sì. E Manuel doveva restare lì a incarnare il significato della locuzione «di sasso» o finché Kingsley avesse avuto pietà di lui, o finché la campanella avesse segnato il termine della lezione. «Ne riparliamo», aveva detto Kingsley alla fine, congedando Manuel con tono sorprendentemente iroso. Di norma l’ira del professor Kingsley era riservata ai suoi cocchi, che la sfoggiavano come una medaglia; non si prendeva la briga di arrabbiarsi con gente da cui non si aspettava niente.
Adesso, mentre lo stesso Kingsley gridava: «Il prossimo!» ai provinanti che attendevano nascosti fra le quinte, Ellery tornò a stringere il gomito di Sarah in una morsa. «Sogno o son desto?», gracchiò.
Sul palco era salito Manuel, un’apparizione. O forse non era Manuel. Di certo non era vestito come Manuel, con la solita T-shirt a righe leggermente troppo piccola e leggermente troppo infantile che, solo a guardarla, si capiva essere stata scelta nello scaffale dei saldi di Sears, oppure in un negozio di usato per beneficenza, dall’ignota madre di Manuel, dopo essere stata scartata da chi l’aveva comprata da Sears. Le magliette che Manuel indossava ogni giorno erano crivellate di pallini e antiche macchie scolorite, di quelle che resistono a ogni sforzo, e gli andavano strette sulle braccia e sul collo. Quanto al sotto, Manuel portava calzoni di velluto a coste senza quasi più coste; e con qualsiasi tempo non si toglieva mai il giaccone, lo stesso giaccone di velluto con la fodera in montone sintetico che gli avevano visto indosso il primo giorno e che ormai sembrava a tutti permanente come il guscio consunto di una tartaruga. Il Manuel in scena era privo della tenuta tradizionale, ma non certo vestito meglio: indossava pantaloni neri lustri di vecchiaia e una camicia bianco-grigiastra che, malgrado fosse corta di maniche, aveva i polsini ben abbottonati, a sottolineare l’angolosità dei polsi. I piedi erano incastonati in un paio di scarpe rigide di cuoio nero che sembravano troppo piccole, e il consueto zazzerone castano era pettinato all’indietro a mostrare due occhioni spaventati, e mai visti prima, sotto una fronte aggrottata e altrettanto ignota. Quel Manuel apparso dal nulla, con un fascio di fogli stretto fra le mani, sembrava un cameriere, un cameriere infelice e malvestito, e Sarah si rese conto con stupore che, per quanto poteva, aveva cercato di vestirsi in maniera consona alla parte. Certo, Bulli e pupe richiedeva una mise maschile un po’ datata: scarpe di cuoio, pantaloni con la piega, camicia. Nessun altro ragazzo aveva minimamente alterato la propria tenuta abituale in vista del provino: lo avevano fatto tutti con i soliti Levi’s, e polo, e T-shirt con le scritte sceme.
Sì, era possibile che fosse un sogno. Come il giorno della prova di canto a prima vista, sulla sala passò un risolino, domato all’istante quando il professor Kingsley si alzò dal proprio posto al centro della terza fila. «Bene, Manuel. Cosa ci fai sentire?»
Ellery stringe la mano a Sarah, e lei gli restituisce la stretta. Dall’altro lato Ellery tiene per mano Joelle. Dall’altro lato di Sarah c’è Pammie. Joelle e Pammie hanno serrato gli occhi e si artigliano una guancia; Pammie sta talmente male che si appallottola sulla poltrona come un riccio. Sia lei, sia Joelle, per diversi ma equivalenti motivi femminili, provano per Manuel una compassione materna, benché nessuna delle due sia riuscita a farci amicizia. Lui non ne offre il minimo appiglio, non rivolgendo la parola a nessuno – neppure Pammie, con la sua infantile spavalderia da oratorio parrocchiale, riesce a ottenere risposta al proprio allegro «Ciao!» Adesso Sarah la sente borbottare con fervore: è possibile, anzi è probabile, che stia pregando.
«Cosa ci fai sentire?», ripete il professor Kingsley.
Manuel si rifà dell’ipnotico colore di un tizzo ardente. Alla fine dice, quasi impercettibile: «Canterò l’Ave Maria di [un gruppo di sillabe che Sarah non riesce a sentire]». È come se avesse dei fili attaccati ai gomiti, a tirarlo simultaneamente da entrambi i lati, tanto che, in quello stato di tensione immobile, potrebbe andare in pezzi. Poi il filo alla sinistra del palco si spezza e Manuel scatta verso il maestro Bartoli, porgendogli lo spartito. Bartoli lo sfoglia, annuisce. «Vado?», chiede.
Manuel si torce le mani con l’aria di una nonnina in ambasce, poi le abbassa di colpo. Il professor Kingsley, ancora in piedi, di spalle al resto della sala, dice: «Manny, so che puoi farcela».
Lo dice come se lui e Manuel fossero completamente soli. Eppure in sala non c’è nessuno che non lo senta, fino all’ultima fila.
Il silenzio può cambiare caratteristiche. Quel silenzio che era stato imposto, il silenzio dell’ilarità soffocata, adesso è il silenzio dell’autentico sconcerto. Kingsley non usa nomignoli o vezzeggiativi, mai. A indicare un cambio di atteggiamento dà talvolta agli allievi, anziché del tu, del lei seguito dal cognome. Ciò denota perplessità, disapprovazione e vari altri stadi intermedi, ma in ogni caso implica sempre una distanza. «Manny» non rispetta questa distanza. «Manny» non rispetta nemmeno il fatto che in sala ci sarà minimo una quarantina di persone.
Il professor Kingsley torna a sedersi. Per loro la sua nuca, con quei pochi tratti, il costoso taglio di capelli e le estremità delle stanghette degli occhiali agganciate dietro le orecchie, è espressiva quasi quanto il viso – irradia una perentoria certezza. «Forza. Lo sapete cosa voglio. Fatemelo vedere». Se la nuca può dire così, figuriamoci la faccia. (La professoressa Rozot: «Se una penna può fare questo, quanto più potrà fare il corpo?») Intanto Manuel – Manny? – sembra immerso in una conversazione muta con la faccia nascosta del professor Kingsley. La scruta, ne ricava qualcosa – aveva un’aria diversa quando ha fatto ingresso sul palco, e adesso ha un’aria ancora diversa. Con quella che si potrebbe quasi definire padronanza di sé fa un cenno al maestro Bartoli, il quale alza le mani e poi le rituffa all’ingiù. Manuel inspira forte.
Fino a questo momento della sua vita, per Sarah l’opera significa Bugs Bunny con le trecce da valchiria, la prima serata sulla PBS, uomini sovrappeso in tunica, donne strepitanti e vetri rotti. Non ha mai capito, senz’altro perché non ha mai visto un’opera lirica dal vivo ma anche perché non ha mai ascoltato un’esecuzione appena passabile, neanche uno spezzone alla tv, che l’opera è, di fatto, la massima forma di catarsi del desiderio. Che è proprio l’angoscia che prova lei, redenta dalla musica. Il canto di battaglia dell’esercito vittorioso, in difesa del suo cuore muto e calpestato.
Adesso capisce perché la Rozot l’aveva avvisata di non voltare le spalle al dolore.
Manuel canta. L’accento spagnolo, che si trascina dietro come un macigno nei propri incerti viaggi tra le parole dell’inglese, adesso è una garanzia. Chi altri fra loro potrebbe cantare questa cosa, se anche avesse il dono di questa voce? Chi altri fra loro ha il dono di questa voce? Manuel canta, si direbbe, per orizzonti al di là della cabina luci. Gli occhi sono levati al cielo, ansiosi, come se sapesse di trattenere a stento la volubile attenzione di Dio. Al suo lontanissimo pubblico si rivolge in tono così struggente che Sarah si volta un attimo indietro, aspettandosi di vedere schiere di angeli con i piedi sospesi a mezza spanna da terra. Invece vede le facce dei suoi compagni rapiti nell’incoscienza di sé, in una gioiosa tregua dai drammi del sé. Lei pure è uscita da sé, così totalmente e felicemente che per un attimo perfino il volto di David le appare estraneo, e non solo perché lui ha gli occhi pieni di lacrime.
Sarah si rigira di colpo, neanche avesse preso uno schiaffo, mentre Manuel, come una fontana, lancia in aria le braccia e il loro splendente fardello, la sua ultima nota. Come avesse atteso quel gesto, la sala esplode: applausi, fischi, rullare di piedi, Ellery che balza in piedi per urlare: «Hombre!» Sul palco Manuel, grondante di sudore, sorride torcendosi le mani. Questo sogno l’abbiamo fatto tutti, pensa Sarah. Il sogno in cui, con grande sorpresa del mondo e nostra, si svela che siamo i migliori.
Il maestro Bartoli spinge elegantemente indietro lo sgabello del piano, raggiunge Manuel, gli dà una pacca sulla spalla e gli stringe calorosamente la mano. I ragazzi sono solo una quarantina ma fanno il chiasso di un teatro pieno. Continuano ad applaudire, in piedi, sicché a parte qualcuno nelle file più vicine a lui, nessuno nota il professor Kingsley quando, dopo essersi spinto gli occhiali in cima alla testa, si passa bruscamente una manica sulla fronte e sugli occhi. Poi: «Qualcuno si appunti la data!», grida a tutti quanti. «Del debutto di Manuel Ávila!»
Durante la pausa pranzo, nel parcheggio, Sarah siede ingobbita sul cofano della Mazda con Joelle, Sarah a scarabocchiare ogni tanto qualcosa su un blocco, tutt’e due a fumare kretek, Sarah che ignora il panino preparato dalla madre. Sua madre le prepara ogni mattina, anche quando non si parlano, come adesso, un panino con affettato fresco, formaggio a fette, senape francese e una fettina di pomodoro e lattuga chiusi dentro un qualche tipo di pane artigianale con semi di papavero o di sesamo. «Il tuo panino sembra fatto da uno chef!», ha esclamato una volta Joelle piena di meraviglia, e da allora Sarah lo lascia incartato e quando tornano dentro, al termine della pausa, lo butta nella spazzatura. Lo fa guardando da un’altra parte, come se non essersi vista farlo equivalesse a non averlo fatto. Dall’altro lato del parcheggio arriva la decappottabile celeste d’epoca, forse con qualche incarto del drive-in di Del Taco gettato con noncuranza sul fondo dell’abitacolo, forse con David, ridicolo con i Ray-Ban sugli occhi, in trono sul sedile del passeggero, ma se Sarah non l’ha effettivamente visto, potrebbe voler dire che non è così. Nessuno può dimostrare che è così. Gli occhi di Sarah sono come gli abbaglianti di una macchina: vedono solo quello che hanno di fronte. È una fatica infinita, questa sorveglianza della vista e del pensiero.
«Hai l’aria esausta», dice il professor Kingsley dopo aver chiuso la porta dell’ufficio con un clic che si propaga lungo tutto il corridoio. Il biglietto d’ingresso. La porta si è chiusa su facce che simulavano profondo interesse per la bacheca, come se qualcuno dovesse ricorrere ad altro che alla propria memoria per sciorinare l’intero elenco del cast, che è stato appeso la settimana scorsa (Cielo Masterson: Manuel Ávila). I compagni gironzolano appena fuori nella speranza di ottenere quel che Sarah ha appena ricevuto: la convocazione particolare. In bocca le si mescolano stranamente il gusto dell’orgoglio e dell’umiliazione, o forse è il caffè acre e rancido sul quale ha abbassato il viso. Gliel’ha porto Kingsley, in un bicchiere di polistirolo, fatto con la sua caffettiera personale. Orgoglio per essere stata scelta, umiliazione per quelle che presume siano le basi della sua scelta. Tutti conoscono gli allievi che ogni tanto si porta via, durante la pausa pranzo, a bordo della Mercedes verde oliva; quelli che gli basta un’occhiata per trattenere, mentre il resto della classe esce pian piano dall’aula; alle spalle dei quali chiude la porta dell’ufficio. Sono gli allievi Problematici, quelli al limite, delle cui sofferenze si mormora avidamente in tutti i corridoi. Jennifer, che non è venuta a scuola per un mese e adesso porta solo maniche che scendono ben oltre i polsi; Greg, studente di Quarta dalla bellezza incandescente, del quale Julietta e Pammie sono follemente innamorate, e che malgrado gli abiti impeccabili, il sorriso smagliante e la gentilezza d’animo è stato buttato fuori di casa dal padre e adesso abita all’ostello della YMCA; Manuel, la cui desolata povertà è ora divenuta accettabile perché appaiata col talento; e Sarah, della quale si dice... cosa?
Che è talmente innamorata di David da lasciarsi scopare in corridoio! E adesso lui l’ha mollata.
«Dormo poco», ammette lei.
«Perché?»
«Lavoro. In una panetteria francese. I fine settimana devo esserci alle sei del mattino. Ogni sabato e domenica».
«A che ora vai a dormire, quando devi lavorare?»
«Verso le due».
«A che ora ti alzi durante la settimana?»
«Uguale. Intorno alle sei».
«E quando vai a letto? Nei giorni feriali».
«Uguale. L’una, le due».
«Tu ti ammazzi», commenta lui, e lei pensa che stia predicendo un evento futuro, il suo effettivo suicidio, poi si rende conto che era una metafora, o una probabile metafora, sugli effetti di lungo periodo del debito di sonno.
«Sono veramente stanca», concorda lei, e di punto in bianco ecco che riattacca a piangere. Le sussultano le spalle, e per quanto ci provi non riesce a impedirsi di tirare su grumi di suoni umidi e slabbrati. Sa bene che Kingsley lo mette in conto, eppure sa altrettanto bene che mette in conto, talvolta, maggiori doti di sopportazione. Kingsley non è la Rozot. Jennifer la suicida fallita, Greg l’orfano forzato, il derelitto Manuel e lei, Sarah – tutti sono stati derubati di un’infanzia spensierata ed è perciò che sono stati scelti, a riconoscimento della loro precoce maturità. Tutti i giovanissimi bramano quell’affascinante conoscenza. La sua oscurità. La sua durezza. La sua realtà. Il freddo dato di fatto che la vita è veramente una merda. E Sarah, con le sue T-shirt di Morrissey, le Camel senza filtro, il sonno arretrato e la caparbia acquiescenza ai propri appetiti sessuali, quest’orrendo spossessamento se l’è cercato, l’ha ostinatamente perseguito, e adesso che l’ha ottenuto vorrebbe tornare indietro. Se solo potesse tornare indietro, e mangiare il panino che le ha preparato la mamma, con il suo premuroso pomodoro.
Piange, come lui aveva messo in conto, e alla fine domina le lacrime, come lui pure aveva messo in conto. Si pulisce la faccia, si soffia il naso con uno dei suoi fazzoletti di carta e poi lo butta nel cestino. Addirittura prende la pochette del trucco e se lo rifà con calma; quando chiude di scatto il portacipria sente che Kingsley approva come se l’avesse detto a voce alta. E infatti: «Allora», fa lui compiaciuto. «Perché adesso non mi racconti cosa succede davvero».
Lei glielo racconta. Non tutto lo stesso giorno; il tempo è già scaduto. Ma ormai è un’habitué. I loro incontri sono del tutto evidenti, e passano del tutto sotto silenzio, come qualunque legame esclusivo agli occhi di chi ne viene reso complice, ma escluso. David vede, e digrigna i molari di giorno e di notte al punto che il dentista ha minacciato di fargli un bite da portare quando dorme. David, che il cielo lo aiuti, non sente affatto di aver scartato Sarah, bensì di essere stato scartato. Cioè, c’è questa ragazza che, al contrario di tutte le altre con cui è stato, non appena messa a parte del suo amore, non lo prende per mano e se lo porta al centro commerciale o al cinema o in mezzo al branco starnazzante delle sue amiche, ma anzi, appena lo vede si spaventa come un cavallo. Si ammanta d’aria fredda e poi lo sfida a provare a prenderla, e lui come fa? È possibile che tutta la loro storia sia stata un malinteso? David lo sapeva che lei era andata a letto con dei tizi più grandi di lui, in qualche caso molto più grandi. Vedendola così imbarazzata, il primo giorno che sono tornati a scuola, si era sentito un caso umano. Lei lo aveva autorizzato, ma lui non doveva lasciarlo trapelare. E poi la cosa del corridoio, bizzarra riprova: lei va a cercarlo quando nessuno la vede.
Oppure, dice Sarah al professor Kingsley, che tutta la loro rottura sia stata un malinteso? Non è possibile, lo implora Sarah, che David la ami ancora? Come ha potuto dire prima di sì, e poi di no?
«Tu lo ami?»
«Sì». Poi, intimidita da quella certezza: «Cioè, forse. Credo».
«Gli hai detto come ti senti?»
«E come facevo?»
La recitazione è: fedeltà a un’emozione autentica in circostanze immaginarie. La fedeltà a un’emozione autentica è: rivendicare i propri sentimenti. Non è quella la cosa, l’unica cosa, che lui ha cercato di insegnare a tutti? Lì per lì Sarah pensa che Kingsley abbia latrato di rabbia, poi si rende conto che sta ridendo. Forse ride di lei, ma almeno non è arrabbiato. «Dio», dice, e perfino nel privato del suo ufficio quella risata è una risata di scena, un fuoco d’artiglieria. «Grazie. Ogni tanto me lo dimentico: è un processo. E la sai una cosa, non finisce mai. È questo il bello».
Lei non capisce di cosa stia parlando, ma una volta che si è ripulita di nuovo con i fazzolettini della scatola, riprende un’aria matura e spossata. «Infatti», concorda.
«E tua madre?»
«Mia madre cosa?»
«Come va tra voi?»
«Non lo so. Non troppo male. Non troppo bene. Anche quando non litighiamo non parliamo molto».
«Ti accompagna al lavoro, il sabato e la domenica. In macchina parlerete».
«In realtà no. È troppo presto. Saliamo in macchina e andiamo, fine».
«Secondo me il lavoro alla panetteria è troppo. Nel fine settimana dovresti dormire. Andare a divertirti».
«Quel lavoro mi serve», fa lei, sbrigativa, perché Kingsley non sarà certo più solidale di sua madre con il suo implacabile inseguimento di un’auto. Non si rende conto che il suo tono potrebbe denotare il brusco orgoglio dei poverissimi, specie se accostato al suo cencioso guardaroba punk. Sì, è risentita per la mancanza di una decappottabile celeste nella sua vita, ma sa di non essere povera. Certo, neanche ricca, nell’appartamentino di due camere dietro la croce fatta col gesso e la Toyota di lungo corso di sua madre. Ma povera no.
Lui tace per un attimo, pensieroso. «Tu e David venite da mondi molto diversi».
«In che senso?»
«Lui viene da un ambiente privilegiato».
Lei non si chiede come faccia a saperlo, o se l’abbia indovinato. «Più di me, direi».
«Lui non lavora».
«No. Non ne ha bisogno. Sua madre e Philip la macchina gliela comprano, quando compie sedici anni».
«Chi è Philip?»
«Il suo patrigno».
«Ah. È una cosa recente?»
«Tanto recente non può essere, sua mamma e Philip hanno un bimbo di due anni».
«Quindi adesso David è il fratello grande», dice il professor Kingsley sorridendo.
Sorride anche lei, a sentirlo descrivere così. «Lo era già. È il primo figlio del primo matrimonio di sua madre. Poi lei ha lasciato suo padre per Philip, secondo David perché Philip ha i soldi. Il vero padre di David non ne ha mai avuti. David dice che i suoi, la madre e il vero padre, hanno dato fuoco alla casa per prendere i soldi dell’assicurazione. Quindi in quel senso, a ben guardare, non viene poi da un ambiente così privilegiato», conclude, travolta da quel torrente di rivelazioni.
Ma il professor Kingsley non la giudica per quel bisogno disperato di parlare di David. Non la giudica per la sua incertezza sfiatata, adesso che ha finito. Si sporge, su un angolo della scrivania, e le prende una mano. «Vi siete conosciuti bene», osserva. Lei annuisce, muta, la disinvoltura è tornata dalla lingua agli occhi.
Quella sera quando Joelle la lascia a casa, alle dieci passate, sua madre è seduta in vestaglia al tavolo di cucina. Di solito a quest’ora sta dietro la porta chiusa della propria camera. I capelli castani, striati di crespe ciocche bianche, sono sciolti sulle spalle. Ai piedi ha un paio di calzini da ginnastica da uomo. «Mi ha chiamato il tuo insegnante», dice.
«Quale?»
«Il professor Kingsley».
«Kingsley ha telefonato qui? Perché?» Un gruppo di animali terrorizzati – un quartetto di quaglie? Una truppa di topi? – le esplode in volo nella gabbia toracica.
«Non ho idea del perché. So quello che mi ha detto. Chiamava per sapere del tuo lavoro alla panetteria. Mi ha chiesto se potevo concederti di lasciarlo, per la tua salute e il tuo benessere. Sembrava convinto che ti obbligo a farlo e incamero tutto quello che guadagni».
«Non gli ho mai detto niente del genere!»
«Be’, io gli ho detto che non ho il minimo controllo su come trascorri il tuo tempo, né alla panetteria né altrove. Però mi piacerebbe sapere perché si è sentito in dovere di chiamarmi per parlarne».
«Non lo so, mamma».
«Personalmente sarei felicissima se lasciassi quel lavoro, così potrei smettere di accompagnartici alle cinque e mezza di mattina tutti i sabati e le domeniche, ma tu sei così decisa a comprarti una macchina, sei così convinta che non avere una macchina tua all’età di quindici anni sia una privazione insopportabile, che sei addirittura riuscita a convincere me che non accompagnarti al lavoro sarebbe un maltrattamento. E adesso il tuo insegnante, quello che ti tiene a scuola dodici ore al giorno a pitturare pezzi di tela e ad appiccicare fiori sopra a dei cappelli, insomma questo mi chiama insinuando che ti maltratto obbligandoti a lavorare, come se ti costringessi a guadagnarti il pane? Ma come si permette? Chi cavolo si crede di essere?»
«Non lo so, mamma. Io non gli ho mai detto niente del genere».
«Si dà il caso sia d’accordo con lui, sul fatto che dovresti lasciare quel lavoro, ma questo non significa che abbia chiesto la sua opinione. La tua vita fuori da scuola non sono affaracci suoi. Tu lo sai questo, vero?»
«Sì», dice Sarah, avviandosi adagio verso camera sua, e già l’impatto della telefonata sta cambiando forma. Lì per lì lo aveva preso come un tradimento, una violazione della loro speciale alleanza. Adesso capisce che lui ha messo in scena una sfida all’autorità di sua madre. Si è intromesso tanto per intromettersi. Quant’è fiera di suscitarne l’attenzione.
La sala prove, con la lunga parete a specchi e il glaciale pavimento di linoleum. Quante cose sono successe qui, in questa scatola refrigerata di luci al neon, dove i loro gemelli li guardano dalla sala riflessa nello specchio. La sala nello specchio è illuminata e fredda proprio come questa, con la stessa aria provvisoria, le sedie in plastica e metallo cromato, i tappetini di gommapiuma e finta pelle, il piano e lo sgabello, spinti in disparte, sgomberati per i loro corpi. Qui dentro hanno strisciato in un’oscurità implacabile, incontrandosi e tastandosi. Si sono sdraiati di schiena a fare i cadaveri. Si sono cullati, sono caduti gli uni tra le braccia allacciate degli altri, hanno formato la ruota e a turno si sono fatti guardare dal mozzo e consegnare un verdetto (Norbert a Pammie: «Sei la ragazza più simpatica del corso, e se fossi più magra saresti abbastanza carina»; Chantal a David: «Non scopo coi ragazzi bianchi, ma se dovessi scoparmi un bianco mi scoperei te»). Adesso, entrando in sala, gli viene ordinato di sistemarla come un teatro. Tre o quattro file di sedie rivolte in questa direzione. Davanti, due sedie una di fronte all’altra. Come sempre, il professor Kingsley resterà in piedi. «Corridoi di lato, per favore», dice, e loro si affrettano a compattare le file per fare spazio tra le estremità e le pareti. Prendono posto, raggruppandosi al solito modo: le ragazze nere, i ragazzi bianchi, il resto a completamento secondo vaghe e mutevoli regole di attrazione/repulsione. Le due sedie «di scena» restano vuote. Sarah, che arriva in ritardo dal bagno, occupa la sedia disponibile in fondo accanto a Manuel, per il solo motivo che è disponibile. Manuel indossa una bella camicia; ultimamente pare che si vesta meglio, anche se quest’impressione non viene formulata consciamente, fa parte del paesaggio. Sarà la memoria a rivelarla.
«Sarah, per favore mettiti su una di quelle due sedie, scegli tu».
Lei è talmente stupita di essere stata selezionata che per un attimo non si alza, benché lo sguardo guizzi verso il professor Kingsley, interrogativo. Nel suo, nessuna risposta. Lui sta superbamente appollaiato sulla torre merlata, a condurre un movimento di truppe in miniatura. Nell’alzarsi Sarah coglie lo scatto di Manuel che sposta lo zaino come se potesse intralciarla.
L’anno prima le avevano estratto i denti del giudizio. Erano spuntati insolitamente presto, aveva detto il dentista, ed erano insolitamente grossi, tanto che avrebbero di certo provocato storture che in seguito sarebbero state più difficili da correggere; su giudizio prematuro e ipertrofico e storture irreparabili c’era senz’altro una battuta da fare, ma lei non era riuscita a elaborarla in modo soddisfacente prima che i denti venissero sostituiti da tamponi di garza zuppi di sangue. Per eseguire l’intervento l’avevano imbottita di farmaci, con sua madre seduta in sala d’aspetto a leggere il giornale mentre lei giaceva supina e sedata sotto le luci roventi; e a quanto pare, non appena estratti i denti e collocati i tamponi di garza Sarah aveva tirato giù le gambe dalla poltrona, mentre il dentista e l’infermiera si lavavano le mani dandole le spalle, e prima che uno dei due, o la receptionist, o la madre di Sarah, o gli altri pazienti in sala d’aspetto potessero effettivamente rendersi conto che Sarah camminava, lei era uscita dall’ambulatorio, e dal portone del palazzo, e aveva percorso un bel pezzo di parcheggio finché, lanciate all’inseguimento, receptionist e infermiera l’avevano finalmente ripresa mentre aggrediva le portiere chiuse della Toyota materna. Lei non conservava neppure un brandello di ricordo onirico di quella fuga dentale. Anzi aveva pensato che sua madre scherzasse, fino al giorno in cui era tornata in studio per la visita di controllo e il dentista aveva detto: «Devo legarti, prima?»
Allo stesso modo, del tragitto fino alla sedia lì davanti non le resta alcun ricordo. Sarah si ritrova ad affrontarsi nello specchio a tutta altezza e tutta larghezza. L’altra sedia dà lo schienale allo specchio. Vantaggio che ha mancato di cogliere.
«David», dice Kingsley. «Sull’altra sedia tu, per favore. Avvicinate le sedie in modo da toccarvi le ginocchia, per favore».
I compagni non emettono suono, ma si sporgono in avanti quasi come un sol uomo. La seduta ginocchia contro ginocchia è inconsueta, ma non è quella la stuzzicante novità. Loro che su richiesta dell’insegnante si sono carezzati, sfregati, tastati e afferrati in ogni configurazione possibile, in nome dell’Arte, non si fanno certo scuotere da un contatto di rotule. A scuoterli è la brusca messa in evidenza, da parte di Kingsley in persona, di ciò che loro per primi sono stufi marci di eludere in punta di piedi: David, Sarah e il loro importantissimo melodramma, del quale vanno tanto fieri da non parlarne con nessuno. A Ricostruzione dell’Ego menano il can per l’aia con commenti ridicoli tipo: «Apprezzo molto il tuo sforzo di ripulire la scenografia». Sono due boriosi accumulatori emotivi; è proprio ora di fargli abbassare la cresta. Con la coda dell’occhio Sarah intuisce il famelico accerchiamento, addirittura inasprito dalle sacche di solidarietà: Joelle e forse Pammie con gli occhi sgranati dall’ansia per lei, mentre Norbert incurva appena un angolo della bocca. Non è certo l’unico a essere assetato di sangue.
Le ginocchia di David, che sfiorano le sue attraverso i rispettivi jeans, non sembrano parti di una persona. Tutt’e quattro le ginocchia si urtano e sussultano, cieche convessità confuse. È necessario sedere in maniera stranamente compassata, stringere le cosce, mantenere il contatto imposto. Indesiderata, insopportabile, Sarah rivede la faccia di David quando le era entrato dentro per la prima volta, nella penombra della sua camera, in quel pomeriggio caldissimo. Mi sento come se, continuava a tentare di dirle. Mi sento come se... Si sentiva come se i loro corpi fossero fatti l’uno per l’altro, il trito luogo comune spogliato di tutto tranne la propria sconcertante verità.
Chiude fortissimo gli occhi, appallottola il ricordo.
«Sarah, apri gli occhi», intima il professor Kingsley. «Sarah e David, guardatevi negli occhi, per favore».
Lei alza gli occhi sul viso di lui. Le agate azzurre la guardano recalcitranti. L’orizzonte che gli divide le labbra. Il bottoncino del neo. Le clavicole, parzialmente esposte dallo scollo a V della polo, che vanno su e giù un po’ troppo veloci. Lei lo prende per un indizio, e la speranza, a cui pensava di aver solennemente rinunciato, le esplode dal petto silenziosa e invisibile; ma la sua forza dev’essere palpabile, perché David rincula, le agate azzurre diventano puntini. «Non stiamo giocando a fissarci», dice intanto il professor Kingsley. «Voglio che cerchiate uno sguardo morbido. Non intendo morbido nel senso di piagnucoloso». (Lo dice perché uno dei due dà l’impressione di cedere al pianto? Sarah non piangerà. Piuttosto che piangere, si dice con assoluta e crudele certezza, smetterà di respirare.) «Non intendo morbido nel senso di tenero». (Lo dice perché uno dei due dà l’impressione di cedere alla tenerezza? Si è già scordata il voto di un istante prima, gli occhi le si riempiono di lacrime, frugano disperatamente in quelli di David cercando un po’ di tenerezza, poi si colgono nello specchio e si asciugano di colpo con il calore della vergogna.) «Intendo neutro. Ricettivo. Uno sguardo neutro, privo di ansie, accuse e aspettative. La neutralità è l’io che offriamo all’altro, vigile e aperto, sgravato. Senza bagaglio. È così che saliamo sul palco».
Adesso che li ha piazzati là sulle sedie, a guardarsi negli occhi, col divieto di fissarsi, accusarsi, aspettarsi alcunché e provare ansia, e in teoria neutrali, vigili, sgravati – per qualche minuto sembra dimenticarsene. Vagola sui bordi della sala, ragionando senza fretta. Che cosa significa essere presenti. Integrità del momento. Riconoscimento di... Libertà da... Ovvio che uno sente e sa cosa sente e al tempo stesso è padrone del sentimento, non schiavo; il sentire è l’archivio al quale ricorriamo, ma l’archivio è dotato di porte o forse di cassetti, di un magazzino e un indice, e a Sarah tutta la metafora dell’archivio passa sopra la testa, ma un’idea se l’è fatta. Se l’archivio è in disordine sei fottuto.
«David», dice a un tratto Kingsley, tornando a torreggiare su di loro. «Prendi le mani di Sarah, per favore. Sarah, prendi le mani di David, per favore».
Davanti al suo sguardo paralizzato David è avanzato, arretrato, si è inclinato e sfuocato, la sua polo rossa è diventata una grossa chiazza che l’ha quasi inghiottito, ma al comando è tornato di colpo sulla sedia con un tonfo spietato, tutto spigoli taglienti e impietosi, due chiodi al posto degli occhi.
Si prendono per mano.
Le mani di David sono orribilmente inanimate, semplici pezzi di carne, quelle mani che per lei sono state così vive.
Le sue, di mani, si ribellano formicolando sottopelle, queste mani che hanno stritolato il cuscino premuto contro la pancia e si sono incuneate senza piacere tra le gambe, mettendosi vanamente al servizio del suo desiderio per lui. Ora queste mani lo hanno riguadagnato, e lui sembra un cadavere.
«Voglio che comunichiate attraverso le mani», ordina il professor Kingsley. «Niente parole. Solo tatto».
Le mani di David rimangono inerti. Non stringono né carezzano né schiaffeggiano – ma come fanno le mani a comunicare con altre mani? A dire la verità, quelle di lui lo hanno già fatto. In realtà non tengono quelle di Sarah: sono queste a essersi bloccate per salvare l’apparenza che sia così. I gomiti di lei sono inchiodati ai fianchi, polsi e avambracci tremano per la tensione; se mollasse, le mani le ricadrebbero sui fianchi e David non riuscirebbe a prenderle.
Kingsley orbita lentamente. «È questo il massimo che riuscite a fare?», esige. «Quelle mani si conoscono, sì o no? Che cosa ricordano? Che cosa ci direbbero, se potessero parlare? Magari anche delle bugie. Magari hanno già cominciato».
Se n’è accorto, pensa Sarah. Si è accorto che le mani non sono davvero unite. Sono collegate ma chissà come non si toccano. Quanto devono sembrargli stupidi, incapaci di seguire una sua semplicissima indicazione. Ma lei non ce la fa ad afferrare le mani di David, a stringerle, a comunicare con il tatto. Ha la testa fradicia di sudore; se lo sente strisciare sotto i capelli. Il pavimento sotto di lei sembra alzarsi e basculare, a ripetizione, tracciando il medesimo arco senza mai completarlo, e lei sta cadendo lentamente dalla sedia, una macchia nera da insolazione a offuscarle la vista. In lontananza il viso di David è sospeso in aria, le guance tumide di sangue e gli occhi ciechi splendenti di rabbia. Sarah si dissocia da sé stessa; David potrebbe schiacciarle le dita tra le sue, spezzarle gli ossicini come spaghetti. Se solo lo facesse. Alla fine Sarah si accorge vagamente di essere scossa dai singhiozzi. Ne sente il rumore orrendo ben prima di riuscire a individuarne la fonte, e come la vittima che è obbligata a infliggersi da sé la tortura, senza volerlo si ricorda della prima volta in cui è venuta con lui, e dei gemiti che non aveva capito essere suoi finché non aveva sentito David che le piangeva di gioia sul collo.
Il tono dell’accusa del professor Kingsley è cambiato e si è esacerbato, perché Sarah gli ha portato l’emozione autentica. Forse non l’avrà fatto con le mani, ma poverina: ce la sta mettendo tutta.
«E tu, questo è il massimo che riesci a fare?», sta gridando Kingsley, rosso in volto. Si è spinto gli occhiali in cima alla testa, impigliandoci un grumo di capelli che adesso stanno ritti in un disordine mai visto prima. «Questa è la ragazza per cui hai fatto dei chilometri a piedi. Sotto il sole. Con una cavolo di racchetta da tennis così tua madre avrebbe pensato che andavi al circolo. Perché tu l’amavi, David. Ora dille la verità e dilla anche a te stesso!»
I compagni stanno a bocca spalancata. È mai possibile che questa sia una recita? Tra loro, l’esibizionismo emotivo è normale. La confessione è normale. Le recriminazioni petulanti, e le riconciliazioni, sono normali. Questa cosa è diversa, in che modo per adesso non saprebbero dire. Qualcuno prova l’impulso di lanciare, come durante una manifestazione sportiva, un incoraggiamento, un ammonimento, o un insulto bello e buono. «Non darle soddisfazione, a quella stronza!», vorrebbe gridare Colin a David. Pammie vorrebbe correre da Sarah e nasconderle il capo chino tra le braccia. Una volta si è seduta dietro David che sedeva dietro a Sarah, e ha pensato tra sé: Se mai un ragazzo mi guardasse per mezzo secondo come lui sta guardando la nuca a lei, morirei e tornerei vergine da Dio, non avrei bisogno neanche di essere baciata. Chantal vorrebbe dire: «Cazzo, David, cresci, sei tutto rosso per cosa?» Norbert, che a Sarah leccherebbe volentieri le ballerine, avrebbe voglia di prenderla a schiaffi e dirle: «Così impari a innamorarti di quella testa di cazzo quando potevi avere me». Quelli che hanno la visuale coperta tentano di inginocchiarsi sulle sedie o si sono proprio alzati in piedi. Alla fine Sarah ritrae le mani e si copre la faccia con il retino delle dita, dal quale muco e lacrime colano a fili viscidi e trasparenti che le diventano strisce appiccicose sulle braccia.
«Arbitro, fallo!», grida Colin, ed ecco prorompere un riso maligno e sollevato.
«Cinque minuti!», sbotta Kingsley, contrariato dall’irriverenza della classe. Però tiene una mano sulla spalla destra di Sarah, l’altra sulla spalla sinistra di David, e si china: non sono ancora congedati. Sarah non può, e non vuole, scoprirsi la faccia, ma sente che lui le sfiora il capo con le labbra.
«Ben fatto», le sussurra tra i capelli.
Poi Sarah lo sente rivolgersi sottovoce a David. «Non mi darò pace finché non piangi anche tu».
Sarah sbircia da dietro le dita. Il professor Kingsley sorride, pregustando con freddezza l’avverarsi della sua profezia. È solo questione di tempo. David, paonazzo in volto per lo sforzo, schizza via dalla sedia e ne rovescia diverse altre mentre, più che uscire, casca fuori dalla sala.
«Prenditi cinque minuti, tesoro», ripete il professor Kingsley in modo tale che chiunque stia trascinando i piedi, allacciandosi le scarpe, frugando nella borsa simulando un qualche motivo per trattenersi – chiunque tranne David, che se n’è andato – senta limpidamente. «I fazzolettini sai dove sono».
Prenditi cinque minuti, tesoro.
«Che altro gli hai raccontato?», urla David, che per mesi non le ha rivolto la parola, anzi nemmeno si degnava di riconoscere la sua umile esistenza, e invece adesso cala come la vendetta divina mentre lei e Joelle attraversano il parcheggio dirette alla macchina di Joelle.
JOELLE: (frapponendosi) Ma stai zitto! Lasciala in pace.
DAVID: (spintonando JOELLE da una parte con i palmi delle mani, al punto che lei barcolla sui tacchi a spillo degli stivaletti e quasi perde l’equilibrio) Gliel’hai detto che non mi saluti neanche, poi però mi scopi nel corridoio dell’aula di musica?
SARAH: Io non ti saluto?
DAVID: (parlandole sopra) O magari ci stava guardando, mentre scopavamo, avevi organizzato anche quello?
JOELLE: (riprendendo l’equilibrio e sbraitando a un volume spaventoso) Grandissima testa di cazzo –
SARAH: (troppo stordita per parlare – ma DAVID le ha già voltato le spalle, perché è arrivata la macchinetta di ERIN O’LEARY; lui sale, sbatte la portiera, e la sua autista bionda, impassibile dietro le lenti scure, lo porta via)
LA MADRE DI SARAH: La tua vita fuori da scuola non sono affaracci suoi. Tu lo sai, questo, vero?
PROF. KINGSLEY: Attacca, per favore, Sarah.
Sarah e David sono tornati a sedersi sulle due seggiole di fronte alle altre. Le ginocchia non si toccano più, sono autorizzati a sedere appena discosti. David guarda Sarah senza guardarla. La vede senza vederla. Sta seduto sulla sedia senza essere lì. Lei non capisce, non perché lui faccia così, ma come; se ne fosse capace, lo farebbe anche lei; per la prima volta capisce che David ce la farà, che si affermerà nel teatro, che potrebbe addirittura farcela a tal punto, diventare talmente importante, da poterlo scrivere all’americana se gli gira, e capisce pure che qui alla CAPA, col professor Kingsley, David è finito. Non reciterà mai un ruolo da protagonista. Non sarà mai una stella. Lascerà la scuola con il proprio carico di carisma inutilizzato, misconosciuto, avvilito e oscurato sotto un miasma di mozziconi rancidi e fumi d’alcol, le «camminate strambe», la polo, la racchetta da tennis non solo messe da parte ma totalmente invalidate e dimenticate da tutti tranne qualche ostinato custode della memoria.
SARAH a DAVID: Sei arrabbiato.
PROF. KINGSLEY a SARAH: Niente lettura del pensiero. Da capo.
SARAH a DAVID: Ti annoi.
PROF. KINGSLEY: (esasperato) Vivi onestamente, Sarah!
SARAH a DAVID: Hai addosso una polo azzurra.
DAVID a SARAH: Ho addosso una polo azzurra.
PROF. KINGSLEY: Non sento ascoltare.
SARAH a DAVID: Hai addosso una polo azzurra.
DAVID a SARAH: Ho addosso una polo azzurra.
SARAH a DAVID: Hai addosso una polo azzurra.
PROF. KINGSLEY: Chi è nel momento qui? C’è qualcuno?
DAVID a SARAH: Ho addosso una polo azzurra.
Che cos’è il momento?, pensa Sarah. Dov’è il Qui e Ora al quale teoricamente dovrebbe reagire? Come può la ripetizione non svuotare qualunque momento, come una grande oscurità diffusa dietro cui David si nasconde, al riparo da qualunque osservazione, a nutrire il proprio odio per lei? Ma questo riflettere, quest’infelice confusione, è il motivo preciso per cui stanno facendo fiasco, è il motivo preciso per cui Kingsley, di nuovo, fa il gesto di cancellare rapidamente: levatevi-da-questo-palco.
COLIN a JULIETTA: Hai i capelli ricci.
Incontestabile. Il marchio di Julietta sono i suoi boccoli a cavatappi, la chioma che le sorge tutt’intorno alla testa, rimbalza quando cammina ed è un’estensione del suo fulgido sorriso. Julietta ha le guance sempre soffici e colorite. Gli occhi che scintillano. Sua madre è francese, e le ha tramandato pronunce adorabilmente uniche come, per la comune salsa bianca, «MA-IÒN-NÈS». La mamma ha tramandato a Julietta anche un’estatica fede cristiana. A differenza di Pammie, Julietta non pare mai sentirsi in obbligo di difendere la propria religiosità: quando i compagni di classe la informano che Dio non esiste lei sorride radiosa, senza alcuna degnazione. Li ama per averle detto come la pensano! Proprio come li ama Gesù, senza che loro debbano crederci.
Julietta abbaglia Colin con il suo sorriso: ha detto proprio una cosa giustissima! «Ho i capelli ricci». Ridacchia.
«Tu hai i capelli ricci». E che cazzo, se cerchi «riccio» sul dizionario, quelli sono i tuoi capelli!
«Io ho i capelli ricci». Ma sì, Colin, certo. Non li puoi mica far diventare lisci a forza di dirlo. Buffo, no?
«Tu hai i capelli ricci», azzarda Colin. A ben guardare, anche Colin ha i capelli folti e ondulati. In qualunque altro posto anche i suoi sarebbero «ricci», ma qui devono competere con la chioma da fiaba di Julietta, con quei boccoli da principessa delle fate, quei capelli che sembrano usciti dal ritratto idealizzato di una qualche ninfa con tralci primaverili fioriti al posto dei capelli! Possono mai contare, i pennacchi crespi di Colin?
«Io ho i capelli ricci». Julietta fa spallucce. Capirai. Mica mancano, i capelli ricci, da queste parti.
«Tu hai i capelli ricci», sbotta Colin di colpo, la voce ruvida d’impulsività, come se le parole avessero preceduto il suono. La squadra con gli occhi socchiusi, e come se niente fosse Julietta avvampa, neanche lui le avesse sbottonato i jeans. Un risolino incredulo percorre la sala. Cazzo, come ha fatto? Bravo, Colin. Di solito è talmente preso a interpretare il rozzo teppista irlandese delle sue fantasie ancestrali che tutti dimenticano che è bravo davvero.
Silenzio! Il professor Kingsley schiocca le dita, poi fa un cenno secco a Colin. Prossimo livello. È sempre Colin a iniziare.
Il livello seguente è l’osservazione soggettiva. Costrutto soggettivo: un’opinione, una sensazione. Un giudizio. Molto spesso, una confessione. Contrapposto all’apparentemente più semplice costrutto oggettivo: un dato di fatto. Perlopiù tutti tendono a vedere l’oggettivo come dato che descrive il seguace (qui Julietta, che parla per seconda, che reagisce) e il soggettivo come dato che descrive la guida (qui Colin, che parla per primo, che fa l’affermazione guida). Ma solo perché il loro pensiero dicotomico è rudimentale.
Senza perdere un colpo Colin dice: «Tu sei vergine».
Però!
«Ommerda!», strilla Angie, incapace di «cucirsi la bocca», come talvolta esclama il professor Kingsley, benché di norma lo dica senza nulla più che un’occhiata o uno schiocco di dita. Come fa adesso, STOCK!, uno schiocco rabbioso, e tutti si dimenano, angosciati, sulle sedie, alcuni allungando avidamente il collo e altri arretrando per il terrore. La compostezza dello spettatore è una lezione che stranamente nessuno gli ha impartito, in questa scuola di teatro. Gli vengono rivolti unicamente sibili e schiocchi di dita come se fossero cani.
Julietta era già rossissima. Sotto i loro occhi torna pian pianino del solito rosa-biancaneve, man mano che la vampata dell’imbarazzo svanisce. Sta prendendo tempo, forse chiedendosi, come molti di loro, se il professor Kingsley chiamerà il fallo perché «Tu sei vergine» è in realtà un costrutto oggettivo – ma lo è davvero? Non dipende da lei? Non resta soggettivo – il dileggio da parte di Colin – finché lei non lo conferma come dato di fatto? Eppure lei non può non confermarlo, le regole dicono che deve ripetere, cambiando solo il pronome e la coniugazione del verbo, cosa che priva il suo assenso di significato – e quindi, questo non finisce per rendere il costrutto soggettivo? Il loro pensiero dicotomico è rudimentale, il dilemma gli massacra il cervello. Pammie si porta le mani alle tempie, poi si copre gli occhi.
Julietta però, col protrarsi del silenzio – perché il silenzio, ferro tra i più versatili del mestiere di attore, è un suo diritto – ha rovesciato l’equilibrio di potere. La carnagione è tornata alla piena normalità. Lei non sorride. Né si acciglia, né dà segni d’incertezza, imbarazzo, paura. Julietta guarda Colin con un’intatta compostezza che Colin cerca di restituirle, ma loro lo vedono che sposta le cosce sulla plastica dura della sedia e inclina lievemente il capo verso di lei. Sta cercando di rispecchiarla, ma gli viene male.
«Io sono vergine», dice Julietta, come se la scelta di comunicarlo fosse dipesa solo da lei.
«Tu sei vergine», dice Colin, stranamente costretto da lei alla neutralità. Qualunque esibizione di spregio o esultanza lo farebbe sembrare puerile.
«Io sono vergine», ripete pazientemente Julietta. Nella sua pazienza non c’è alcuna cortesia. Neppure scortesia. Solo una presa d’atto che forse a Colin il concetto va ribadito.
«Tu sei vergine», dice Colin, sempre più tristemente.
«Io sono vergine», dice Julietta, compatendo la tristezza di Colin. Il suo pensiero è ancora rudimentale.
La classe perde il conto di quante volte Julietta e Colin si palleggiano questa affermazione. Qualche volta il professor Kingsley ferma le ripetizioni per ovvi motivi. Eruzione e risoluzione. Scambio di potere. Chiare sequenze di tono, da entusiasmo a tristezza a indifferenza, casuali come il variare del tempo. Altre volte invece le lascia proseguire, monotone. A quel punto, anche per quanti non stanno parlando, le parole diventano suoni insensati che nessuna nuova inflessione potrà rinverdire.
Alla fine, interrompendo Julietta e Colin, Kingsley dice: «Ottimo. Grazie». I compagni di classe siedono immobili, scordata ogni ilarità, sorpresa, imbarazzo. La condizione mentale collettiva somiglia all’ipnosi.
Per un attimo Julietta e Colin rimangono sulle rispettive sedie, a guardarsi. Poi Colin si alza, e con goffa sincerità tende la mano. Julietta gliela stringe.
«Hai gli occhi azzurri», dice Sarah, forse l’osservazione meno osservatrice che potrebbe fare. Quasi ostile, per quant’è insipida.
«Ho gli occhi azzurri», dice David, talmente perfetto nella sua neutralità da non poter essere tacciato d’indifferenza. Tanto valeva dire: «Un due tre quattro», o canticchiare due note. No: il canticchiare, per la natura del canto, sarebbe molto più espressivo.
«Hai gli occhi azzurri». Lei ha imparato che se lo guarda dritto in faccia lui le diviene estraneo e non lo vede più, e al tempo stesso Kingsley non può accusarla di evitare il contatto visivo.
«Ho gli occhi azzurri». Forse David sta facendo la stessa cosa, la guarda fisso al punto che, come il sole, lei lo acceca.
«Hai gli occhi azzurri».
«Ho gli occhi azzurri».
«Hai gli occhi azzurri».
Ormai sono settimane di questa solfa. Un castigo inflitto a tutti, perché nessuno dei due cede di un millimetro, non una vampa né un sussulto né soprattutto una lacrima. Sarah è quasi esaltata da questa morte del cuore, questa siccità di lacrime. Forse ci sta davvero arrivando: o almeno, ha imparato qualcosa da David. Una resistenza acquiescente, totalmente passiva. All’inizio questo loro rigido stallo ammaliava i compagni. Adesso è un purgatorio. I compagni detestano vederli seduti lì anche più di quanto loro detestino starci. Non raggiungono mai l’obiettivo. Non si conquistano mai un elogio. Non sono mai autorizzati a procedere. Diversamente da chiunque altro, vengono appaiati solo tra loro.
«Ho gli occhi azzurri».
«Hai gli occhi azzurri».
«Ho gli occhi azzurri».
«Basta», latra il professor Kingsley, con uno scatto schifato della mano. Adesso sono tutti e due persona non grata. Con involontaria sincronia si alzano, distolgono lo sguardo uno dall’altra.
«Hablas español», dice Joelle a Manuel con un lampo malizioso. La sala fruscia di rinvigorito interesse. Non hanno mai sentito Joelle parlare spagnolo, a stento hanno sentito Manuel parlare, e le ripetizioni in spagnolo non hanno precedenti, non sono neanche sicuri che siano permesse. Ganza, Joelle! La stima nei suoi confronti aumenta nettamente.
Manuel sorride, sorpreso. «Sí, hablo español».
«Nessuna parola in più», dice il professor Kingsley. Manuel arrossisce un poco.
«Hablaaaaaas españOLLLLLL», fa Joelle con una smorfia e il tono, forse, di un chihuahua tabagista duro. Ora sono tutti ritti sulle sedie, sveglissimi, deliziati.
Manuel arrossisce un po’ di più, ma intuisce il calore di Joelle; la sua è complicità, non compiacenza. «A-BLOO», bela assurdamente di naso, e tutti scoppiano a ridere, «eeeeeeesPAÑOO-ELL», facendo rima con «Joelle»!
Joelle dimena le spalle e spinge il seno verso di lui, levando un braccio in aria. «AAAAAAA, BLAAAAAAAS!», canta con forza se non bellezza, tutta rosea per lo sforzo, dal do centrale al sol, cantano-tutti-mentalmente-con-lei, «EEE-SPÀ-GNIOLL!», conclude Joelle, la, si, a terminare sul do di petto...
«Brava!», strilla Angie, e non viene rimproverata, tutti guardano Manuel con il fiato mozzo, lo fa, lo fa, lo fa?
Manuel restituisce il sorriso a Joelle con le labbra appena tirate, come a dire: «Birichina, ti meriteresti una sculacciata, ma non da me, a me scapperebbe da ridere». Prima d’ora non gli hanno mai visto in viso tanta animazione, tanta consapevolezza, e poi, come se il tempismo fosse un altro dei segreti che si è tenuto per sé, senza apnea né preavviso lo fa, scatena la voce nella sala: «Ah, a-a-a-a-a-AAA-BLOOO», srotola fra lo sconcerto generale – come fa un suono così a provenire da un ragazzetto seduto – «e, e-e, eeeee, e-e EEESSS... PÀNNN... GNIOLLLLL», la nota di basso conclusiva che rotola a valle come una slavina di velluto. I boati di approvazione sono diretti anche a Joelle, lei e Manuel si sbellicano dalle risate, scivolano dalle sedie, sono due sovversivi totali, eppure quello che ride e applaude più di tutti è il professor Kingsley.
In futuro, Joelle scapperà. Scomparirà semplicemente, a metà del quarto anno. Le voci sui suoi motivi, i suoi mezzi, la sua posizione, abbonderanno. Suo padre la picchiava con la cinghia e col bastone e la legava a un albero; la madre l’aveva mandata a vivere con lui perché era troppo sfrenata. Suo padre le ha messo dietro l’FBI, fa sfondare porte, Joelle viene avvistata ovunque: a Tampa; a Waikiki; a New York; sullo sfondo del video di «Love in an Elevator» degli Aerosmith, in cui si dice che sia una delle ballerine. A conferma o smentita, si dovrà attendere un futuro ancor più remoto di quello in cui lei scappa.
In futuro, Pammie deciderà di fare l’astronauta. Non è un capriccio, benché lei sia rimasta, con suo grande dolore, sovrappeso. Deve tornare a scuola e studiare la fisica. Dopo la fisica, mettersi a dieta.
In futuro, Taniqua diventerà una delle attrici televisive più riconoscibili al mondo. Farà la poliziotta in un longevo telefilm su dei poliziotti novellini che crescono e cambiano mentre diventano poliziotti esperti. Taniqua interpreterà la poliziotta completamente priva di humour il cui tragico passato (ovviamente), tutto povertà, abusi, padri carcerati, madri tossiche e fratelli morti sparati, spiega la totale mancanza di humour. I suoi antichi compagni di corso, di quando era giovane, stenteranno a credere che sia la sveglia e disinvolta Taniqua a interpretare quella poliziotta priva di humour. Continueranno a pensare che sul suo humour tanto a lungo nascosto, e finalmente rivelato, a un certo punto s’impernierà una trama, ma gli anni passano e non succede. Come sul fatto che canta bene e sa ballare. Nessuno di questi aspetti in apparenza centrali di Taniqua emergerà mai nel ruolo per cui diventerà celebre. Che interpreterà per anni e la farà ricca.
In futuro, Norbert farà il direttore di un Whataburger. Cosa talmente coerente con le loro più crudeli previsioni su di lui che lo disprezzeranno ancora di più per non avergli dimostrato che avevano torto. Norbert, così incurabilmente sé stesso. Così cocciutamente immune a tutte quelle possibilità di metamorfosi.
In futuro, il vaticinio della professoressa Rozot di fatto si avvererà. Le cose, o almeno le cose a cui voleva alludere quel giorno, come le pene d’amore, faranno meno male, anche se lo spettro delle cose che fanno male si allargherà. Le pene d’amore arriveranno a sembrare un lusso, come motivo di sofferenza. Ci saranno anche problemi di salute e di soldi. La fine delle amicizie. I delitti contro i bambini commessi dagli adulti. E le inspiegabili gentilezze, che chissà perché trafiggono Sarah più a fondo di qualunque altra cosa, come la volta che uscì di casa un giorno d’estate talmente distratta da scordarsi di tirare su la lampo del prendisole, sicché le era rimasto un ampio spacco dall’ascella al fianco, dal quale si vedevano chiaramente reggiseno e mutandine, e lei se ne andò a piedi così, senza rendersene conto, fino al parco, dove una sconosciuta le gridò: «Gioia! Come stai?», e l’abbracciò.
E mentre Sarah le stava perplessa tra le braccia, la donna le sussurrò all’orecchio: «Hai il vestito slacciato. Ti tengo abbracciata finché non tiri su la lampo».
E Sarah la tirò su, e dopo le due si staccarono e si salutarono come vere amiche, reggendo il gioco fino a voltarsi e proseguire ciascuna per la sua strada. E a Sarah tornò in mente, per la prima volta dopo anni, che recitare significava emozioni autentiche in circostanze false. Già le mancava quella sconosciuta, la sua amica per finta.
In futuro, David sarà così cambiato che per Sarah sarà difficile credere al David che aveva conosciuto all’inizio in questi anni dell’adolescenza. Sarà difficile non vedere quel David giovane come una specie d’inganno, un bozzolo leggero da cui il futuro David, nodoso, pesante e duro, sta già uscendo allo scoperto. O forse è questo David più giovane a essere in realtà un guscio impalpabile. Forse lo sono tutti.
Il professor Kingsley non le chiede più di passare da lui. Niente più chiacchierate confidenziali, su lei e David, o lei e Joelle, o sull’aiuto che si aspetta da lei quando arriveranno gli inglesi. Non si parlano proprio più. Qualche volta, passando, lui le fa l’occhiolino. Ma perlopiù la tratta come se fosse trasparente. Lei capisce di aver perso una qualche occasione, sperperato un qualche vantaggio, mentre provava a fare esattamente il contrario. Un venerdì pomeriggio, anziché andare all’Empanada Outpost con Joelle e chiunque altro ci sia in macchina con lei, Sarah torna al corridoio deserto della sua sezione. Il venerdì le prove cominciano più tardi, alle cinque e mezza, perché non bisogna per forza finire entro le nove, dato che il giorno dopo non c’è scuola. Anziché cenare da U Totem il venerdì raggiungono tutti a piedi, a branchi chiassosi o in auto pericolosamente sovraccariche, uno dei veri ristoranti che hanno adottato, dove li conoscono bene e in alcuni casi li detestano. Li tollerano malvolentieri alla taqueria La Tapatia, dove consumano le patatine gratuite a secchiate. Sono a un passo dal bandirli all’Empanada Outpost, dove li servono solo se si siedono tutti fuori sulla terrazza di legno pericolante. Li adorano e li viziano da Mama’s Big Boy, l’ex comunissimo Big Boy di cui ora si sono misteriosamente impadroniti i camerieri gay che, se loro cantano, gli danno il dolce in omaggio. I venerdì possono sembrare una festa, con l’orario d’inizio delle prove che spesso scivola verso le sei se lo stesso professor Kingsley tarda a tornare dal posto dov’è andato a cena – mai uno di quelli vicini ed economici dove vanno loro.
Nel corridoio deserto, la porta di Kingsley è chiusa. Non c’era motivo di pensare che sarebbe stato qui, come succede gli altri giorni quando la pausa dura solo mezz’ora e lui la passa alla scrivania, battendo a macchina in brevi raffiche tipo mitragliatrice, gli occhiali con le lenti a giorno in precario equilibrio sulla punta del naso, la porta semiaperta ma la solenne concentrazione a fare da deterrente per tutti salvo gli allievi più disperati, o sicuri di sé.
Sarah scivola lungo il muro fino a terra, si stringe le ginocchia al petto. Forse Joelle le porterà un’empanada all’ananas, benché Sarah non abbia fame e stenti a ricordare l’ultima volta che ha avuto fame. Un dolore freddo, come un pugno che le schiaccia il diaframma, ha da tempo sostituito la fame. Ci si è quasi abituata, a questa pressione della tristezza come un sasso sul mantice del diaframma. O forse non è lei che si è abituata, ma la pressione che si è allentata? Pensa alla promessa che le ha fatto la Rozot come a una profezia. Se riesce a sopportare abbastanza a lungo, si guadagnerà l’incantesimo e smetterà di stare male. Ogni mattina, mentalmente fa una crocetta su un calendario: manca un giorno di meno a quando starà meno male. Azzarda un respiro profondo, addirittura allunga le gambe sul pavimento freddo in modo che il diaframma abbia più spazio. Non ce la fa. Non riesce a riempirsi i polmoni. Non riesce a spostare il sasso e a inspirare fino in fondo. E questa era la prima cosa che Kingsley aveva insegnato a tutti: come si respira. La collocazione del diaframma e la sua ineguagliabile importanza, forse addirittura superiore a quella del cervello. Mentre imparavano la respirazione a tre fasi, gli aveva spiegato, sarebbero successe due cose: sarebbero giunti a comprendere le vere dimensioni del diaframma, e sarebbero giunti a comprendere l’effettiva portata dei suoi poteri. Finora avevano probabilmente utilizzato metà (o un terzo!) della capacità totale del diaframma. Peggio ancora, erano probabilmente convinti che fosse il cervello a comandare sul corpo. Sbagliato. È il diaframma – aperto alla massima capacità, a regolare influsso e deflusso, a sintonizzarci con noi stessi e col mondo, a escludere ogni interferenza, a permettere il pensiero limpido – a comandare su corpo e mente, che come si sa sono un tutt’uno. E Sarah non ha solo perso il controllo del proprio diaframma, forse ha proprio perso il diaframma. Al suo posto c’è una pietra.
Si sdraia completamente sul pavimento gelido del corridoio vuoto. E se questi pavimenti fossero stati di moquette o parquet? Una consistenza morbida o una temperatura tiepida avrebbero potuto cambiare la sostanza della memoria? Per Sarah l’insanabile rigidità e freddezza dei pavimenti in linoleum saranno sempre un elemento inscindibile dalle lezioni che ha appreso qui. Per la prima volta in tutto l’anno fa un tentativo sincero, supina a terra con la bacheca sopra di lei. Deve scorrere un po’ più al centro del corridoio, in modo che braccia e gambe stiano distese come si deve senza sfiorarle i fianchi né sfiorarsi tra loro. Palmi in su, occhi chiusi. Sotto la camicetta l’aria condizionata le fa venire la pelle d’oca, i capezzoli s’induriscono per il disagio, ma lei s’impone di non incrociare le braccia sul seno. Il rilassamento richiede disciplina. Stranamente le sembra di sentire meglio i rumori, così distesa a terra. Il sonoro ronzio del condizionatore, che non è certa di aver mai sentito prima, sembra fatto di pezzi diversi: una percussione sorda, sepolta, una nota in crescendo sopra una bassa e rombante, un raschio come di sedia sul pavimento. Il fondo della porta del professor Kingsley è a pochi centimetri dalla sua testa. Da dietro il battente, forse dalle viscere dell’edificio ben interrate sotto il pavimento, Sarah sente una voce che fa un verso disarmonico, e un cigolio improvviso.
Con tutta la sua forza prende aria dalla bocca, come se tirasse una fune. Non serve. È come se avesse qualcuno seduto sul petto. David seduto sul petto, come aveva fatto una volta. D’estate. Quando lei lo aveva abbracciato, afferrandogli le natiche, costringendolo a chinarsi sul suo viso.
Si rimette faticosamente seduta, con la schiena che urta il muro nel momento esatto in cui, senza preavviso, la porta del professor Kingsley si apre. Ne esce Manuel, e vede subito che lei l’ha visto. Si chiude la porta alle spalle. Lei sta contro il muro accanto allo stipite, quindi non può vedere l’interno della stanza e non ha modo di sapere se dentro c’è Kingsley.
Senza una parola Manuel si gira e si allontana rapido, svolta dietro l’angolo del corridoio.
Si alza anche lei, prima che la porta possa riaprirsi, e si avvia nella direzione opposta rispetto a Manuel.
L’anno prima aveva fatto geometria con il professor Banks. Di Banks si diceva non solo che andava a letto con alcune allieve, ma che con una ci aveva fatto pure un figlio, una ragazza che si era ritirata qualche anno prima. Nessuno sapeva chi fosse, né aveva mai visto lei o il bambino. Banks stava simpatico a tutti: era alto, con uno strato di muscoli sul torace che si muovevano e si gonfiavano quando alzava il braccio per scrivere le dimostrazioni alla lavagna. Portava polo aderenti dalle maniche corte, che mettevano in evidenza una U scura sul bicipite destro, rovesciata e seduta sulle estremità piegate come su due piedini. Per tutto l’anno Banks aveva trattato lei e William da cocchi, facendo gran mostra di esentarli dalle verifiche perché, diceva al resto della classe, i due sapevano il fatto loro mentre gli altri non ne avevano la minima idea. Banks diceva cose tipo: «William, cari miei, se ne starà seduto qui a tenere la contabilità della mia ditta, e io lo pagherò, rigorosamente al nero, mentre voialtri beoti non siete ancora capaci di calcolare la circonferenza». Mentre Sarah, annunciava, doveva spazzolarsi i capelli come nella pubblicità di uno shampoo solo per il suo piacere. E Sarah obbediva, chinandosi in avanti per lasciarsi ondeggiare i capelli davanti al viso come alghe e poi scattando indietro con la testa perché ricadessero sul collo. «Eh, ma andrebbe fatto al rallentatore», si lagnava il prof. «Forza, L’Oréal». Alla fine dell’anno, quando lui l’aveva informata che la portava fuori a pranzo, Sarah non si era stupita né spaventata: era certa che lui non l’avrebbe toccata, se per un istinto finissimo o per un’ingenuità premiata dalla fortuna non avrebbe saputo dire. Lo aveva seguito fino al parcheggio sul davanti ed era salita nella cabina del suo enorme pick-up, il paraurti adorno di due adesivi. Il primo diceva VAI PIANO; il secondo, L’ALTRA MACCHINA ME LA SONO PIPPATA.
«Che vuol dire?», gli aveva chiesto lei.
«Vuol dire che la mia vita era governata da una dipendenza dalla cocaina».
«Cioè, quindi... ha trasformato l’altra macchina in cocaina?»
«Prima ho dovuto trasformarla in soldi. E io che ti credevo tanto intelligente».
«E quella cosa sul braccio?»
«Il marchio?»
«È un marchio?»
«Come quelli che fanno al bestiame. È la lettera omega, dell’alfabeto greco. Non conosci neanche quello? Mi hai proprio fregato, piccola. Ti credevo una specie di genio». Le aveva fatto vedere le sue lavanderie a gettone – la sua ditta – mentre andavano verso un chiosco di hamburger in una zona della città che lei non aveva mai visto e non avrebbe mai saputo ritrovare; tutti neri tranne lei, in piedi accanto alle macchine, hamburger alla mano dentro la carta oleata, con la vecchia signora dietro il bancone all’aperto che gli aveva sventolato il dito davanti alla faccia come a dire: «E ’sta ragazzetta quanti anni ha?», e Banks che la zittiva con un gesto, tutti e due ridendo.
Sul pick-up, rientrando, Sarah aveva detto: «Miglior hamburger della mia vita. Grazie». Succedeva ai tempi in cui ancora mangiava, e mangiare le piaceva.
«Non c’è di che», aveva risposto Banks. «Grazie a te per la deliziosa compagnia».
Non era successo altro. A lei non era sembrato strano né sbagliato, andare a pranzo con lui. Neppure la sensazione che lui non l’avrebbe baciata, il che già implicava una minima probabilità che lo facesse, le aveva dato un’impressione di clandestinità. Non avevano raggiunto di soppiatto il pick-up. Non erano rientrati a scuola di soppiatto, in mezzo a tutti gli altri che tornavano dai posti dove avevano pranzato.
Malgrado tutte le regole a cui gli allievi sono sottoposti – le ripetizioni senza parole in più, il rilassamento con le braccia che non toccano mai i fianchi, i respiri in tre fasi – non esistono regole a definire i loro rapporti con i docenti. Possono andarci insieme a pranzo, oppure no. Possono versare lacrime e rivelare segreti, oppure no. Vaghe norme nascono e muoiono, sono circoscritte ad alcune persone, non hanno applicazione generale, o permanente, o per tutto il gruppo. Ci si arriva per istinto, per ingenuità premiata dalla fortuna, o per ingenuità non premiata dalla fortuna. Quando la madre le aveva detto: «La tua vita fuori da scuola non sono affaracci suoi», e le aveva chiesto se aveva capito, Sarah aveva detto di sì, ma dissentiva. E forse dissentire era come non capire.
La sera della prima compaiono i genitori di Manuel e vanno a sedersi dove meglio riescono, verso il fondo, finché Colin, che funge da maschera, su indicazione del professor Kingsley li convince a spostarsi al centro della seconda fila, dato che le prime due file sono state cordonate e marcate VIP. Il primo tentativo di Colin di farli spostare non funziona, loro sono educati ma perplessi. Gli tocca andare dietro le quinte a prendere Joelle, che trova carica di rotoli di nastro telato e spille da balia, pronta per qualsiasi emergenza costumi. Joelle esce e, compensando il reciproco imbarazzo con grandi sorrisi e risate, spiega ai due genitori che hanno i posti riservati. Loro si spostano con estrema riluttanza, come temendo di scoprirsi vittime di uno scherzo. Sono entrambi più bassi di Manuel, solenni come bassorilievi, incredibilmente a disagio. Quando finisce lo spettacolo Sarah, che si è infilata di sopra nella cabina luci dove Greg Veltin presidia il mixer, vede il professor Kingsley, con le braccia cariche di bouquet fino al mento, piazzarne uno in mano alla sconcertata mamma di Manuel. Il marito di Kingsley, Tim, gli sta dando una mano a distribuire i fiori, e i due uomini, così simili con i loro capelli corti e lucidi, i loro costosi maglioni a V sopra le camicie sgargianti e i pantaloni con la piega sulle scarpe che scintillano, sembrano sminuire ancora di più i genitori di Manuel solo parlandoci, benché sia evidente che li stanno ricoprendo di complimenti. Kingsley ha gli occhiali e Tim ha i baffi, ed è probabilmente così che i signori Ávila riescono a distinguerli, i signori Ávila che sono a loro volta una specie appaiata nei loro dimessi completi della domenica.
Sarah si sente sollevata quando Kingsley e Tim passano ai membri del cast, che ricevono i loro omaggi floreali con regale degnazione.
Lo spettacolo è un successo. Erin O’Leary è adorabile nei panni di Adelaide; quello sfigato di Tom Dieckmann che, diciamocelo, non sa cantare, è comunque un perfetto, saccentissimo Nathan; e la recitazione legnosa di Manuel viene spazzata via dalla mente degli spettatori quando la voce s’innalza nel canto. Guardarlo recitare sembra quasi una penitenza, il prezzo da pagare per la voce. Con la coda dell’occhio Sarah sbircia il bel Greg Veltin, davvero adorabile tra le lentiggini, i folti capelli castani e il fisico alto e slanciato. L’anno prima, in Anything Goes, aveva ballato come Astaire: pure quella era una forma di grazia riflessa, del genere che li esalta tutti. E Greg canta anche bene, forse non come Manuel però con una voce irresistibilmente vivace, pulita come l’uniforme di un marinaio. Pammie e Julietta l’hanno eletto a figura di culto, la prima in particolare è quasi incapace di respirare in sua presenza; basta solo che lui le dica ciao, e diventa rossa come un peperone. Fino a poco tempo fa, durante la pausa pranzo Sarah lo vedeva spesso allontanarsi sulla Mercedes del professor Kingsley; adesso se ne sta seduto nella cabina luci. «Com’è che quest’anno non hai fatto il provino?», gli chiede, sperando di non risultare maleducata. Se lo sono domandato tutti ma erano troppo timidi per chiedere, dando per scontato che il motivo fosse la sua crisi personale, sulla quale lui resta placidamente abbottonato.
«Mah», risponde lui, come se non avesse mai preso in considerazione il quesito e lo trovasse autenticamente interessante, «forse mi sono solo reso conto che c’era roba da imparare dietro le quinte. Insomma, qui ci sono un sacco di opportunità che non dovremmo trascurare. Tipo, questo mixer? Dice Browne che è costato ventiquattromila dollari».
«Ma tu sei uno dei più bravi cantanti e ballerini di tutta la scuola. Il mixer luci può gestirlo chiunque».
«Grazie», dice Greg. «Molto gentile».
«Dico sul serio», insiste lei. «Saresti stato perfetto, come Cielo Masterson».
«Manuel è stato grandioso».
«Tu avresti fatto meglio».
«Sei un tesoro», dice Greg con garbo, tagliando corto.
La festa si tiene nell’enorme e bellissima casa del professor Kingsley, quella in cui vive con Tim. Prima d’ora ci sono stati solo gli attuali studenti di Quarta, quando erano in Seconda, l’ultima volta che Kingsley si è reso disponibile a organizzare la serata. «C’è nessuno che ha voglia di dirmi», chiede prima del brindisi, «come mai La Tapatia non ci affitta più lo spazio sul retro?» Tutti ridono. Dentro, disposti su bei vassoi sopra un largo tavolo da buffet, ci sono sidro frizzante di Martinelli, bibite varie e ogni genere di snack dolci e salati, ma fuori, dalle macchine degli allievi l’alcol arriva pian piano in giardino: una bottiglia di Jack Daniel’s qui, una confezione di wine cooler lì. Il giardino è vasto, curatissimo, labirintico, con sentierini di mattoni e grandi cespugli e posti dove sedersi senza essere visti dalla casa. Sanno che Kingsley ignorerà l’alcol e l’erba consumati in giardino, purché lo si faccia con discrezione. Fuori, la conversazione gira perlopiù intorno a dove andare dopo, giacché tutti sanno che sia per i padroni di casa, sia per loro, il party è un piacevole obbligo. Il professor Kingsley e Tim non intendono ospitare un festone sfrenato, né del resto gli occupanti del giardino intendono sfrenarsi in questo ambiente così raffinato; si fermeranno un’oretta, rientreranno per ringraziare, risaliranno in macchina e andranno a sfrenarsi altrove.
Dentro si va svolgendo una festa molto diversa, con uno spirito del tutto diverso. Qui nessuno vorrebbe trovarsi altrove. Si danno il cambio al pianoforte e cantano, sperano che Kingsley racconterà di Broadway, non li sfiora neanche il pensiero che lui voglia mandarli via. Eppure se ne andranno tutti, euforici e stanchi, ben prima di abusare della sua ospitalità.
Le due feste condividono qualche invitato, si scambiano qualche invitato, di gran parte degli invitati si godono la presenza in esclusiva. Tra molti altri, Julietta e Pammie, Taniqua e Angie, Erin O’Leary e Tom Dieckmann sono dentro a mangiare patatine, bere bibite e cantare fino a sgolarsi. Sulla veranda coperta Tim è circondato da alcuni solenni esponenti di Terza e di Quarta, a parlare di musica e arte. Joelle scivola agevolmente da dentro a fuori e viceversa. Un gruppetto compatto in cucina, zelanti pettegoli a intasare le scale. David si è alleato con le ombre a tal punto che Sarah non ha neppure capito se è qui, e anche lei, come Joelle, ma per motivi diversi, va avanti e indietro, dentro e fuori senza requie, dal bruciore della bottiglia di Jack Daniel’s di Colin nell’oscurità duttile alla caustica ruvidità arancione dei triangolini di mais nella luce stridente della casa. È incapace di sentirsi a suo agio da una parte come dall’altra. Scavalca gli zelanti pettegoli che intasano le scale e va su, in cerca di un bagno senza gente stravaccata davanti alla porta. Il corridoio del primo piano è adorno di locandine – veri allestimenti professionali newyorkesi, Godspell, Follies – nonché ricoperto di moquette beige che assorbe qualsiasi suono, e Sarah si avventura per tutta la sua lunghezza, come se la silenziosità dei passi la rendesse anche invisibile. Qui in fondo al corridoio c’è un vasto mosaico di fotografie in cornici variopinte, il professor Kingsley e Tim ritti uno accanto all’altro e sorridenti in varie stanze, o davanti a varie vedute panoramiche. Certe volte Tim cinge le spalle di Kingsley con un braccio, certe altre è Kingsley a cingere Tim. Hanno sempre un’aria da universitari vigorosi. Sarah si chiede se sia un suo pregiudizio, radicato, inconscio e involontario, a impedirle di vedere, in una qualsiasi di queste foto, che i due sono amanti. O se non sia invece una loro tenace reticenza, quando posano davanti a una terza persona, a rendere così tutte le foto, indipendentemente da lei. Poi si chiede che effetto farebbe una foto sua e di David, se avrebbe mai catturato una certa aura che entrambi cercavano di nascondere.
In fondo al corridoio c’è una scaletta angusta, ripida e senza moquette, come fosse appena cresciuta dopo esser stata una scala a pioli. Sarah la imbocca e subito si ritrova in una mansarda dalle pareti spioventi che, si rende conto, è stata ricavata da una soffitta ma adesso è splendidamente rifinita e arredata con un tappeto rotondo, un letto e una specie di snello armadio con uno specchio a tutta altezza interno a un’anta, davanti al quale c’è Manuel che si infila una camicia azzurra nei calzoni. «Tu abiti qui?», esclama.
«No», fa lui trasalendo di brutto, un palmo infilato di piatto nella cintura dei pantaloni, e poi, con sorprendente aggressività: «Che ci fai qui, sempre a ronzare?»
«Come, a ronzare? C’è una festa».
«La festa non è qui di sopra».
«E allora che ci fai tu?»
«Mi cambierei la camicia, se mi lasciassi in pace», dice lui chiudendo l’anta dell’armadio, ma non prima che lei abbia notato diverse altre camicie dall’aria costosa e dai colori accesi, le stesse che gli ha visto indossare a scuola.
«Te le ha regalate lui?», chiede.
«Sono mie».
«Perché le tieni qui a casa sua?»
«Perché non te ne vai da un’altra parte? Magari nel corridoio dell’aula di musica? Ho sentito che ci metti su degli spettacolini niente male».
Lei quasi ruzzola giù dalla scaletta.
In cucina, tentando di uscire dalla porta di servizio, si imbatte in Pammie. Sarah deve andarsene, la sua determinazione ad andarsene è così totale da non lasciare spazio a nessun altro pensiero. Anche a piedi, pazienza se casa sua è a più di mezz’ora di macchina. Camminerà tutta la notte, andrà direttamente alla panetteria per il turno delle sei; sette ore dovranno pur bastare, per arrivare fin lì. «Vieni con noi!», strilla Pammie, entusiasta. Con lei c’è Julietta; Sarah neanche riesce ad aprire bocca per obiettare che già le due l’hanno rapita come allegre teppiste, prendendola per un gomito ciascuna. Il giardino si è parecchio svuotato, bevitori e fumatori hanno salutato i padroni di casa prima di essere troppo sbronzi o troppo fatti. David non si vede da nessuna parte, forse non c’è mai stato. Greg Veltin attende sotto il gazebo del giardino posteriore, ha chiesto alle ragazze un’udienza speciale. «Abbiamo portato anche Sarah», dice Pammie trafelata. «Va bene?»
«Ma ci mancherebbe», fa lui con calore. Va benissimo che abbiano portato anche Sarah, anzi è perfetto che ci sia anche lei. Greg vorrebbe che si prendessero tutti per mano, se a loro non sembra troppo assurdo. Nella penombra del gazebo, una luce da fondale oceanico, Sarah scruta il volto rapito di Pammie: alla presenza di Greg Veltin splende come la luna. Si siedono in cerchio sul pavimento appena scheggiato del gazebo. Greg tende una mano a prendere quella di Pammie, e con l’altra prende quella di Julietta, e Julietta dà l’altra a Sarah, e Sarah dà l’altra a Pammie, arresa come in trance, senza la minima idea di cosa stiano facendo. Seduto a gambe incrociate Greg Veltin sembra Gesù – un lindo Gesù castano e lentigginoso – mano nella mano con queste vergini di Seconda così innamorate di lui che di buon grado ne accetterebbero la bigamia (ne hanno già parlato molte volte, ma solo tra loro, non con lui). «Per me la vostra amicizia è preziosa», dice Greg. «Mi ritengo molto fortunato ad avere delle amiche come voi, e vorrei sapeste che vi voglio bene e che, se le cose fossero diverse... Dio, sarei talmente innamorato di voi che non saprei chi scegliere! Ma fortunatamente» – e stringe la mano a Pammie e Julietta con un tale soprassalto d’affetto che le due paia di mani congiunte sobbalzano – «sono gay, perciò non devo scegliere, e posso voler bene a tutte voi per sempre».
«Ommioddio!», grida Pammie, le mani che volano sulla bocca.
«Siete le prime della scuola a cui lo dico», prosegue incredibilmente Greg: quest’adorato, bellissimo allievo di Quarta che balla come Fred Astaire ed è così limpidamente, inevitabilmente, senz’alcun dubbio gay che Sarah non riesce a credere di non averlo mai capito... ma ecco che cos’era avere quindici anni, penserà quando ne avrà il doppio, e poi il triplo. Il patente e il latente a dividersi il medesimo spazio mentale.
Julietta è scoppiata in lacrime. «Sono onorata», singhiozza. «Sono onorata dalla tua confidenza».
«Anch’io», dice Pammie con fervore, perché in quell’istante capisce anche che lo aveva già capito, e anche lei è sbalordita per il dono della fiducia di Greg, un’intimità molto più grande di quella che aveva mai sognato.
I tre si sono stretti in un gioioso abbraccio di gruppo. «Sarah, Sarah!», ridono e piangono senza difese, tentando di allungare le braccia fino a lei, troppo goffi nella loro felicità per impedirle di scivolare via.
Sanno così tanto gli uni degli altri, eppure così poco.
Sanno che la madre di William costringe William e le sue due sorelle minori a tenere lo spazzolino, il dentifricio, il pettine e qualunque altro oggetto di uso personale in borsine da viaggio con la cerniera, che devono portare in bagno e poi riportare in camera ogni mattina e ogni sera, perché se lei trova articoli da toeletta dimenticati in bagno – bagno che usano solo William e le sue sorelle, perché la madre ha il suo bagno in camera – glieli butta via. Capita che gli butti via, a mo’ di castigo per la mancata osservanza della sua regola, uno spazzolino dimenticato o un pettine fuori posto. Loro, i compagni di scuola di William, sanno questa cosa, ma non sanno come si chiama la madre di nome, né dove potrebbe essere il padre, e neppure se sia ancora vivo.
Sanno che i genitori di Julietta tengono scorte di riso e farina dentro contenitori sigillati in vista di una futura apocalisse, ma non sanno se Julietta personalmente crede a quest’apocalisse, o se ne preoccupa. Di certo non ha l’aria preoccupata.
Sanno che il padre di Colin lo picchia, lo «sdraia di mazzate», lo «mena come un fabbro», lo «gonfia come una zampogna», ma non sanno cos’ha fatto Colin per meritarselo, e neppure se Colin sia arrabbiato o triste per le percosse. Non sanno neanche se le espressioni che usa Colin per dire che le prende siano sue, o se gliele abbiano insegnate.
Sanno, o almeno alcuni sanno, o almeno uno sa per certo, che Sarah si è fatta scopare da David nel corridoio dell’aula di musica, proprio là davanti, dove chiunque avrebbe potuto vederli.
Non sanno che Sarah lavora ogni sabato e domenica in una panetteria francese al turno di apertura. Tutta sola, Sarah trasporta le larghe teglie di croissant, brioche, chaussons aux pommes e pains au chocolat. Stacca le paste unte dal metallo a cui hanno lievemente aderito, cercando di non sciuparle, e le dispone nel banco-vetrina. Il fornaio, chiunque egli sia, ha terminato le cotture e se n’è andato prima del suo arrivo. Lei se lo chiede, chi sia e perché non s’incrocino mai. Le paste sono ancora tiepide. I friabili croissant dorati e arricciati le fanno venire in mente le corazze abbandonate delle cavallette che a volte trovava attaccate agli alberi, quando era piccola e abitava con i suoi in una via con degli alberi, prima che suo padre se ne andasse. Certe volte di mattina prestissimo si metteva le scarpe da ginnastica e usciva di nascosto mentre i genitori dormivano e sui prati si stendeva una coltre di nebbia bianca che le arrivava appena alle ginocchia. Strana esalazione dei prati al fare del giorno, nebbia magica ad altezza di bambino che lei poteva fendere con le gambe come un gigante. In una certa stagione, non si ricorda più quale, avrebbe potuto staccare fragili involucri di cavalletta dagli alberi e, se avesse voluto, schiacciarseli in mano, anche se non lo faceva mai. Le sarebbe sembrato uno spreco distruggere tutta quell’intricata cavità, tutte quelle camere, punte e cerniere, come una nave aliena in miniatura. Non poteva avere più di otto anni, ai tempi. Mezza vita fa. La mattina non era mai stanca, neanche sapeva cosa fosse la stanchezza mentre tornava correndo nella nebbia che si dileguava come un sogno per vedere il papà che si chinava fuori dalla porta di casa a prendere il giornale.
Adesso è sempre così stanca che neanche si rende conto di esserlo. Le parole si bloccano sulla lingua. Le lacrime le si raccolgono prematuramente negli occhi. I sogni a occhi aperti le formano in testa spire e volute, simili a idee, ma forse non uguali.
Sanno così tanto gli uni degli altri, eppure così poco. Manuel sa, o pensa di sapere, di lei. Una puttana avrebbe più dignità.
Lei sa, o pensa di sapere, di Manuel. Furtivo e compiaciuto. Le porte chiuse e le camicie nuove.
Eppure non sa dove abiti, non conosce il suo numero di casa. E non ha idea di dove si possano reperire questi dati. Si è già dimenticata del mattino, era in Prima, in cui era scattato l’allarme per un incendio spaventoso all’estremo opposto dell’enorme comprensorio in cui vive con la madre, talmente enorme che loro, dal loro posto auto, non riuscivano a vedere neanche il fumo e avevano scoperto cos’erano quelle sirene solo dalla televisione, dove avevano visto il comprensorio filmato dall’alto, e le fiamme a sette o otto traverse di distanza. Per quanto lontano fosse, l’incendio aveva mandato il traffico in tilt e sua madre l’aveva lasciata a scuola tardi, ma quando era andata in segreteria a farsi fare la giustificazione per il ritardo le signore avevano esclamato: «Oddio, gioia, stai bene?», perché in segreteria sapevano il suo indirizzo – anzi, quando avevano visto l’incendio al telegiornale avevano proprio controllato le anagrafiche, per vedere se avevano degli studenti in pericolo.
Quindi ovviamente in segreteria gli indirizzi li sanno, ma questo a Sarah non viene in mente. Non è un’intrigante. Le manca non solo l’abilità, ma proprio la fermezza necessaria alla premeditazione.
Ciò malgrado, pur nella sua stanchezza, è vigile. Avendo notato delle cose, seguita a notare delle cose. La sua attività nel reparto costumi di fatto è terminata, non ha avuto incarichi da camerinista, ma è ancora responsabile dello stato generale del guardaroba; la sartoria e i camerini sono la sua timoniera, li pattuglia, riordina, ripara. In particolare, per questo spettacolo era addetta ai cappelli; ne sorveglia i mazzetti di piume o di frutta, oppure le bande in gros-grain, se c’è bisogno estrae la pistola della colla a caldo. Nelle ore quiete prima che inizino le prove, quando in giro non c’è nessuno, controlla il camerino dei maschi, i quali trascurano i feltri, li lasciano buttati a terra. Rimette in forma le calotte, li spolvera, ci tiene a riordinarli sugli scaffali etichettati con il nastro maschera dove li avrebbero dovuti riporre i compagni. I maschi del cast dispongono di due stand sovraccarichi di abiti di scena, suddivisi da cartoncini che spuntano a intervalli fitti, con scritti sopra i nomi dei personaggi. «Scommettitore 1», «Scommettitore 2», «Addetto Eserc. Salv.», «Cielo Masterson». I maschi fanno schifo a riappendere i costumi. Questo venerdì, dopo la scuola e prima che inizi il secondo e ultimo fine settimana di rappresentazioni, Sarah sgobberà all’asse da stiro. Infila le dita e separa l’ammasso stropicciato di abiti maschili tra «Addetto Eserc. Salv.» e «Cielo Masterson». C’è una camicia verde pallido, un colore che forse in negozio chiamerebbero spuma di mare. Etichetta: Armani. Scemo, questa non c’entra con il costume di Cielo Masterson. Quasi scoppia a ridere, davanti al patetico espediente di Manuel. Ma com’è ovvio, nessun altro ha notato le sue camicie. Diversamente da lei, nessun altro si è accorto che lui le indossa solo a scuola e poi si rimette le sue maglie di merda da due soldi, le sue maglie da povero, prima di andare a casa. Malgrado lo stropicciamento, il tessuto ha la freschezza e la rigidità del nuovo. Niente alone grigio al colletto, niente macchie gialle sotto le ascelle.
Sarah estrae la camicia. Accende il ferro, attende pazientemente che si scaldi, dopodiché stira la camicia con la massima cura, usando perfino l’apposito bracciolo per le maniche. Quando ha finito, la piega con i bottoni al centro e le maniche sotto, come ha visto uscire le camicie da uomo dalla lavanderia, poi la porta in sartoria e la nasconde su uno scaffale alto, sopra le scatole di bottoni e minuterie che al momento nessuno sta usando.
Durante la settimana e il weekend compaiono altre due camicie, dello stesso tipo e nello stesso posto, e lei fa la stessa cosa con entrambe. Osserva Manuel per cogliere tracce di disagio. Lui sembra sempre un po’ a disagio. Se capita che si incrocino non la guarda mai negli occhi. La loro inimicizia è un fatto convenuto e non ha bisogno di altre conferme. La camerinista di Manuel è Joelle e adesso lui e Joelle sono amiconi, sempre a ridere e scherzare in spagnolo. Joelle potrebbe addirittura sapere il suo indirizzo di casa ma Sarah non pensa di chiederglielo, di dove abita Manuel non le importa più e non ricorda perché gliene importasse. Non ha concepito un piano riguardo alle camicie. Le ruba e basta, perché la fanno arrabbiare, malgrado non sappia bene se con Manuel, o col professor Kingsley, o con tutt’e due. Prova una rabbia intensa ma oscura.
L’ultima replica, come sempre, è una matinée domenicale alle quattordici che, come sempre, ha un effetto ammosciante, ma ci deve pur essere il tempo di smontare. Dopo la recita si tratterranno tutti per smontare il set, per quante che siano le ore necessarie.
Per quest’ultima replica ricompare la madre di Manuel, stavolta senza il padre. Al contrario è accompagnata da una ragazza, snella, seria, camicetta e pantaloni castigati di, forse, T.J. Maxx o qualche altra grande catena che vende capi da ufficio a prezzi convenienti. Ha una borsetta nera con la tracolla sottilissima. Assomiglia a Manuel, come Manuel è due spanne più alta della madre; le cammina vicino, prendendola talvolta sotto braccio. Oggi la madre sembra meno a disagio, mentre la ragazza è compassata e guardinga. È la madre a condurre la ragazza, con evidente orgoglio, alla fila cordonata di posti riservati. Si accomodano, inclinano il capo una verso l’altra, conversano solo tra loro nel grande clamore della sala, in mezzo a tutti i saluti e gli abbracci e le battute e le famiglie che cercano sei o tredici posti vicini, è l’ultima replica. Sarah esce dalla cabina luci dove stava seduta con Greg Veltin che è gay e torna in sartoria, ma là dentro c’è troppo macello, con tutti i membri del cast vestiti e truccati a fare salamelecchi al professor Freedman, il costumista, e a consegnargli regali. Sarah aspetta che il primo atto sia ben inoltrato, Freedman stasera assiste dalla sala; poi, frugando nella massa di ciarpame potenzialmente utile della sartoria trova una busta di plastica con i manici e ci infila dentro le tre camicie stirate, una sopra l’altra. Le sistema di piatto sul fondo, per non sgualcirle. Stasera hanno tutti in mano una busta di qualcosa, più che altro regali per Kingsley, orsetti di peluche con scritto «Grazie!» oppure scatole di cioccolatini, sebbene lui abbia dichiarato poco tempo prima: «Dietro categorico ordine di Tim, BASTA CIOCCOLATO. Diciamo grazie senza calorie!»
Una volta anche Sarah avrebbe riempito una scatola di pains au chocolat della panetteria perché, malgrado gli ordini di Tim, la divorante passione di Kingsley per il cioccolato è notoria. Avrebbe chiuso la scatola con un nastro, se la sarebbe detratta dalla paga, avrebbe comprato un bigliettino da Coriandoli! La Festeggeria, e si sarebbe lambiccata in cerca della cosa giusta da scrivere.
Per questo spettacolo non gli farà nessun regalo. Non crede che lui se ne accorgerà.
La recita termina, terminano le ovazioni, i membri del cast ancora mezzi truccati saltano fuori dai camerini per farsi acclamare dai familiari e mettersi in fila per le foto. Estemporanei e frammentari bis: Chiama pure un legale, pupa, tu lo sai QUANTO TI AMOOO! Poi i familiari si sparpagliano riluttanti, il cast deve tornare in scena tra dieci minuti per lo smontaggio, devono finire di struccarsi. Manuel scambia due parole con la mamma e la donna che di certo è sua sorella, torna nel camerino dei maschi dove le sue segrete camicie nuove di zecca scompaiono continuamente. Sarah, ritta nello slargo davanti all’ingresso del teatro con la busta in mano, non sapendo dove hanno parcheggiato, quasi manca la madre e la sorella, le scorge proprio mentre stanno uscendo. Deve correre per riprenderle. «Scusate», grida. Se ci fosse premeditazione, forse avrebbe imparato a dirlo in spagnolo. Joelle avrebbe potuto aiutarla. Ma è chiaro che non c’è premeditazione. «Scusatemi, queste sono di Manuel, da portare a casa».
Le donne si girano, sorprese. Lei mette la busta in mano alla madre, che a quel punto deve accettarla. «Di Manuel?», dice scettica, buttandoci un occhio dentro.
«Sono un regalo, del professor Kingsley, per Manuel», dice Sarah, scandendo bene, anche se in inglese. Ma la sorella lo parla sicuramente. «Perché Manuel è il suo ragazzo», aggiunge Sarah voltandosi rapida.
«Che cosa hai detto?», scatta la ragazza. Ma Sarah è già scomparsa.
«...E questi taccuini di regia li conserverete per tutto il secondo quadrimestre. Domande?», chiede Kingsley.
«Che fine ha fatto Manuel?», domanda Colin. Non lo vedono dallo smontaggio del set di Bulli e pupe. Che è stato prima di Natale. Quindi da più di un mese.
Sarah osserva attentamente l’espressione di Kingsley. Le piacerebbe leggerci della colpevolezza. Si aspetta solo dell’inquietudine. Non vede né l’una né l’altra, e neppure qualcosa di diverso. «Manuel è assente per motivi familiari», risponde sereno Kingsley. «Speriamo che torni presto».
Ma lui non torna più.
«Stronza», le dice Joelle nell’orecchio. «Fatti una cazzo di macchina tua».
«E mi sembra inopportuno, del tutto inopportuno, far lavorare i bambini a scuola per dodici, talvolta quattordici ore al gior–»
«Non siamo dei bambini», interviene Sarah.
«Naturalmente un programma rigoroso come il nostro non è per tutti», dice la preside Laytner, la loro remotissima dirigente scolastica, una persona irrilevante con un filo di perle al collo. La Laytner presenzia alle prime con un mazzolino di fiori freschi appuntato alla giacca, taglia i nastri dei nuovi mixer luci, viene nominata dal quotidiano locale quando la scuola entra nella classifica delle prime dieci. A memoria di Sarah non ha mai messo piede nella sezione Teatro. «L’apprendistato pre-professionale per i ragazzi di quest’età è un impegno molto serio. Ma noi riteniamo che i nostri stude–»
«E anche i suoi metodi, i metodi di questo docente, mi sembrano inopportuni».
«Anticonformisti, forse. Il professor Kingsley è un uomo geniale, un docente anticonformista ma geniale; siamo molto fortunati ad averlo qui. I suoi metodi sono improntati a una pionieristi–»
«A me par di capire che siano metodi pensati per adulti».
«A mio avviso, se i metodi di Jim non la convincono, sarebbe molto più sensato chiedere un colloquio a lui e parla–»
«No!», esclama Sarah.
«Ecco, sarebbe ora di sentire cosa ne pensa Sarah», concorda la preside Laytner. «Sarah, tu hai difficoltà, come teme tua madre, a seguire il nostro programma? Ti senti troppo oberata?»
«No», dice Sarah.
«Pensi che i metodi educativi del professor Kingsley siano inadatti agli studenti della tua età?»
«No», dice Sarah.
«È ovvio che lei dica di no», obietta la madre.
«Ma non siamo qui per questo? Per accertarci che stia bene? Sarah, ti sembra che il carico di lavoro qui sia eccessivo? Ti senti sotto pressione?»
«No», risponde lei.
«C’è qualcosa che ti preoccupa riguardo alla scuola, in generale?»
«No», dice Sarah, che ancora non riesce a respirare in tre fasi, a mangiare, a dormire una notte intera. «Assolutamente no».
«Tu sei alta», afferma David, sconcertandola. Le loro ripetizioni, quelle di Sarah e David, hanno assunto la futile, plumbea consistenza della diplomazia internazionale, dove si mettono in campo il maggior numero di persone, il maggior livello di tensione, il più lungo elenco di condizioni, la più profonda noia dissimulata, per ottenere gli enunciati più concisi e insignificanti. È l’emozione più falsa nelle circostanze più vere, salvo ora, quando d’un tratto David cambia tono. Game over, dice. Ignora il resto del mondo. Guarda me. Sto parlando con te.
«Tu sei alta», ripete. Qui la ripetizione dev’essere oggettiva. Loro due, caso unico fra tutti i compagni, non sono ancora stati autorizzati a passare alla ripetizione soggettiva. Perfino Norbert è un asso nella soggettiva. Ma Sarah e David sono troppo immaturi, troppo decisi a perseguire il loro melodramma privato a spese del gruppo. Non elaborano l’emozione, la accumulano. Sembrano un disco rotto. Sono due narcisisti. Il professor Kingsley pronuncia questi capi d’accusa mentre Sarah e David siedono ginocchia contro ginocchia, come se non fossero presenti, come se la loro immaturità e il narcisismo e il discorottismo implicassero che sono anche sordi. E per un verso, Sarah lo è. Dopo aver lottato per il diritto di rimanere in questa scuola, in questo corso, su questa sedia di plastica rigida, Sarah guarda, impassibile, sorda, cieca, nelle agate indisponibili di David, e lui ricambia lo sguardo, nessuno in casa, tende tirate. Fino a oggi, quando si fa leggermente più avanti sulla sedia. «Tu sei alta», le dice. Lei ha un tuffo al cuore. È di altezza media. Più bassa di David. Se lui la prendesse tra le braccia, la sua guancia gli si andrebbe a posare sullo sterno.
«Io sono alta», dice cauta, come temendo di aver equivocato.
«Tu sei alta», conferma lui.
In aula, adesso, non c’è nessuno. Tutti gli altri, meri arredi. Kingsley si è spostato proprio davanti a loro, ostruendo la visuale degli spettatori, braccia conserte e labbra tirate per il disappunto. Perfino lui è un arredo.
«Io sono alta». Lieve scetticismo: Non ti pare una scemenza? Quando facevamo l’amore, la mia faccia ti si spiaccicava sul petto. Se giravo la testa, riuscivo a sentirti il cuore che mi scalfiva la guancia.
Telepatia ricevuta. Sorriso privato: Su questo niente da dire. Ma ciononostante: «Tu sei alta», dice David.
«Io sono alta», dice Sarah, quasi a provare come le sta l’aggettivo.
«Cinque minuti», dice Kingsley stizzito. I codici segreti non sono emozioni autentiche. Sarah e David non si stanno comportando con la necessaria integrità. Pare non riescano a impedirsi di essere criptici; questo non è un giochetto, ragazzi, è la vita. La familiare nota di biasimo gli piove in testa mentre senza fare obiezioni tornano al loro posto. Sanno che tutti assistono al loro disonore ma per loro è irrilevante, arcinoto, come i rimasugli di petali che gli cadono sui capelli dagli alberi sfioriti e lì restano quando camminano per strada. Fuori è marzo, tarda primavera nella loro calda metropoli del Sud. Incendi di azalee intorno alle case. Gli alberi tutti appiccicosi. David ha finalmente sedici anni, e la madre e il patrigno, come promesso, gli hanno comprato una macchina. David accompagna Sarah a casa, e malgrado il loro cameratismo sia rigido e muto, Sarah sta seduta sul sedile che sa di nuovo come appollaiata sull’ala di una bestia fantastica. Che è David ma che al tempo stesso lo trasporta. Provano una gioia inguaribile che non ammetteranno mai. Allora è questo, che avrebbero potuto avere. Volare per la città senza essere sorvegliati, con le braccia che riscaldano l’angusto abisso che li separa, dove sta di guardia la leva del cambio.
Al cancello segnato col gesso Sarah ringrazia con un sorriso, David saluta con un sorriso. Sarah si volta per non vederlo andar via. David evita di guardare gli specchietti per non vederla allontanarsi, farsi piccola. La comune tristezza è ora un segreto condiviso, e forse basta così. Per osare di più gli servono lo scrutinio, l’intimidazione, i vincoli concreti che al principio gli sono stati imposti dal professor Kingsley ma che sono ampiamente reperibili altrove, gli infiniti modi di essere criptici, di comportarsi con scarsa integrità, sebbene mai, questo lo sanno entrambi, senza un’autentica emozione. Qualunque cosa ci sia tra loro, è autentica. Su questo il professor Kingsley si sbaglia.
Giunto infine il momento del previsto arrivo degli Inglesi, persino quelli che dovevano ospitarli si erano dimenticati di loro. Gli Inglesi erano stati annunciati dal professor Kingsley il settembre precedente, che adesso sembrava una vita prima. Il settembre precedente Manuel era ancora un signor nessuno. Il settembre precedente Greg Veltin era ancora l’idolo intoccabile di tutte le vergini. Il settembre precedente loro due si erano appena imbarcati nelle ripetizioni, con tutto il fervore accumulato nella lunga attesa, e ancora non avevano fallito al punto da dover sentire Kingsley dichiarare, come aveva fatto quella settimana, che erano gli allievi di Seconda più deludenti con cui avesse mai lavorato. Il settembre precedente non erano ancora caduti in disgrazia – eppure adesso gli accordi presi all’epoca, nel rammentargli chi erano stati, gli regalavano anche la prospettiva di un nuovo inizio. Si sarebbero presentati al loro meglio, agli occhi di questi stimati visitatori che non avevano termini di confronto.
Gli Inglesi erano la compagnia teatrale di un liceo di Bournemouth, cittadina dell’Inghilterra. Erano anche loro sui quindici o sedici anni, motivo per cui l’onore di ospitarli era toccato agli allievi di Seconda. Il settembre precedente, quando li aveva radunati in sala prove, Kingsley aveva girato la sedia e gli si era rivolto con aria confidenziale: «Stanno portando in giro quello che a quanto si dice è un adattamento pazzesco del Candido di Voltaire», aveva spiegato, «e come studierete a Storia del teatro europeo, Voltaire fu il più celebre drammaturgo francese. Ora, chi di voi è stato in Inghilterra?» Senza volerlo Sarah aveva guardato David, e con la stessa rapidità si era voltata di nuovo. Per lei, fino a quel momento, l’Inghilterra era esistita solo nelle sue cartoline; adesso quei Big Ben, quelle Piccadilly Circus e quelle Carnaby Street con i punk sembravano scherzi di cui era l’unico bersaglio.
David, e lui solo, aveva alzato la mano. Il gomito però era rimasto piegato, a denotare la riluttanza a rispondere alla domanda. A Sarah era tornata in mente la prima volta che aveva intravisto casa sua, al primo anno, dall’affollato sedile posteriore dell’auto di Jeff Tillson, uno di Quarta. Jeff che riaccompagnava a casa cinque o sei spatentati dopo le prove di un saggio, le confuse e prolisse indicazioni che si sovrapponevano, i dibattiti su chi abitava più vicino alla scuola, a Tizio o a Caio, David che continuava a chiedere a Jeff di portare a casa altri compagni finché non era saltato fuori che la casa più vicina a scuola era la sua, nello storico quartiere di gigantesche querce secolari che nascondevano dimore signorili dietro discrete velature di muschio spagnolo. Quindi David era stato fatto scendere per primo, e dalla macchina si erano levati strilli di «Quella è casa tua?» mentre lui, rosso come un peperone, si sgrovigliava dal sedile sovraccarico.
La caratteristica principale di casa di David era che erano due: la raffinata costruzione a due piani sul davanti e una lussuosa dépendance più indietro, appena realizzata sopra il garage. Bagno a parte, la dépendance sul garage era un’unica, enorme sala giochi, con il letto di David a un’estremità, quello del fratello minore Chris dall’altra e un flipper, un divano, uno stereo e un televisore nel mezzo. La madre di David, in vista degli Inglesi, ci aveva aggiunto un letto a castello, un frigobar taglia cameretta da universitari e un forno a microonde: se per incoraggiare l’esilio totale dalla casa padronale o per scusarsene, nessuno si era preso la briga di domandarselo. All’inizio si era chiesta la disponibilità di otto famiglie ospitanti, ma poi ne erano bastate solo sei, perché quella di David avrebbe alloggiato due maschi e quella di Joelle due ragazze. Gli altri due maschi sarebbero andati a stare da William e da Colin, e le altre due ragazze da Karen Wurtzel e da Pammie. Julietta aveva ardentemente desiderato di ospitare qualcuno, ma per motivi mai chiariti il professor Kingsley aveva invece scelto Karen Wurtzel, e Julietta aveva ardentemente sorriso d’approvazione. C’erano anche due adulti, maschi entrambi, che sarebbero stati ospitati dallo stesso Kingsley e da Tim nella loro bellissima casa.
Quel settembre di tanto tempo prima, Sarah era ancora abbastanza integrata nel suo corso da ridere con tutti gli altri quando Kingsley aveva detto che gli Inglesi sarebbero arrivati durante le vacanze di primavera per abituarsi ai loro anfitrioni e domicili temporanei prima di «affrontare la CAPA, che – come dire? – rischia di mettere in soggezione i profani». Sarah era ancora abbastanza integrata nel suo corso da godere della spocchiosa consapevolezza che, pur con tutte le sue faide e i suoi settarismi, nell’insieme la loro scuola era una cricca, ostile agli estranei. Sarah era ancora abbastanza integrata nel suo corso da pregustare il piacere di compatire questi diligenti e inferiori Inglesi, di sorprenderli con la gentilezza e ottenerne la riconoscenza. Ma adesso Sarah era talmente estraniata dal suo corso che avrebbe potuto essere inglese anche lei. Era talmente estraniata dal suo corso che al termine delle vacanze di primavera, alla ripresa della scuola, lì per lì non si accorse che c’era stata una rivoluzione, perché si era persa tutti gli eventi che l’avevano prodotta: l’ospite di William, Simon, che aveva disertato l’imprevedibile austerità di casa di William in favore degli affidabili lussi della dépendance di David; l’ospite di Colin, Miles, che a mo’ di protesta per essere stato escluso dagli altri tre aveva seguito Simon, ed era stato seguito da Colin; i primi due ospiti di David, Julian e Rafe, che prendevano per il culo Colin a causa delle origini irlandesi in un modo che Colin scambiava per una medaglia d’onore; il fratello di David, Chris, che infine aveva disertato la dépendance in circostanze misteriose, lasciando Simon e Miles a litigare tutte le sere per chi si prendeva il suo letto e chi il divano, mentre Colin dormiva per terra senza lamentarsi.
Nel frattempo, con sorpresa di tutti, per le ragazze non era stata casa di Joelle bensì quella di Karen Wurtzel a diventare il quartier generale. L’ospite inglese di Karen, Lara, in men che non si dica aveva appreso e divulgato informazioni su Karen che quasi due anni di Esercizi di Fiducia non avevano portato alla luce: che Elli, la madre di Karen, al contrario della figlia era graziosa e gioviale, e stava alzata fino a tardi a bere wine cooler e a guardare la tv tra chiacchiere e risate, mentre Karen se ne stava sempre chiusa a chiave in camera sua e usciva solo per chiedere alla madre per cortesia di abbassare la voce. Joelle e le sue due ospiti, Theodosia e Lilly, che erano subito diventate culo e proverbiale camicia e passavano le tarde serate dopo le prove sulla Mazda di Joelle a fare qualunque tragitto salvo i tre quarti d’ora necessari per raggiungere la sua scomodissima casa, avevano cominciato a dormire da Karen; dopodiché, com’era successo ai maschi, pure la quarta ragazza inglese, Cora, ospite di Pammie, aveva protestato per l’esclusione ed era migrata a casa di Karen; e Pammie aveva tentato di seguirla ma aveva scoperto di non essere invitata.
Dopo questa riorganizzazione abitativa, che si risolse in meno di una settimana, la cricca s’irrobustì.
Il loro primo giorno alla CAPA, gli Inglesi si conquistarono subito una posizione di supremazia. Benché apparissero sotto molti aspetti fisicamente più giovani dei loro coetanei americani – i maschi, Simon, Miles, Julian e Rafe, snelli e delicati, con il viso e il petto ancora totalmente glabri; e le ragazze, Lara, Cora, Theodosia e Lilly, di una magrezza infantile, senza seno né fianchi – presi singolarmente, e ancora di più en masse, gli Inglesi sembravano più maturi: possedevano uno spirito più arguto, un sapere più vasto e alla fin fine quasi impenetrabile. Forse era questione di diversità culturale; forse era tutto un miraggio indotto dal loro accento, la cui pallida imitazione divenne una calamità diffusa tra gli allievi di Seconda. L’impressione di potenza che davano non pareva artefatta, ma inevitabile. Che David o William, Joelle o Sarah, o chiunque altro avesse pensato di poter far colpo sugli Inglesi sembrava ora talmente impensabile che era meglio dimenticarlo.
I due Inglesi adulti – Martin il professore/regista e Liam la stella della compagnia – fecero la loro prima apparizione dopo pranzo, perché essendo adulti e non studenti ospiti non seguivano le lezioni. Una volta che tutti furono riuniti nella Scatola Nera, Martin e Liam si sedettero sul palco con il professor Kingsley, come lui a cavalcioni sulla sedia con lo schienale davanti, mentre Theodosia, Lilly, Lara e Cora, Rafe, Julian, Simon e Miles si sistemarono anonimamente in tribuna con tutti gli altri studenti. Nell’affabile botta e risposta con Kingsley sulla Vita in Tournée, gli Alberghi Tutti Uguali e la Casa Dolce Casa, Martin e Liam sembravano tagliati della medesima aristocratica stoffa del loro insegnante. Erano capaci di ostentare la medesima aria rilassata: quel modo di comportarsi come se non fossero osservati, ma trasmettendo la serena consapevolezza di essere osservati da vicino. Martin, Liam e Kingsley, del tutto dimentichi dei loro allievi, seduti sulle sedie rivoltate a scambiarsi battute sul mestiere di teatranti, sembravano non una cricca, perché si sa che gli adulti non formano cricche, ma un altro tipo di insieme, forse meglio definito come circolo. Di questo circolo, Sarah percepiva l’esistenza appena sotto il livello del pensiero conscio, come senso di irrimediabile esclusione. Di questo circolo, David percepiva l’esistenza come sfida irritante a cui avrebbe voluto sottrarsi – ma in modo tale che il professor Kingsley, Martin e Liam ne risultassero turbati, e desiderosi di entrare nelle sue grazie. Per Joelle erano solo tre maschi, due dei quali non aveva ancora avuto modo di valutare. Liquidò velocemente Martin come troppo vecchio, relegandolo al medesimo mucchio inerte su cui giaceva, in quanto gay, il professor Kingsley. Liam, al contrario, come fascia d’età ci stava dentro. Con occhio clinico, Joelle gli misurò il sangue: temperatura alta, ritmo svelto. L’energia gli zigzagava dentro imprevedibile, come la corrente in una lampada con i cavi mal collegati. Aveva un paio d’occhi azzurro ghiaccio assolutamente unici, da racconto di fiabe, che però a Joelle trasmettevano una specie di sommessa disperazione. Ecco un bel ragazzo che non sarebbe mai stato sexy: a causa di quale carenza o barriera, Joelle non era interessata a scoprirlo. Dopo aver liquidato anche lui tornò a scambiarsi bigliettini con Theodosia e Lilly a proposito della bustina di coca, nascosta nella sua pochette per il trucco, che avrebbero condiviso a pranzo.
Liam era stato allievo di Martin qualche anno prima, e Martin aveva messo in scena Candido apposta per lui, cosa che i suoi attuali allievi sembravano accettare senza alcun risentimento. Liam aveva ventiquattro anni, aveva finito le superiori da sei; quanti ne avesse Martin, nessuno lo sapeva per certo. Sarah non avrebbe appreso la storia di Liam, età compresa, fino al momento in cui gliel’avrebbe raccontata lui stesso, più avanti in quel Mese degli Inglesi. Dall’arrivo degli Inglesi la preside Laytner era stata insolitamente visibile, giacché la loro presenza faceva gioco a certe sue idee ambiziose sul futuro della scuola: il teatro da svariati milioni di dollari, con i sessanta metri di torre scenica, i quattrocento posti di velluto rosso e il mixer luci da ventiquattromila dollari, avrebbe ospitato compagnie di danza, orchestre e qualunque altro tipo di spettacolo andasse in scena nelle metropoli all’avanguardia come Los Angeles e New York. Per quanto il Candido di Bournemouth segnasse il debutto americano del suo regista e dei suoi precoci giovani attori, la sua vera importanza stava nel debutto della CAPA come palcoscenico centrale per la città che la ospitava. Una prima rappresentazione del Candido durante il normale orario delle lezioni sarebbe stata riservata a studenti e docenti della scuola, ma solo per evitare che questi ultimi occupassero posti nei due fine settimana di repliche aperte al pubblico, andate tutte già esaurite dopo un servizio pieno di fotografie sul quotidiano cittadino, altra testimonianza degli sforzi della preside Laytner.
Il giorno della prima rappresentazione, l’«anteprima esclusiva» per la CAPA, gli Inglesi sono quasi a metà del loro soggiorno. Sembrano sia familiari sia forestieri, come se ci fossero sempre stati e come se fossero appena arrivati. Familiari sono le facce e le voci, le pose e le andature – qualunque studente della CAPA è in grado di riconoscere uno qualunque degli Inglesi nell’oceano di teste dell’atrio, o all’altro capo del parcheggio mentre s’infila nella Mazda di Joelle o salta dentro la Mustang cabrio di David. Forestiero è quasi tutto il resto. Se quelli di Seconda conoscono bene le rispettive vite private, che il professor Kingsley li ha costretti a scucire come quote di una colletta, dei loro coetanei inglesi hanno appreso così poco da non rendersi nemmeno conto di quanto poco sanno. Non sanno se Rafe abita in un villone o in una squallida casa popolare, se Cora sia una vergine esperta o una libertina discreta. Non riescono a decifrare il codice insito nei loro abiti, se poi un codice esiste, né nei loro accenti, che sembrano tutti uguali. Non sanno che ruolo interpreti nel Candido ciascuno degli Inglesi, a parte Liam, né che ruoli preveda la pièce, e neppure a cosa si riferisca il titolo, se Candido sia una persona o una cosa. Presi come sono dalla Storia del Costume, dal Monologo Shakespeariano e dalla Canzone Popolare Americana di questo quadrimestre, nessuno di loro ha letto il Candido. Possono addirittura pensare che il titolo rechi un punto esclamativo. Non hanno mai visto una prova, perché va da sé che gli Inglesi non hanno bisogno di provare; e non hanno mai visto set, arredi scenici né costumi perché non esistono. Gli Inglesi viaggiano leggeri.
Sarah siede da sola nella sala piena, nascosta fra gli strumentisti. Vive ora un doppio esilio dalla sezione di Teatro, persona non grata anche tra quelli di Terza. Non si sa come, il segreto vecchio di un anno della sua unica notte con Brett è diventato di pubblico dominio. Non avevano neanche scopato; nella memoria Sarah rivede il corpo stretto e glabro di Brett e il suo flaccido pene imbarazzato, pallido e freddo al tatto. Ma questi particolari non attenuano minimamente il delitto commesso, proprio come l’isolamento autoimposto, la freddezza nei confronti delle fedelissime Julietta e Pammie, gli abiti funerei, il tetro sipario dei capelli e l’eterna scia di fumo di sigaretta non l’hanno minimamente preparata al ruolo dell’esclusa; arde di fresca mortificazione e non riesce a vedere oltre quella cortina di fiamme, come chi brucia su un rogo.
Le luci in sala si spengono. Greg Veltin ha un elenco di ingressi luci che gli ha consegnato Martin. Essendo il datore luci l’unico tecnico necessario al Candido, Greg Veltin è l’unico alla CAPA, ma a dire il vero in tutti gli Stati Uniti, che abbia visto una prova, perché in effetti delle prove ci sono state. E adesso non vede l’ora di assistere allo spettacolo. Per i suoi specifici paradossi, di personalità e personaggio, di status sociale ed esperienza storica, Greg Veltin è forse l’unico in condizione di non vederne l’ora.
Greg Veltin parte col primo ingresso ed ecco entrare in scena Liam, in camicione bianco e brache al ginocchio genericamente antiquate. A parte questo, la scena è completamente spoglia. Alla CAPA servono sempre scenari, arredi e costumi elaborati per tenere occupati gli studenti che non calcheranno mai il palco – o che l’hanno fatto in passato ma non lo faranno più. Per esempio Greg Veltin, un tempo prossimo Fred Astaire e oggi anonimo datore luci. Greg Veltin apprezza la brutale essenzialità di questa produzione inglese. A parte l’elenco di ingressi luci in mano sua, l’allestimento consiste solo dell’attore che interpreta il protagonista e di otto altri attori che incarnano, variamente, gli altri esseri umani, un paio di animali e alcuni pezzi di mobilio, ruoli che non sono proprio interpretati bensì denotati, con una sconcertante noncuranza che Greg capisce non essere davvero noncurante. L’ha visto ripetere con precisione impeccabile, il gesto buttato là di nuovo, con l’identica forza e all’identica distanza, mille volte, mantenendo una vaghezza tale che non si capisce mai per certo se il gesto stesso denoti un oggetto, un’azione o perfino lo scenario, come per esempio quando gli attori si mettono carponi, cosa che fanno spesso, per fingere di essere tavoli, o pecore, o montagne sudamericane, o qualcos’altro ancora.
Una volta salito sul palco Liam, la concentrazione di Greg sui propri ingressi divenne completa; purtroppo per lui, temendo di sbagliare qualcosa non riuscì a dedicare un minimo d’attenzione alle reazioni del pubblico. Pozze di luce fiorivano e svanivano a indicare cambi di scena che altrimenti non si sarebbero notati – malgrado, o forse a causa, dell’incessante e stentorea narrazione. «C’ERA UNA VOLTA UN BARONE CHE VIVEVA IN UN BEL CASTELLO», urlò Cora, mentre gli altri, le ragazze vestite come lei in gonne a volant lunghe al ginocchio e camicette attillate, i maschi vestiti come Liam in camicioni e brache attillate, entravano in scena alla carica per rappresentare un castello, un barone, begli arredi, servitori e molti bistrattamenti di servitori, e intanto Liam, nelle vesti di Candido, vagava per quel frenetico paesaggio di eventi in una tale nebbia di carismatica idiozia che Greg non riusciva a decidere se sul palco Liam non stesse facendo assolutamente nulla o se fosse un genio. Sarah, sola nella sua fila di musicisti, vide l’impassibile Miles mettersi a braccia spalancate, a indicare che era un muretto, oltre il quale Theodosia, in punta di piedi, mimava di sbirciare. Dietro il «muretto» c’erano Lilly e Rafe, Lilly supina con le gambe divaricate, Rafe a quattro zampe che ci dava dentro con forza. «UH!», strillava Lilly di gusto. «UH! UH! UH!»
«UN GIORNO», urlò altrettanto forte Simon, raccolto il testimone di narratore da Cora, «MENTRE PASSEGGIAVA IN GIARDINO, ELLA SPIÒ IL DOTTOR PANGLOSS CHE DAVA UNA LEZIONE DI SCIENZE ALLA CAMERIERA. E PENSÒ CHE LEI E CANDIDO UGUALMENTE DOVEVANO STUDIARE LE SCIENZE!» Con un gesto deciso Theodosia si alzò la gonna fino alla vita e zompò addosso a Liam, la cui aria da idiota diventò ancora più idiota, al punto da far concludere a Greg Veltin che stava per forza recitando, benché con una sottigliezza unica in confronto al resto del cast. Sarah vide, senza vedere, la spinta dei lombi, udì senza udire i gemiti e i gridolini. Nulla in quella pantomima le pareva sessuato; la guardava come avrebbe guardato un animale o un bambino, organismi al di sotto del suo interesse. Ma in sala, come un vento incostante sull’acqua, si era diffusa una vibrazione indistinta che era al tempo stesso risolino e mormorio. La preside Laytner, fin lì seduta in prima fila con il professor Kingsley, si alzò e imboccò a grandi passi il corridoio. Le porte in fondo al teatro sbatterono nella sua scia.
Lo spettacolo era stato accorciato, o era semplicemente corto di suo? Ma anche in quella vertiginosa celerità – gli Inglesi recitarono il Candido a rotta di collo, come nel giustificato timore che dei grossi ganci potessero strapparli via di scena – gli spettatori riuscirono comunque a percepire certe finezze. Era la loro prima esperienza di double entendre, e cominciavano a capirlo, il gioco dello sfasamento tra parole e azioni; riuscivano a coglierlo appena in tempo. C’era anche un altro sfasamento, quello fra le azioni degli attori e le loro facce gaie, per non dire ebeti: sorridendo come citrulli gli Inglesi – Rafe, Julian, Simon e Miles, Lara, Cora, Lilly e Theodosia e, naturalmente, Liam – mimavano con grande energia di ammazzarsi a vicenda e farsi ammazzare a vicenda, mediante ghigliottina, arma da fuoco, pira, daga e cappio; mimavano morti naturali per annegamento e malattie veneree; mimavano stupri inflitti e stupri subiti e scopate consensuali; e soprattutto, pareva, casi di inculate sia forzate sia tra consenzienti. Tra il pubblico, il vago risolino e mormorio e il totale sconcerto lasciarono il passo a sporadici focolai di vere, spavalde risate che minacciavano di incendiare tutta la sala, per poi rovesciarsi e riaffiorare stranamente sotto forma di vergogna. La cosa faceva molto ridere e poi senza preavviso non faceva più ridere neanche un po’, diventava assai imbarazzante, e con la stessa rapidità quello faceva ridere, quella ridicola serietà – oppure no? Eri uno stronzo, se ti faceva ridere? E perché ti era venuta in mente la parola «stronzo»? Oddio che ridere! – o forse no.
Greg Veltin eseguì il suo ultimo ingresso luci e poi rivolse l’attenzione al professor Kingsley, ancora in prima fila a mostrare la nuca impassibile al resto della sala. Con sua grande delusione, dalla nuca di Jim, o meglio del professor Kingsley, Greg non riuscì a trarre alcun indizio sullo stato della sua faccia. E non sapeva neanche più bene che cosa avesse previsto, o forse sperato. La recita era finita – sarebbero tornati a prendersi gli applausi? Non avendo cominciato alzando il sipario, non potevano finire calandolo, perciò si erano limitati a uscire di scena. Come per tutta la sua durata, una volta liberati dallo spettacolo gli astanti non riuscirono a raggiungere un consenso su come reagire. Alcuni si precipitarono come bufali verso le porte; altri rimasero dov’erano, come legati alla poltrona. Ma anche quelli paralizzati, come Pammie, parevano lacerati da impulsi contrastanti, nel caso di Pammie l’immobilità passiva dello choc e l’immobilità attiva della collera. La sua compagna di poltrona, Julietta, non si trattenne per scoprirlo; per Julietta, peggio di dover vedere quello spettacolo c’era solo doverne parlare.
«Ehilà!», squillò una voce inglese, in tono sarcastico e insieme sincero. Bisognava presupporre l’intento amichevole? O lo scherno?
Sarah alzò gli occhi dalle scarpe. Era seduta sul cofano della vetusta Corolla di sua madre, in un angolo del parcheggio sul davanti. Aveva posteggiato lì per evitare di farsi vedere da chicchessia, e finora c’era riuscita. Ci sarebbe riuscita anche nel parcheggio di dietro, che era insolitamente vuoto, dato che la giornata scolastica era finita. Quelli di Seconda non avevano prove, anzi praticamente più nulla da fare, fino alla fine del mese. Mese nel quale, in teoria, anziché esibirsi avrebbero dovuto imparare il ruolo di promotori: pubblicizzare l’evento e stampare programmi, accompagnare gli spettatori a posto, calcolare l’incasso al botteghino. Ma il Candido era stato annullato.
Né Martin, che aveva trillato l’«ehilà!», né Liam, che sedeva al posto del passeggero sull’auto guidata da Martin, sembravano dispiaciuti. Martin era l’autore dell’adattamento teatrale del Candido, oltre che il regista. Liam ne era non solo la stella, ma la stella per cui Martin aveva scelto il Candido. Erano lontani da casa, in una metropoli dove nel mese di aprile faceva già più caldo di quanto potesse mai fare nella loro città natale nelle peggiori giornate d’agosto; si erano portati dietro, a sentirne le perenni lamentazioni, troppi «golfini» e «scarpe da ginnastica» e non abbastanza T-shirt e sandali, quale che fosse il termine infantile con cui li designavano; e vivevano in abitazioni private da ospiti, in certi casi sempre meno graditi. Martin e Liam erano arrabbiati, o imbarazzati, o magari contenti, di ritrovarsi con le mani in mano quando si erano aspettati di presentare sei repliche nell’arco di dieci giorni? Impossibile a dirsi, come Sarah ben sapeva, perché non possiamo leggere nel pensiero altrui ma solo reagire con onestà nel momento.
«Ciao», dice cauta. Qui c’è parecchio che la lascia confusa. Con Martin e Liam non ha mai scambiato una parola, malgrado tutte le ore trascorse a scuola in loro presenza. Non ha mai visto nessuno dei due a bordo di un’auto senza il professor Kingsley, loro padrone di casa, al volante. Avendo, infine, appena preso la patente – un traguardo enorme, pari solo alla vastità del senso di delusione per il sollievo che ha mancato di procurarle – Sarah è ultra-consapevole di tutte le occasioni in cui un corpo si congiunge a un volante. Si chiede se Martin possa guidare in questo paese. Non sa perché, ma ne dubita. E l’auto che sta guidando non è la Mercedes di Kingsley: è una macchina da ragazzetti, un’utilitaria stilosa proprio del modello a cui lei anela disperatamente, un Maggiolino cabrio, a metà di un profondo restauro dermatologico. La carrozzeria è pesantemente impiastrata di quello che Sarah presume essere un medicamento antiruggine. In questo anno dei loro sedicesimi compleanni le automobili, o l’assenza di automobili, sono gli unici blasoni significativi. Sarah sa che conosce la macchina ma non riesce a collocarla, perché è comparsa nel parcheggio solo da poco, più o meno nello stesso periodo della malconcia Corolla di sua madre, che Sarah spera non sia associata a lei nella mente dei coetanei nonostante la dura lotta sostenuta per il diritto di guidarla. La cosa essenziale è non farsi accompagnare a scuola da mamma. Sarah è autorizzata ad andare in macchina dal posto di lavoro di sua madre a scuola, e da scuola al posto di lavoro di sua madre; per questo si trova ancora nel parcheggio della CAPA, benché non ci siano prove. Sua madre lavora fino alle diciotto.
«Ti fa di vare un giro sul nostro cocchio?», prosegue Martin, con Liam che sorride incoraggiante. Quella è la macchina di Karen Wurtzel, ecco l’illuminazione. Il padre le sta dando una mano a rimetterla in sesto. Non si sa come, nel proprio taciturno distacco Karen ha trasformato i difetti dell’auto in un valore aggiunto, nella prova che davvero s’intende di macchine.
«Devo andare a prendere mia madre al lavoro», dice Sarah, talmente sorpresa dall’invito che non le viene in mente di dire una balla.
«Dove lavora? Lontano?»
«È impiegata all’università».
«Magari ci siamo stati, ormai abbiamo visto tutte le attrazioni, è quella più giù dopo le fontane? Facciamo così, ti veniamo dietro, tu lasci la macchina a tua mamma e poi vieni con noi e andiamo a cena insieme».
Detta così da lui è davvero semplice – proprio come guidare: una cosa che cambia forma e diventa un’altra, per esempio la sua veglia solitaria nel parcheggio eclissata in un attimo da Martin e Liam che fanno smorfie ridicole sapendo che lei li vede, nel piccolo specchietto retrovisore e nell’ulteriore cornice del parabrezza pieno di insetti spiaccicati di Karen Wurtzel. E giù per Fountain Boulevard li conduce, sotto i rami abbracciati delle querce virginiane, sotto l’occhio di bue del sole pomeridiano che soffonde la Corolla di uno splendore alieno.
Sarah sa bene che la sua speranzosa euforia nasce da una sospensione temporanea del suo esilio, del suo status che non è proprio quello di una zoccola ma di una sporca reietta che perfino Norbert scansa. Non si concede di svelare a sé stessa questa speranza, che equivale a una meschina gratitudine verso Martin e Liam per averla notata, così come non la svelerebbe mai a loro, e figuriamoci a sua madre, alla quale nasconde ogni cosa con tanta perizia che la madre non sa nemmeno che a scuola ci sono degli Inglesi in visita, disposti a risollevare magicamente Sarah dal suo stato di disgrazia. Prima che ci cadessero gli Inglesi, nella disgrazia che così poco pare impensierirli, gli studenti di Seconda alla CAPA erano costantemente spronati dal professor Kingsley e dalla preside Laytner a vendere biglietti per il Candido a familiari e amici; ma Sarah non lo aveva venduto, un biglietto alla madre. Il futuro dei suoi studi alla CAPA dipende in larghissima parte dal fatto che sua madre riesca a dimenticarsi dell’esistenza della scuola.
«Sei in anticipo», le dice la madre, non senza un certo piacere. «Hai voglia di usare la macchina da scrivere di Petra? Lei è andata a casa».
Nel nebuloso passato delle scuole medie, Sarah trascorreva gran parte dei pomeriggi con la mamma, nel suo ufficetto, lei pure con un certo piacere. La mamma pranzava tardi, alle due e mezza, e sfruttava la pausa per andare a prendere Sarah a scuola e portarla con sé al campus. Lì Sarah aveva goduto di una libertà che non le era mai stata concessa altrove. Aveva percorso in lungo e in largo l’università con i suoi vastissimi prati di sanguinella, le celebri piante secolari, i larghi vialetti di brecciolino, i fabbricati moreschi frequentemente fotografati, gli studenti con gli zainetti in spalla che correvano qua e là e a cui Sarah fingeva di mescolarsi. Era nella libreria del campus che aveva comprato il tascabile di Tropico del Cancro che ancora non era riuscita a leggere; era nella mensa che andava a sedersi da sola, con una Dr. Pepper, a fingere di leggerlo, dando a vedere che la solitudine fosse una condizione che aveva scelto, e talvolta provando un fiero e autentico orgoglio nell’essere sola. Ma perlopiù finiva col tornare, nella calura soverchiante del tardo pomeriggio, ad ammazzare il tempo nell’ufficio di mamma, a stravaccarsi sulla sedia in più di mamma, a godersi senza imbarazzi le attenzioni delle colleghe di mamma, a riordinare la collezione di tazze spiritose di mamma, che erano tutte regali di Sarah per passate Feste della Mamma. Aveva trascorso così agevolmente quei pomeriggi con la mamma che finora non ci ha più ripensato, e adesso le sono intimamente estranei come il paesaggio di oggetti sulla scrivania dell’ufficio.
«No, grazie, tranquilla», dice Sarah prendendo in mano la sua foto che le piace di più, quella della seconda media. Sembra molto più grande della sua età, è truccata il giusto, sorride con una sicurezza irriconoscibile. Non c’è il puttanesco eccesso di eyeliner né il disperato eccesso di sguardo all’obiettivo che ha macchiato le sue ultime tre foto scolastiche, malgrado le attente contromisure prese per evitarlo. Proprio non riconosce la graziosissima e felicissima tredicenne della foto, forse perché per lei la foto è diventata un simbolo. Le piacerebbe avere una scusa per farla vedere a Martin e Liam. «Dopo scuola ho incontrato Karen Wurtzel, e mi ha invitato a dormire da lei»: l’efficacia della bugia è sempre direttamente proporzionale alla mancanza di premeditazione. La doppiezza, ma lei preferirebbe chiamarla invenzione narrativa, è l’unico ambito in cui si sente ispirata, l’unico fondamento alla sua erronea convinzione di saper recitare.
«E chi è Karen Wurtzel?»
«Lo sai, abita a Southwoods».
«No che non lo so».
«È in classe con me. Mi è venuta dietro fin qui così potevo lasciarti la macchina». Non c’è bisogno di accennare al fatto che in questo fabbricato non c’è un parcheggio per i visitatori, motivo per cui Karen non è qui con lei; a dire così Sarah ci aveva pensato salendo, ma questo significa che è un particolare di troppo e che quindi è meglio tacere. Sua madre si è scelta già da tempo le proprie battaglie, e adesso tra loro c’è un patto quasi coniugale di tacita autorizzazione in cambio di apparenze ineccepibili. Sarah è tenuta a prendere bei voti, nonché a evitare dipendenze, arresti e gravidanze indesiderate.
«Domattina ti porta a scuola lei?», chiede conferma sua madre a mo’ di saluto, tornando a fare quel che stava facendo. Sarah avverte una fitta; mamma era stata contenta di vederla. Fossero diverse, come madre e figlia, farebbe il giro della scrivania e le darebbe un bacio sulla guancia cascante, ma già in passato, quando il loro era un mondo condiviso, si toccavano molto di rado.
Sarah torna giù in ascensore e trova Martin e Liam che fanno i cretini nell’atrio, nonostante l’assenza di un parcheggio visitatori; al di là delle porte vetrate si vede l’auto di Karen Wurtzel parcheggiata nella corsia riservata ai mezzi di soccorso. «Stavamo per mandare i cani», dice Martin, e quando Sarah risponde che meno male non l’hanno fatto, di certo sembra allarmata perché i due scoppiano a ridere.
«Ti abbiamo fatto prendere uno spavento?», chiede Liam speranzoso.
Il sedile dietro della macchina di Karen Wurtzel quasi non è un sedile, e per entrarci Sarah deve mettersi di traverso. «E adesso via, a prendere Karen», dice Martin. «Tosto Corriamo, Bravi Yakuza».
«Tanto Covavi, Bavoso Yak».
«Tre Corpulente Ballerine Yemenite».
«Torbidi Cuochi Bollono Yankee».
«Hai un futuro da titolista, Liam. Ti Concedo un Benevolo Yeah, ma Temo Compaia il Bellissimo Yanni».
«Chi è questo Yonni?»
«Con la a, non la o. Tipetto greco, chioma fluente, suona le tastiere, canta».
«Uh, ti sei preso una cotta?»
«Ebbene sì, gioiellino, mi ricorda te: specie la barba malfatta. La cara vecchia Lillian non ti ha insegnato a usare il rasoio, incorreggibile figlio di madre soffocante?»
«Per cortesia astieniti dal nominare quella santa della mia mamma».
«Ma se sopporto te solo per conquistare lei».
«Uh, allora diventerai il mio papà?» Liam si rannicchia goffamente sullo stretto sedile anteriore, allungando a Martin zampatine da micetto spastico. «E mi cambierai i pannolini? Uèèè! Uèèè!»
«Perché, non lo faccio già?»
«Insomma, Martin», lo ammonisce Liam smettendo di fare il micio. «Sto provando a far colpo sulla ragazza, mi spiego?»
L’arguto botta e risposta rimbalza da un lato all’altro del cambio a un volume da piccionaia, mentre Martin governa la macchinetta come se avesse tutte le patenti del mondo, oppure neanche una. Non occorre che Sarah risponda in alcun modo all’ultimo commento di Liam. Se lui non l’avesse fatto, si sarebbe convinta che i due l’avevano dimenticata. Ma per come stanno le cose, non può dirsi certa di essere lei, la ragazza su cui cerca di fare colpo. Forse «la ragazza» è Karen. Sull’auto che corre veloce la forza del vento la isola sul sedile dietro, col tornado dei capelli che alterna fra l’accecarla e l’imbavagliarla: nascosta da questi attacchi furibondi ha tutto l’agio di contemplare Liam, che sfoggia i lineamenti cesellati di un idolo e due occhi di un azzurro e una luminosità talmente inverosimili da far sospettare che sotto l’epidermide celi qualcosa di losco, un assetto artificiale o improvvisato. Essendo stata allontanata da Joelle – da Joelle, che lei aveva tentato di allontanare – Sarah non ne conosce il giudizio su Liam, e se fosse venuta a saperlo lo avrebbe senz’altro contraddetto. Eppure giunge più o meno alla stessa conclusione: Liam è alla sua portata, benché lei non se lo dica allo stesso modo. Però l’impressione di una carenza inspiegabile, di un bizzarro iato fra doni esteriori – alto, bello, flessuoso, occhi splendenti, sorriso abbagliante, la frangia che sfiora le ciglia di quel giusto, e si potrebbe continuare – e integrità interiore, questa ce l’ha anche Sarah. S’immagina che una creaturina timida, una qualche nuda e spaventata cosa non umana, abbia indossato il corpo di Liam come un abito, e ora debba mantenersi vigile, osservare gli umani che la circondano per capire come muoversi, in modo da non farsi scoprire. E chi osservava, Liam? Martin.
Sarah dovette scacciare a forza dalla mente la visione della creatura vestita con il corpo di Liam. Lui era di una bellezza eccezionale. Lei ripeteva questo concetto tra sé come fosse una lezione.
Martin diede un colpo di sterzo e da uno scivolo del marciapiede la macchina di Karen Wurtzel si tuffò bruscamente dentro un piccolo parcheggio. Breve fila di negozi, una manciata di attività, il totem da centro commerciale che segnalava un takeaway cinese, uno spedizioniere e un TCBY, sigla che stava per The Country’s Best Yogurt o forse per This Can’t Be Yogurt,2 Sarah non ricordava bene. Karen Wurtzel stava davanti al TCBY, in jeans e polo verde prato; aveva il logo di TCBY ricamato sopra il seno sinistro e una vaschetta rotonda di plastica bianca in mano, grande all’incirca come un secchiello medio di popcorn. Martin frenò un centimetro prima di investirla e fece un gran svolazzo con il braccio: «Tuoi Come Baldi Yeti!»
«Troppo Comodo, Borioso Yeats», protestò Liam.
«Tu Credi, Balordo Yoghi?», ribatté Martin.
Sarah vide una serie di tempeste scatenarsi e sparire sul viso di Karen prima che i due si distogliessero dai loro giochi di parole. «Ciao», le disse ruvida Karen senza guardarla, mentre Martin e Liam scendevano dall’auto e il primo le porgeva le chiavi con un inchino. Lei gli passò la vaschetta, e Martin scostò il coperchio e ci sbirciò dentro. «Questo non può essere yogurt», disse.
Con Karen alla guida, Martin prese il posto di Liam davanti e Liam s’infilò dietro con Sarah. «Com’è l’acqua?», le chiese. In quello spazio ristretto le loro ginocchia furono costrette a urtarsi, e Liam si chinò a studiarne la saldatura. «Parlano di noi», riferì quindi a Sarah, che dovette avvicinare la testa alla sua per sentirlo.
«Che dicono?»
«Non lo so, il ginocchiese non lo parlo».
«Come fai a sapere che non stanno solo facendo dei versi per prenderti in giro?»
«Come fanno i cani? “Bau, bau, bau”, come se stessero dicendo qualcosa? Mi sa che ci trovano parecchio tonti, i cani».
«Io comunque non le sento parlare, queste ginocchia».
«Stanno su una frequenza più alta, tipo i fischietti per cani. Forse i cani parlano con le ginocchia. Però non hanno le ginocchia, giusto? O le hanno? Guarda, Martin! Chi sono?» Liam si mise carponi sul minuscolo sedile e lasciò penzolare stupidamente la lingua di fuori mentre il vento gli spazzava i capelli dalla faccia. «Arf, arf!», abbaiò in aria. Sarah si ritrovò con le punte ribaltate delle sue scarpe affondate nella coscia; un paio di logore e scalcagnate scarpe nere con le stringhe, di cuoio scadente o finto, che però lui portava con l’indifferenza di un ragazzino che si fa ancora comprare i vestiti dalla mamma. Si era del tutto consacrato al ruolo di cane euforico di piacere e latrava, sbavava e dava musate alla spalla di Martin aggirando meglio che poteva l’ostacolo dello schienale dietro cui, voltato in modo da poterlo guardare, Martin si riparava menando al tempo stesso colpi al muso «canino» di Liam con una rivista arrotolata che aveva tirato fuori dalla cartella.
«Cattivo! Cattivo!», strillava Martin mentre Karen guidava senza emettere fiato e Sarah, seduta dietro di lei, tentava di guardarla nello specchietto, riuscendo però a vedere solo sé stessa. Schifata dall’aria cupa che aveva, si sforzò di ridere con un vigore da matta alle pagliacciate di Martin e Liam.
Karen parcheggiò da Mama’s Big Boy e i quattro sfilarono all’interno, prima Karen, senza guardare né parlare con nessuno, poi Martin e Liam tra spintoni e pacche sul sedere, e infine Sarah, che sotto il profluvio di smorfie dei due buffoni aveva la sensazione di fargli da specchio, ridendo di un riso che non era il suo anche se, si disse, lo sarebbe diventato. Non aveva intenzione di riprodurre l’offesa alterigia di Karen, la linea tirata della sua bocca.
«Tavolo per quattro», disse Karen all’addetta che li accolse con una giravolta.
«Da questa parte!», strillò quest’ultima. «Vi servono i seggioloni, gioia? O un paio di rialzi?»
«Io lo voglio il rialzo, lo vooogliooo!», disse Liam.
Karen si infilò nel séparé per prima. Come se dovesse segnare un punto, Martin le s’infilò subito accanto, mandandola a sbattere contro il muro. «Oh, mi scusi tanto!», esclamò. «È ferita? Dobbiamo prenderle il polso – faccio piano. Fredda come una morta. C’è un medico in sala? O magari una nutrizionista diplomata? Liam, accendi un fuoco coi tovagliolini, mi sa che a Karen si è fermato il cuore...»
«Mollami», disse Karen ridendo, perché nemmeno lei era riuscita a resistere all’appassionata carica di Martin – ma nel suo caso era diverso, rispetto a quando Sarah aveva replicato l’ilarità dei due. Sarah sapeva che stava simulando, mentre Karen aveva in qualche modo ritrovato il suo posto. Non le importava più che ci fosse anche Sarah.
Sarah finì seduta di fronte a lei, perciò Liam, vicino a Sarah, era di fronte a Martin, assorbito dal suo ruolo di spalla, complice e giullare. «Lo sai che Liam aveva una paura mortale del palcoscenico?», diceva intanto Martin a Karen. «Lo sai che dovevo dirgli di portarsi le mutande di ricambio, le sere che recitava?»
«Gli piaceva guardarmi mentre mi travestivo», disse Liam.
«A scanso di incidenti».
«Cioè, tipo la volta che ti sei chiuso il pisello nella lampo, Martin? Non temere, Karen, gli ha causato solo una piccola deformità».
«Te la do io, la deformità!»
Né Sarah né Karen avrebbero potuto competere, e neppure vi erano chiamate. Ma Karen aveva unicamente il compito di tenere l’attenzione su Martin. Le aveva assegnato lui quel ruolo, come aveva assegnato a Liam i suoi vari ruoli, e a Sarah la parte di una specie di muto arredo scenico attraverso cui Martin poteva dare a Liam la sporadica lavata di capo. «La povera Sarah muore di noia!», disse infatti. «Si chiederà perché mai è uscita con noi anziché darsi alle pazze gioie che aveva programmato».
«Dovevo solo andare a prendere mamma», azzardò lei.
«Quindi è attaccata alla mamma, Liam, proprio come te, eppure sono io che devo trovare questi punti in comune. Com’è che non provate a conoscervi meglio? Devo fare tutto io, qui?»
La spiritosaggine, reale o presunta che fosse; un’agilità d’insulti e misteriose allusioni; il rapido ribaltamento di prospettiva, l’arroganza della risposta a sproposito, la reazione esagerata per far ridere. Sarah aveva sempre creduto di possedere le medesime abilità. Non era forse stata un’intima della pausa pranzo del professor Kingsley? Ma il virtuosismo verbale di Martin – o forse la sua irriducibile capacità di dominare i contesti conviviali – la schiacciava completamente: in sua presenza diventava muta, se non addirittura stupida. Tentò di appropriarsi della passività con cui Karen assisteva allo spettacolo, che almeno per il momento appariva più dignitosa della sua incertezza, ma il rifiuto di Karen di guardarla negli occhi, di riconoscerne la presenza, di ammettere in qualunque modo il loro cameratismo, sembrava negarle anche i modi che Karen teneva con Martin e Liam. Da quando era entrata alla CAPA, Sarah aveva spesso avuto il classico incubo di essere sul punto di andare in scena senza ricordare le sue battute, né il suo ruolo, e nemmeno qual era la pièce: in questa situazione non c’era il terrore assoluto di quei sogni, ma l’effetto era ugualmente paralizzante.
Per quanto, anche lei parlò, rise, mangiò mezzo club sandwich e addirittura flirtò con Liam – o almeno, se si fosse vista da un tavolo vicino avrebbe dato l’impressione di fare tutte queste cose. Erano arrivati da Big Boy intorno alle cinque, e adesso erano quasi le sette. «Perbacco, noi dobbiamo fare la spesa», disse Martin. «Forza, forza. Che hai detto in giro, Liam? Otto, o sette e mezza?»
«Non lo so», rispose Liam. «Mi sa che ho detto solo dopo le sette».
«Sei proprio un imbecille totale, o forse sei un sognatore, un bellissimo sognatore, e noi siamo solo il tuo bellissimo sogno».
«E allora perché tu somigli così tanto al mio peggior incubo?»
«A proposito di incubi», azzardò Sarah, «ti capita mai quello in cui stai andando in scena ma lo spettacolo non l’hai mai provato, e non sai neanche come si chiama?» Aveva fatto la cosa che disprezzava di più, tentare di imitare il loro accento. Nel radunare le forze per proferire parola, non era neanche riuscita a usare la propria voce.
«Sì!», gridò comunque Liam, come se avesse trovato la risposta a un quiz dal montepremi altissimo. «Continuamente, cazzo! È quello, il mio peggior incubo!»
«Altro notevole punto in comune. Brava, Sarah, lo stai facendo aprire. Secondo me voi due dovreste comprare la roba da bere, e io e Karen penseremo al mangiare, ma non metteteci tutta la sera. Siamo già in ritardo, e grazie alla notevole imbecillità di Liam non sappiamo neanche se siamo in ritardo sulle sette e mezza o sulle otto».
«Dove ci si vede?», chiese Sarah quando si ritrovarono soli a fendere il bagliore artico del supermercato, con il carrello cigolante a precederli come se fossero una giovane coppia che spingeva un passeggino. Separato da Martin, Liam si era fatto silenzioso e intensamente attento a lei, nonché proporzionalmente bello; la guardava spingere il carrello come stregato. Per un istante, udita la domanda, parve studiarne le parole nel piatto della propria mente, come incerto su come consumarle.
«Da noi», le rispose.
«Cioè... da Kingsley?»
«Sì. Da Jim. E da Tim. Non scordiamoci di Tim. Tim e Jim, Jim e Tim. Secondo te si sono piaciuti perché hanno i nomi che rimano? Portano pure la stessa taglia di pantaloni». Liam fece una risatina, mostrando la dentatura compromessa; se solo avesse tenuto la bocca chiusa.
«Non sapevo che dessero una festa».
«Questa birra ti piace? Dai, prendiamone un... boh, un cassone? Martin adora queste americanate...»
Solo allora Sarah si rese conto che stavano comprando alcolici. «Ce l’hai un documento? Che dimostri che hai più di diciott’anni?»
«Secondo te mi chiederanno di dimostrare che ho più di diciott’anni?» Liam rise di nuovo, forse al pensiero di essere preso per un minorenne; eppure era andato lì, con la compagnia di Martin, nei panni di una specie di liceale onorario. Non pensava di somigliare a un liceale? Ma infatti non ci somigliava, si rese conto Sarah. Sotto le luci impietose del minimarket la pelle era un filo usurata, gli angoli degli occhi un filo grinzosi. O forse non erano i neon al soffitto, era l’assenza di Martin come termine di confronto a rendere bruscamente visibile l’età di Liam. In ogni caso, proseguì lui come se le avesse letto nel pensiero: «Non importa. Tanto paga Martin, e a lui non c’è verso che lo prendano per un ragazzino».
«Quanti anni ha?» Ovviamente Sarah sapeva che era più grande – l’imprecisata maggiore età degli insegnanti – ma di quanto, non era mai riuscita a farsi un’idea. Non riusciva a confrontarlo, da quel punto di vista, con gli altri adulti che conosceva.
«Quanti anni ha Martin? Oh cazzo, quaranta, no? Quel vecchio segaiolo». Detto con grande affetto. Per dissimulare la sorpresa Sarah fece fare al carrello una temeraria inversione, adesso che era pieno di Miller High Life e wine cooler. Quaranta erano molti più anni di quanto avesse creduto, sebbene non fosse certa di cosa avesse creduto, né di che effetto le facesse quella smentita.
Alla cassa Martin pagò la birra, il vino, le patatine e i salatini mentre Sarah, Karen e Liam uscivano quatti quatti facendo finta di non conoscerlo. Scoppi di risa – di Martin – e di inintelligibile loquacità – del cassiere – li seguirono al di là delle porte scorrevoli, che si chiusero e poi riaprirono a lasciar passare Martin dietro al carrello traballante. «Ma sono tutti froci, da queste parti?», chiese continuando a spingere il carrello per il parcheggio, fino all’auto di Karen. «Mai visto tante checche in vita mia. Insegnano a scuola da voi, mi servono l’hamburger al ristorante, mi fanno il conto al supermercato...»
«È il quartiere», intervenne Sarah. Qualcosa nell’osservazione di Martin aveva risvegliato nella sua risposta una secchezza ammonitoria, ma non appena la udì, Sarah vacillò. «Siamo nel quartiere gay», chiarì, e adesso sembrava contrita. «Cioè, non solo gay, è il quartiere degli artisti, ma ci vivono un sacco di gay. Come quartiere gay è il quarto in ordine d’importanza, negli Stati Uniti – dopo quelli di New York, San Francisco e... il terzo non me lo ricordo».
«Corpo di mille ricchioni, Liam. La nostra Sarah sembra specializzata in pederastologia. Come facevi a saperlo, Sarah, che Liam è apertissimo a questo genere di cosa?»
«Ho un cugino gay che abitava da queste parti», rispose Sarah, senza capire e senza che nessuno la sentisse perché Liam, dopo essere saltato in groppa a Martin e avergli sfilato gli occhiali, si era messo a sventolarli in aria ululando, mentre Martin girava vorticosamente e faceva girare Liam come una trottola, agitando le braccia come un folle nel simulare una perdita totale della vista. Intanto Karen, tutta sola, caricava la spesa nel baule anteriore del Maggiolino.
«Le vostre mamme lo sapevano, che la scuola dove vi mandano si trova nel quarto finocchiaio nazionale in ordine d’importanza? Stai attento, Liam, così me li rompi».
«E tu lo sapevi, Martin? Scommetto di sì. E mi hai pure detto che non mi servivano le mutande di ghisa».
Andarono avanti così per tutto il tragitto fino a casa del professor Kingsley, anche se nessuno dei due riusciva a coprire del tutto i sussulti esplosivi del motore, che riempivano di un baccano da invasione tedesca le sfuggenti e crepuscolari vie del quartiere di Kingsley, lo strano mondo subacqueo nel quale si transitava immediatamente dopo aver abbandonato le sgargianti luci del vialone illuminato a giorno. Un silenzioso paese straniero di sconfinati pratini imbottiti di penombra, su cui sfere di quercia e azalea galleggiavano come navi. La macchinetta smarmittata di Karen lo attraversò senza riguardi, e a Sarah già pareva di vedere Kingsley ritto al limitare del suo pratino di velluto, a osservare il loro avvicinamento con i pugni sui fianchi e in faccia l’espressione che Sarah più temeva, quella contrariata ma non sorpresa. Quando però sbucarono dalla svolta dietro cui appariva casa sua, sul ciglio del marciapiede non c’era Kingsley, bensì un certo numero di macchine ben note. Una era quella di Joelle. Una era quella di David. Karen parcheggiò davanti all’auto di David.
Nello scendere, Karen guardò Sarah negli occhi per la prima volta in tutta la sera. Non da amica, ma da fredda indagatrice. Sarah capì che Karen voleva vedere l’auto di David infliggere a Sarah tutta la morbida violenza che può infliggere un’auto senza muoversi. «Non vieni?», le chiese poi. Martin e Liam avevano rapidamente estratto l’alcol e gli snack da sotto il cofano ed erano scomparsi di lato, verso la foresta incantata del giardino posteriore di casa Kingsley, con la terrazza in legno, il pergolato e le lucine decorative. Sarah guardava avanti eppure vedeva l’auto di David anche con la nuca, vedeva i fantasmi di lei e David intrecciati come serpi nell’oscurità degli interni.
«Ma ci stai insieme, tipo?», chiese Sarah riferendosi a Martin, tanto per disperdere i propri pensieri quanto per sviare la domanda di Karen.
Karen si allontanò dall’auto e sbatté la portiera, il che costrinse Sarah a valutare se spingere in avanti il sedile di guida e riaprirsela da sola o uscire dalla capote aperta: in ambedue i casi avrebbe fatto la figura della deficiente, perciò rimase dov’era e ricambiò lo sguardo ostile di Karen.
«Insieme?», fece lei con una smorfia. «Ci vediamo e basta».
«Sarà contenta, tua madre, che ti vedi con un inglese di quarant’anni», ribatté Sarah, sperando di sconvolgere Karen con il dato sconvolgente dell’età di Martin, come Liam aveva sconvolto lei.
Ma Karen si limitò a rispondere: «In effetti sì. Per quello ci vediamo lontano da casa mia». Detto questo, Karen girò sui tacchi e imboccò il prato.
Non appena Karen fu scomparsa all’orizzonte Sarah scavalcò faticosamente la portiera dal lato del marciapiede, evitando di guardare la macchina di David come se il solo fatto di vederla potesse accecarla. Era talmente vicina al cofano che avrebbe potuto posarci su la mano aperta. Le venne la folle idea che David ci stesse seduto dentro, a un braccio di distanza, a scrutarla, e che quello fosse il motivo dello sguardo freddo di Karen. Poi capì che non c’era solo David seduto nella macchina di David, a scrutarla, bensì David con la nuova ragazza che occupava il sedile del passeggero. L’Inglese Lilly, secondo le voci correnti. David e Lilly stavano là in silenzio a scrutare Sarah percossa e attonita dal pensiero della macchina di David, incapace anche solo di guardarla... Sarah si voltò di scatto verso di loro, le labbra strette per il disprezzo. L’auto era vuota. Come se avesse voluto farlo fin dall’inizio, Sarah aprì lo sportello e ci si infilò dentro. David non la chiudeva mai; chiuderla avrebbe potuto dare l’impressione che ci tenesse. La macchina, un tempo così pulita e profumata di nuovo, era ormai un lurido ricettacolo di schifezze. Il sedile e il vano gambe del passeggero erano ingombri di libri e pattume, bottiglie vuote, pacchetti di sigarette vuoti, ghirlande ritorte di magliette zozze. Il portacenere estraibile traboccava, diffondendo strie di cenere grigia e puzzolente ovunque. Il telefono giaceva strangolato dal cavo, i pulsanti luminosi spenti. Fino a poco tempo prima, Sarah lo sapeva, il telefono funzionava. David se n’era vantato così tanto, aveva dato il numero a così tanta gente, che ce l’aveva perfino lei. Era diventato il passatempo di tutta la scuola, chiamare David in macchina. Ma adesso sembrava che il telefono fosse stato pestato a morte, forse contro il cruscotto crepato. L’unica volta che ci era salita lei, gli interni di quell’auto non recavano la minima traccia della noncuranza di un ragazzino; adesso traboccavano della disperazione di un uomo. Sarah afferrò la leva del sedile e lo abbassò tutto, poi si abbassò a sua volta. La sera ovattata sparì alla vista e lei si ritrovò davanti agli occhi solo la fodera interna dell’armatura sudicia del ragazzo che aveva amato.
Col viso premuto contro una cucitura dei sedili in pelle, si strinse un pugno nella morsa delle cosce, con l’auto che vibrava talmente del suo desiderio, o del suo dolore, che forse il movimento si vedeva anche da fuori. Invece: «Sarah...?», chiamò la voce appena troppo acuta di Liam, per poi perdersi desolata. Di certo era in un qualche punto davanti alla casa, e vedeva la decappottabile di Karen, spalancata e ovviamente vuota, e la macchina di David, in apparenza altrettanto vuota. Non si sarebbe mai preso la briga di attraversare il pratino per accertarsi che Sarah non si stesse strofinando il clitoride contro un pugno serrato sul sedile dell’auto del suo ex ragazzo, alla ricerca del tipo di orgasmo che ti fa sentire il piacere strappato alla radice: un castigo del piacere, oltre che la sua fine completa.
Sarah s’immobilizzò comunque, con il cuore che le martellava nel petto, nel cranio e nell’inguine. L’aroma della sua solitaria fatica si sparse per l’auto come una vergognosa e indesiderata secrezione, il rivolo d’urina della paura o il rivolo incomprensibile di sangue dal naso.
Lui non la richiamò. Un suono smorzato, forse la porta che si richiudeva, e poi silenzio. L’orologio della macchina di David segnava le 19.42. Quando segnò le 19.48 Sarah riportò il sedile nella posizione precedente e abbandonò l’auto come fosse il luogo di un delitto.
La porta d’ingresso del professor Kingsley non era chiusa a chiave. Nel vestibolo di Kingsley, con le mattonelle di cotto, la bizzarra bambola a grandezza naturale che in teoria doveva essere una «scultura morbida» e l’insegna arrugginita della Mobil con il cavallo alato, pretenziosamente appesa sotto uno specifico faretto, non c’era né Liam né nessun altro. Sarah imboccò rapidamente le scale che salivano al primo piano, verso il felpato corridoio con le locandine e le fotografie; si chiuse a chiave in bagno, si lavò le mani e la faccia e si ripassò l’eyeliner e il rossetto. Quando uscì, in fondo al corridoio c’era Liam, in una posa indecisa. Pareva leggermente chino in avanti, le mani flosce lungo i fianchi, i polsi troppo lunghi per le maniche. Quest’impressione d’infermità sparì quando la vide, e tornò a sembrare giovane e bello, con quegli occhi stupendi accesi di carisma.
«Sei un tipo misterioso, tu!»
«Ero andata a comprare le sigarette», mentì lei.
In faccia a Liam restò il sorriso, che però era lì da troppo tempo. Stava recitando, capì Sarah, e gli serviva una regia ma non la trovava. Ecco qual era la strana caratteristica che avvolgeva la sua bellezza: un ritardo o una sbavatura in cui lui pareva rimanere indietro rispetto alle proprie azioni, a chiedersi dov’erano finite.
«Non è assurda, ’sta casa?», azzardò lei.
Fu come se la gratitudine gli restituisse coesione. «È un cazzo di castello, altroché! Nascondiamoci – sento gli altri». La prese per mano e la trascinò sulla ripida scaletta della mansarda: per metà serio, come se ne andasse della loro vita, e per metà ridicolo, come se «nascondiamoci» fosse una traccia d’improvvisazione che gli era appena stata assegnata. La camera linda e bellissima che Sarah ricordava dalla sera in cui ci aveva sorpreso Manuel adesso faceva schifo come... cosa? Le ci volle un istante per riconoscere la familiarità di quello schifo. La mansarda faceva schifo come la macchina di David da cui era appena scesa. La nobile distesa del pavimento lucido, l’eleganza costosa del soffitto basso e dei lucernari erano irriconoscibili sotto mucchi scomposti di acri panni sporchi, pile traballanti di resti di takeaway, innumerevoli caduti delle armate di Miller e Coors. Senza lasciarle la mano Liam la trascinò per l’ammasso di lerciume senza mostrare più rimorso di quello di una capra che percorresse il territorio natio, finché si ritrovarono davanti alla finestra in fondo alla stanza, accanto a uno dei letti. Dopo averle lasciato la mano Liam aprì la finestra con cautela esagerata, quasi senza rumore, e si mise una mano a coppa dietro l’orecchio a indicare che stavano origliando. Con l’aria umida della sera entrò un brusio di voci: una miscela di chiacchiere e risate, smorzata dalla distanza e dalle foglie. Un party nascosto nella giungla curatissima del giardino posteriore del professor Kingsley. Dall’alto della mansarda era impossibile scomporre i vari elementi della festa, i suoi contorni, le singole parole, allo stesso modo delle foglie di tutti gli alberi e cespugli che, come un cumulo di piume nere, riempivano lasche l’aria fuori dalla finestra. Sbirciando fuori Sarah vedeva, qua e là, il baluginio delle luci esterne: sparivano, poi tornavano a brillare, se per il moto del vento tra le foglie o per i movimenti delle persone non avrebbe saputo dire. E poi sentì la voce di David, limpida come se lui e non Liam fosse lì accanto a lei. In tono basso e caustico David fece una qualche battuta di spirito, accolta da risa frastagliate. Non appena lo udì, Sarah ebbe l’impressione che il petto le si gonfiasse del medesimo buio piumato che stava scrutando: un ammasso impalpabile e schiacciante di dolore e desiderio. Da così lontano non ne aveva decifrato le parole, eppure non capì subito di non aver capito; la voce di David in sé era così tagliente che lei aveva quasi fatto un salto indietro.
«Stanno tutti fuori», disse Liam. «Tutti i miei, più David». Un istante dopo aggiunse: «Voi due stavate insieme – o ci stava prendendo per il culo?»
Lei aveva la bocca troppo secca per parlare agevolmente. «Non siamo mai stati insieme».
«Però lui ti veniva dietro?»
«Non lo so».
«Ma certo che sì».
Stupidamente Sarah sbottò, senza pensarci: «Perché». Adesso lui avrebbe pensato che lei fosse in cerca di complimenti, quando invece intendeva letteralmente per quale motivo David mi amava – che era un modo codardo di chiedere a David Perché non mi ami più? Ma naturalmente Liam, che parlava con lei, dette per scontato che si fosse rivolta a lui.
«Perché sei bellissima, ecco perché». Pronunciò stupendamente la battuta, e lei s’increspò di un brivido in superficie, mentre sul fondo continuava ad aleggiare David, la domanda rimasta senza risposta.
«Smettila», disse, imbarazzata.
«Sei-bel-lis-si-ma. Lo sai chi mi ricordi?», esclamò quindi Liam, come se avesse finalmente trovato la soluzione a un rompicapo. «Sade. Ce l’hai presente?»
«Non le assomiglio».
«Invece sì», disse Liam, mangiandole la faccia con gli occhi fin quando parve imbarazzarsi a sua volta. Distolse lo sguardo, poi allungò una mano fuori dalla finestra, portò dentro un piattino di mozziconi di sigaretta e dopo essersi tastato dappertutto si cavò di dosso un pacchetto di Drum, le cartine, e si sedette sul letto. «Ti va una paglia?»
«Non vuoi scendere in giardino?»
«Col gruppone? No, no». Lasciò andare il tabacco e la prese per un polso, per farla sedere accanto a sé. «No», mormorò con calore. «Voglio stare qui con te». Quando le cacciò la lingua nell’orecchio lei boccheggiò per il disgusto oltre che per la sorpresa, e girò la testa per prendergli la lingua in bocca, sistemazione meno imbarazzante che però era addirittura più sgradevole. Sentì l’amaro del suo stesso cerume e gli si buttò addosso con più foga, nella speranza di cancellare il sapore. Era una fatica sconcertante, far posto a quella lingua che guizzava e spingeva impazzita; qualunque cosa facessero, le due lingue parevano sempre violentemente in conflitto, ognuna a tentare di levare di mezzo l’altra. Con un gemito angosciato Liam fece ruotare i due busti intrecciati fino a schiacciarla sulla superficie irregolare del materasso, e un attimo dopo lei si ritrovò di colpo senz’aria quando lui, che si scrollava per togliersi la giacca, le ricadde sul torace con tutto il peso. Poi riuscì a strapparsi di dosso la giacca con la veemenza di un matto che sfugge alla camicia di forza, e nello stesso momento lei ansimò così forte, nel tentativo di riprendere fiato, da emettere un suono tipo strillo o squittio: al sentirla, Liam si alzò sopra di lei puntellandosi sui polsi e le fece un gran sorriso, perché aveva preso quell’ansito per un segnale di eccitazione.
E in effetti lei era, stranamente, eccitata: tutti i segni fisici dell’ardore di lui la turbavano e la sconvolgevano. Liam si dimenava; le membra bianche, molli e irsute, sembravano impalate sullo stelo di un’erezione inspiegabilmente grinzosa che si era preso in mano, e pareva pronta a schizzarle paonazza in faccia perché lui aveva tirato indietro la pelle che la ricopriva. Sarah non aveva mai visto e neppure immaginato un pene non circonciso; probabilmente lo aveva guardato a bocca aperta, facendolo ancora più felice. Ma insieme a queste scioccanti estrusioni fisiche ce n’erano di verbali, che la facevano rabbrividire di sgomento. Lui parlava senza sosta, in maniera perlopiù incomprensibile, ma il poco vaniloquio che le riusciva di afferrare era irrimediabilmente sconcio. Nel suo ciarlare confuso, il volume saliva e scendeva come quello di un ragazzetto discolo che ha scovato un romanzo pornografico e lo legge ad alta voce. E le parole che usava! Ancor più sconce perché erano i termini infantili che avrebbe adoperato una mamma leziosa ripulendo un bimbo paffuto. Tanto per cominciare se lo chiamava pisellino – «Ah, sì, ti ho messo il pisellino dentro! – dentro! – bagnata fradicia il pisellino dentro bagnata stretta calda fradicia...» Nulla avrebbe potuto essere meno delicato – più che toccarla la strattonava, spintonava, strizzava come se il suo corpo fosse una specie di giocattolo – eppure lei si udì, in una nota crescente di protesta o una sirena d’allarme: «Nooo, nooo, nooo». E il piacere orribile, che le stava uscendo da dentro come un fiore di carne con grandi petali muscolosi come lingue, nel suo enorme tormentoso schiudersi la travolse al punto che nemmeno si sentì più il «pisellino» o qualsiasi altra parte di lui né dentro né vicino, come se Liam si fosse ridotto a un granello di sabbia e fosse stato spazzato a mare dalla piena di quel piacere indesiderato.
Riavendosi, si ritrovò soffocata sotto un peso di carne umida. Reggiseno, maglietta e giubbetto di jeans spinti su fino alle ascelle, a scoprire il seno; jeans e slip spinti giù fino alle caviglie; ginocchia divaricate; gli stivaletti neri a punta ancora ai piedi. Il sedere, zuppo e freddo, sembrava incollato a una pozzanghera di melma. Oltre la spalla di Liam si accorse che la porta della camera non era neanche chiusa, e allora lo spinse via con tanta forza che lui cadde dal letto tra i montarozzi di rifiuti.
«Non ti è piaciuto?», esclamò.
«C’è la porta aperta!»
Ah, non era dispiaciuta, solo pudica, che tenera! Lui si slanciò di buon grado fino alla porta per chiuderla sebbene a quel punto importasse poco – ed era ancora aperta pure la finestra dalla quale, solo pochi minuti prima, Sarah aveva sentito la voce di David. Cos’aveva sentito la sera di lei, si chiese mentre si rimetteva freneticamente in ordine i vestiti, evitando i tentativi di Liam di riavvolgerla come un ragno, i suoi baci ed elogi svenevoli. «Oddio sei veramente bellissima», continuava a ripetere meravigliato, come un vero mentecatto. Lei avrebbe voluto che si rivestisse, che si coprisse quel petto bianchiccio come un’asse per lavare e i capezzoli rosa acceso. Ma lui sembrava perfettamente a suo agio, seduto a gambe incrociate sul groviglio di lenzuola luride, il pene esausto afflosciato tra le gambe come un verme affranto.
«Non credi che dovremmo scendere?», lo supplicò.
«Se ti va una cosa da bere posso fare un salto io a prendere un paio di birre».
«No, è solo – e se viene su qualcuno?» Quella porta rimasta aperta – a ripensarci, l’inconcepibile vergogna di avere qualche spettatore pareva sempre più evitata per un soffio, come se, indugiando a sufficienza, il passato potesse essere riscritto e l’orrore alla fin fine verificarsi. Ma quante volte doveva farlo, di scoparsi qualcuno in pubblico? Se solo lui si fosse rivestito!
«Ma Jim non c’è. Pensavi fosse in casa? È andato all’opera, con Tim. Staranno fuori per ore».
«Lui e Tim non sono in casa?»
«No!», rise Liam.
«Ma lo sanno che ci siamo noi?»
«Noi siamo suoi ospiti! Abbiamo il permesso di starci». Finalmente si rimetteva i vestiti, tornando bello man mano che la carne scompariva. A metà camicia, la trasse a sé e di nuovo le cacciò in gola l’avida lingua appuntita. «Lo sai che impazzivo per te?», le disse, a bassa voce. «Seghe su seghe, giorno e notte, pensando a te. Ho quasi fatto impazzire anche il povero Martin».
«Oddio». Lei sbottò in una risatina vuota, divincolandosi. Lui cercò di infilarsi una sua mano nei calzoni appena abbottonati, ma lei gli sfuggì con ritrosia simulata e si precipitò giù per la scaletta e in corridoio. Dall’altro capo della casa sentì provenire un mormorio di voci e musica, e mentre lo seguiva Liam la riprese, con l’aria di assoluta devozione che lei avrebbe voluto vedere in faccia a David.
«Ti adoro», le sussurrò mentre sbucavano, puzzolenti, spettinati e inequivocabili, in cucina.
Lì c’erano Joelle, Theodosia, Lilly, Rafe e alcune vip di Terza, con cui Sarah non sapeva che Joelle fosse in amicizia, che si passavano una canna. Joelle guardò Sarah come dal ponte di una nave che si era staccata dal molo per salpare verso un lontano e dorato orizzonte; e nello sguardo fermo di Joelle Sarah vide sé stessa, abbandonata sul molo, ridursi a un puntino e svanire.
«Guarda guarda guarda», disse Rafe a Liam, «dov’eravate, signorino Candido? A studiare la lezione?»
«Stavo mettendo i porno in ordine alfabetico. Di mille che ce n’è».
«Oddio», fece Rafe sputacchiando fumo. «Lo sapevate, dei porno? Non avete idea. Martin ci ha raccontato che pensava di aver messo su 8½ di Fellini e invece si è trovato davanti dei signori che s’infilavano i pugni nel buco del culo».
«Nooo!», strillarono le vip di Terza, coprendosi la faccia, la bocca o le orecchie.
«Martin dice solo cazzate, sapeva esattamente che cassetta aveva messo su», disse Lilly fra l’ilarità generale.
«Sento fare il mio venerando nome?», disse Martin comparendo sulla soglia dal giardino, la chioma smorta ancor più arruffata di quella di Liam. «Vi sono mancato, tesorucci?»
«Si parlava solo di quanto sei pervertito».
«Adesso fate i bravi, su, e andate a fumarvela fuori quella cazzo di canna».
Karen non era con Martin, anzi Sarah non la vedeva da nessuna parte. Uscendo in giardino tentò discretamente di sbirciare nelle tenebre cercando lei o David, con le dita fredde e bagnate per la bottiglietta di birra che aveva in mano e le reni che si contorcevano sotto il palmo di Liam, che pareva appiccicato lì con la colla. Sarah avrebbe voluto levarselo di torno ma al tempo stesso provava una riconoscenza assurda per come lui faceva da ostacolo, quasi da scudo, tra lei e Joelle, tra lei e la prospettiva di David. Non appena formulato questo pensiero cominciò a temere che Liam cambiasse idea e in preda alla paura gli afferrò la mano, che lui a sua volta le strizzò con gratitudine. Poi si ritrovarono a fumare sotto il gazebo con Simon e Erin O’Leary, che erano aggrappati l’uno all’altra con la stordita disperazione degli amanti talmente sopraffatti dal desiderio da non riuscire a fare il primo passo per appagarlo; avrebbero potuto entrare in casa e scopare in una delle molte stanze vuote, proprio come Sarah aveva appena fatto senza volerlo, ma la semplicità della soluzione gli sfuggiva. Si tenevano per mano con una forza che gli sbiancava le nocche. Sotto il gazebo c’erano anche Colin e Cora, Cora che era stata alloggiata da Pammie e l’aveva piantata in asso per trasferirsi da Karen. Sarah avrebbe voluto chiederle dov’era Karen, ma Colin e Cora, al contrario di Simon ed Erin, pomiciavano rumorosamente, sfregandosi e tastandosi, indifferenti al pubblico. Poi c’era Rafe, a scambiarsi battutine sconce con Liam, il braccio intorno a Katrina della sezione di Danza. Gli Inglesi in visita si erano tutti messi con qualcuno poco dopo l’arrivo, nessuno di questi accoppiamenti era una novità, c’era stato perfino il tempo per rotture e tradimenti – solo gli adulti, Liam e Martin, erano rimasti fuori dal balletto, perplessi, dispensati; «mocciosetti arrapati», aveva commentato Martin. Ma adesso Liam aveva scelto Sarah, che sentiva quest’informazione propagarsi nel buio e alterare il suo status, benché non sapesse ancora valutare in che modo. E Martin? «Ci vediamo e basta», aveva detto Karen sprezzante. Sarah ripensò a quando si era seduta sotto quel gazebo con Julietta, Pammie e Greg Veltin, loro tre uniti in un cerchio di gioia al quale Sarah non era riuscita a stare attaccata malgrado le avessero teso le mani per trattenerla. Era un affetto, il loro, che aveva respinto di riflesso proprio perché era così semplice, perché scaturiva dritto e immediato dal cuore, dalle viscere o da dovunque venissero sentimenti del genere. Quei sentimenti, Sarah non li aveva più. Eccola qui fra i tentacoli di un uomo che si rimproverava continuamente di trovare bello, e verso il quale non provava nulla se non, a questo punto, un fastidioso senso di responsabilità, mentre lui le gemeva e sbavava nell’orecchio il proprio intatto desiderio.
Rafe e Katrina, Erin e Simon, Colin e Cora non si davano più la pena di chiacchierare né fumare ma tentavano solo di ingoiarsi a vicenda con la bocca e la lingua, e si sfregavano reciprocamente l’inguine, e urtavano con le braccia e le gambe le pareti inflessibili del gazebo. Quando Sarah si ritrasse dal bacio di Liam lui le si abbatté di buon grado sul collo e prese a nutrirsi lì come un cane famelico e sdentato. A parte l’umido, e di conseguenza il freddo, il corpo di Sarah non sentiva nulla. Scrutando nel buio oltre il gazebo mentre Liam le sbavava uggiolando sui tendini scorse il profilo di David passare e allontanarsi quasi che, sebbene divisi da pochi metri d’aria, loro due non facessero più parte dello stesso mondo. Fin da quando era arrivata aveva tentato con tutte le sue capacità intuitive di stabilire un qualsiasi contatto con David, e adesso lui le passava talmente vicino che sarebbe bastato tendere una mano ad afferrarlo. Sarah spalancò la bocca, ma non riuscì a emettere suono. Eppure David si voltò, e guardò proprio il punto del gazebo dove sedeva lei, con la bocca di Liam a ventosa sul collo e la mano di Liam che si baloccava col suo seno insensibile. David le spazzò addosso uno sguardo spietato e subito dopo scomparve, in direzione della casa. Sarah si alzò con uno strattone. «Devo andare in bagno», disse, e fuggì.
Dentro casa i piani della cucina erano ricoperti di buste e bottiglie, la radio era rimasta a crepitare fra una stazione e l’altra, l’aria era densa di strati di fumo che andavano pian piano a disintegrarsi là dov’erano stati depositati da estranei di passaggio. Ogni stanza in cui Sarah guardò era vuota. Ma lei era certa che la casa non fosse vuota. Il suo corpo era tornato in vita, l’emozione le pompava dentro come una marea che sfiorava ogni superficie e rilevava anche la più piccola traccia, portandola a galla, alla luce. Percorrendo il corridoio del piano terra fino in fondo Sarah posò la mano di piatto su una porta socchiusa, la aprì, ed ecco là Martin e David, ingobbiti in mute convulsioni di riso, i volti paonazzi e increspati. Al suo ingresso si raddrizzarono, ansanti di fatica.
«Oddio», diceva David, «levami quell’affare da davanti».
La stanza in cui li aveva trovati era una camera, vasta e semibuia, con dentro un ampio letto fastosamente ricoperto di raso viola talmente scuro da sembrare quasi nero. Il letto sbucava da una parete come una lingua, affastellato di cuscini di varie dimensioni ma tutti dello stesso raso nero-violaceo, come un raccolto di melanzane. C’erano due enormi lampade dai paralumi zebrati che a malapena facevano più luce di una candela. Il fondo della stanza si perdeva in tendaggi.
«Guarda chi c’è! Prendi», disse Martin, e protesa verso di lui in muta obbedienza Sarah si ritrovò fra le mani un oggetto. David lo fece saltare via con una schicchera.
«Cristo! Non farglielo toccare».
«Sono sicuro che è pulitissimo. Sono sicuro che li mettono a bollire dopo ciascun utilizzo». Scosso dalle risate, Martin si lasciò cadere sul letto e prese a frugare nel comodino lì accanto. «Magari Sarah lo preferisce di un colore diverso? Un filino più lungo o più corposo? Più appuntito?»
«Ma cos’è?», chiese lei a David, che intanto Martin percuoteva con un altro oggetto simile.
«Cazzo, fai veramente schifo!» David tentava di assumere un tono di superiorità rispetto a Martin, ma proprio il suo desiderio di farlo garantiva che non ci sarebbe riuscito. David non guardava Sarah, non toccava l’affare, qualunque cosa fosse, ma anzi lo scansava come un ragazzino schifiltoso, al punto che fu lei, infiammata, a raccoglierlo di scatto da terra.
«Fidati, mettilo giù!», proruppe David.
«Ahi, ahi, ahi», disse Liam facendo capolino dalla porta. «Martin ha riaperto il cestone dei giocattoli».
«Vuoi sapere che cos’è?», le chiese Martin, con improvvisa serietà. «Insomma, David, non c’è bisogno di alzare la guardia, non ti faccio niente. Davvero ti piaceva quello lì?» Quest’ultima domanda a lei sola, perché David si era fiondato fuori: le era sfuggito di nuovo. «Vorrei sapere qual è il suo segreto. Forse emette una qualche sostanza chimica. Lilly è impazzita per lui, dice che non torna in Inghilterra, che resta qui a scoparselo per il resto della vita. Ma tu, dolcissima Sarah, sei già troppo matura per Liam, figuriamoci per un povero pivello come David. Vieni a sederti qui vicino a me. Anche tu, Liam. Piccini, a me», e come in trance Sarah si sedette vicino a lui sul letto color melanzana, vedendo solo David e Lilly, le dita tozze di David, il viso giallastro e aguzzo di Lilly e la sua bocca risoluta e pronta. Poi Liam si sedette con un rimbalzo e se la tirò sulle ginocchia, lasciandola con le gambe penzoloni a pochi centimetri da terra. «Mi sento come Prospero che dà la sua benedizione a Miranda e Ferdinando», disse Martin tornando a frugare nel cassetto. «Facciamo a cambio col tuo, Sarah. Dai qua».
«Prima dimmi che cos’è», disse Sarah, rigirandosi per tenerglielo lontano.
«Razza di sfacciatella!», fece Martin.
Che brava, tutto a un tratto – a recitare un autentico ruolo mentre nascondeva, del tutto, un’identità reale che non le serviva a niente. Sfacciata e scaltra, tendeva l’esca a Martin, lanciava e riprendeva l’affare di gomma appena fuori dalla sua portata, sentiva l’erezione insistente di Liam che le cercava il culo mentre lui se la stringeva sempre più forte in grembo. E nel contempo in realtà Sarah era con David, con i suoi goffi tentativi sul corpo di Lilly che erano fatti per eludere lei, Sarah, e non sarebbero andati a segno. Indifferente ai due cretini per cui interpretava la parte, indifferente all’uccello premuto contro il culo, indifferente all’affare che le ricadeva in mano, indifferente alla stanza, si concentrò su David. Non funzionerà, gli disse serena.
«Sarah», si udì la voce del professor Kingsley nella stanza improvvisamente silenziosa. «Per favore restituiscimelo e va’ a casa». Sotto di lei Liam si alzò e Sarah gli scivolò di dosso, rimettendosi in piedi. Kingsley le stava davanti con la mano tesa e lei ci posò sopra l’affare, guardando in faccia lui e al tempo stesso alle sue spalle Tim, suo marito, fermo sulla soglia come l’ombra pallida di Kingsley.
«Fortunelli! Sarà stato L’oro del Reno più corto della storia», ragliò forte Martin, come se la sola forza del volume potesse trasportarli tutti fuori di lì.
«Tim non si sentiva bene», disse Kingsley, e intanto indirizzava a Sarah uno sguardo che le parlò chiaro, direttamente al cervello. Proprio tu che fra tutti avresti dovuto capire.
«C’è stato un piccolo malinteso», continuò a starnazzare Martin. Non era incapacità di arrivarci, constatò Sarah, bensì un rifiuto ostile della realtà. Tolta la voce di Martin, la casa era perfettamente silenziosa. Erano cessate anche le lievi scariche della radio fuori sintonia in salotto, pochi istanti prima. «I miei erano venuti a cercarmi», gridò Martin, «e poi sono arrivati gli amichetti a cercare loro. Inseparabili, sono diventati».
«Sarah», ripeté Kingsley, «per favore vai a casa». Mentre lei obbediva, Tim le prese la mano.
«C’è qualcuno che ti dà un passaggio, piccola?», le sussurrò.
«Sì», disse lei, o forse annuì, o forse non disse nulla; divincolò la mano e si precipitò fuori. Davanti alla casa non c’era più neanche una macchina. Qualunque traccia della festa era scomparsa come se qualcuno avesse chiuso una cerniera, lasciando solo i respiri affannosi di Sarah e il ticchettio rapido dei suoi stivaletti lungo la via. Più di tutto temeva la comparsa della Mercedes di Kingsley, a mostrare il solito sguardo schifato ma non sorpreso; ma forse la desiderava anche, per quant’era vivida la visione che la inseguiva. E invece nessuno, né Kingsley né Martin, né Liam né Karen, né David né nessun altro il cui corpo fosse, come pareva che un corpo dovesse per forza essere, racchiuso in un’automobile, spuntò dal buio per offrire al corpo di Sarah, apparentemente nudo, decisamente smarrito, mai così vulnerabile, l’opportuno riparo e l’abituale velocità di movimento di una macchina. Sarah correva, come non aveva mai corso prima, lungo strade inospitali all’attività dei pedoni, strade senza marciapiedi e dalle indicazioni rade o del tutto assenti. Il quartiere di Kingsley era un sinuoso labirinto e lei si perse quasi subito dopo essersi lasciata la casa alle spalle. Ben presto fu troppo affannata, e troppo conscia del rumore degli stivaletti, per continuare a correre, ma l’andatura rimase rapida e spaventata. In quella città solo i poverissimi e i delinquenti che avevano fatto un qualche errore nel commettere il loro delitto andavano a piedi. Sarah pensò alla povera utilitaria di sua madre, che conosceva a memoria, con desiderio e rabbia. Avrebbe fatto qualunque cosa per avere una macchina sua. Avrebbe venduto il proprio corpo, rapinato o ucciso se fosse servito a farle avere una macchina sua. Da quando aveva ricominciato a mettere da parte la paga della panetteria non si era comprata niente di niente, e se solo fosse riuscita ad arrivare a milleduecento dollari era certa di poter avere l’imbarazzo della scelta quanto a macchine dignitose; ogni settimana leggeva con attenzione maniacale le quotazioni dell’usato su Auto Trader e aveva già da tempo stilato una sua classifica dei sogni: Maggiolino, MG, Alfa Romeo, e comunque sempre cabrio. Su Auto Trader c’erano continuamente delle splendide, piccole decappottabili straniere in vendita sui milleduecento dollari «perché certe macchinette sono una gran palla da mantenere e non valgono niente», le diceva la madre, cinica e distrutta, che con tutta la sua vantata esperienza di vita non sapeva niente di come si vive.
E poi di colpo Sarah si ritrovò sull’ampio, chiassoso, illuminatissimo vialone e riuscì a vedere l’insegna di Mama’s Big Boy baluginare a distanza. Una distanza che un’auto avrebbe percorso in un batter d’occhio ma che Sarah coprì in una decina di minuti, camminando di buona lena. Passava sul ciglio dei parcheggi, non sulle strisce erbose di lato alla carreggiata, in modo da sembrare una che andava a prendere la macchina, non una che era in giro a piedi; ma anche così, qualche auto suonò il clacson nel superarla, come a volerle dare una pennellata di rumore. L’avvisavano o la deridevano? Non lo sapeva, ma cercò di accelerare ancora, più che poteva, senza dare l’impressione di correre. Nel vestibolo all’ingresso di Mama’s Big Boy rovesciò a terra il contenuto del borsellino nel tentativo di afferrare con le dita gli spicci per telefonare; quelle sue dita inutili, che parevano salsicce attaccate alle mani. Quando riuscì finalmente a chiamare il telefono della macchina di David fu presa dal timore che smettesse di squillare. David era senz’altro fermo da qualche parte a darci dentro con l’Inglese Lilly in braccio, il sipario dei capelli biondi di Lilly a schiaffeggiarli entrambi, il ginocchio sinistro di Lilly a strusciare come un pistone poco oliato contro il bordo del sedile di pelle rischiando a ogni strusciata di far saltare il telefono dalla forcella: da un momento all’altro la laboriosa scopata di David e Lilly nell’auto di David avrebbe senza volere risposto al telefono, e allora Sarah avrebbe sentito quel che già vedeva e sentiva anche troppo chiaramente... e invece sentì un messaggio preregistrato che evidentemente David non si era mai preso la briga di personalizzare. Riattaccò. Non erano ancora le undici. Da Mama’s Big Boy si avvicinava l’orario più affollato, quando sul locale convergevano quelli che erano già stati da qualche parte e quelli che dovevano ancora andare da qualche parte. Non c’era un tavolo libero, perciò Sarah si sedette al banco a fissare gli enormi fogli plastificati del menù. «Ancora tu?», le disse il cameriere di tre ore prima passando con diversi bricchi di caffè tra le mani. Meno male che non era di turno al banco, che non le avrebbe rivolto di nuovo la parola, non le avrebbe chiesto: «Che fine hanno fatto quei ragazzi con l’accento?» Sarah aveva soldi sufficienti a ordinare solo patate fritte e caffè, e quando glieli servirono, i due sapori contrastanti dell’amido unto e sciapo e della bevanda acre le riempirono allo stesso modo la bocca della saliva d’avvertimento che monta appena prima di vomitare. Seduta sullo sgabello al bancone non poteva restarci più di un’ora, era la regola del locale, ma forse lei non avrebbe neanche resistito così tanto. A un certo punto andò in bagno a sciacquarsi e a guardarsi la faccia irriconoscibile, e quando tornò le patatine e il caffè quasi intatti erano spariti, sullo sgabello a studiare il menù c’era seduto qualcun altro, e quando incrociò lo sguardo del tipo dietro il banco lui la liquidò con un gesto e si voltò dall’altra parte.
Arrivata quasi a mezzanotte avrebbe voluto che David rispondesse e basta, non gliene fregava niente se aveva in braccio Lilly, ma di nuovo lui non rispose. Forse adesso dormiva. Forse adesso dormivano tutti. Sua madre nel suo letto solitario; la macchina di sua madre, che Sarah pensava ancora potesse apparire – indotta col pensiero a tornare da lei come una bestia fedele – nel suo posteggio. Dormiva Tim del professor Kingsley, che all’opera non si era sentito bene, e dormiva Liam, di cui ancora sentiva l’incursione sotto forma di indolenzimento umido in mezzo alle gambe. Kingsley e Martin – loro dov’erano? Avevano messo tra sé silenzio e disprezzo, ritirandosi ai capi opposti della casa? E dov’era Karen? Mai fino a quel momento Sarah aveva preso in considerazione l’idea che alla fin fine forse avrebbe dovuto dormire da Karen. Aveva contato sul fatto che Martin e Liam, che avevano avuto l’idea di rapirla, si sarebbero assunti la responsabilità di quell’impulso come se non fosse un impulso bensì un piano ragionato – come se, al pari della CAPA che ospitava la compagnia, Martin e Liam dovessero ospitare lei, salvaguardarne l’incolumità e trovarle una sistemazione – in albergo? – e offrirle la colazione e il mattino dopo lasciarla a scuola per tempo. Ci aveva contato perché erano adulti; però li aveva seguiti perché non si comportavano da adulti, e quindi adesso non capiva se l’avevano abbandonata loro, o se era stata stupida lei a nutrire aspettative diverse.
Sull’elenco telefonico c’erano cinque Wurtzel, ma solo uno in un codice postale familiare. Sarah fece il numero e malgrado l’ora tarda una voce fumosa e strascicata rispose, in tono non sgradevolmente sorpreso.
«Karen...?»
«Parla Elli. Credo che Karen dorma. Posso darle un messaggio?»
A questo Sarah non era preparata. Declinò, si scusò, riuscì a non piangere, ma non trovò la forza di riattaccare a quella voce non sorpresa. «Sarah», disse Elli Wurtzel dopo che Sarah si fu strozzata di bocca la propria situazione e posizione, «tu adesso resti lì ferma accanto al telefono finché non arriva il taxi. Sarà un taxi arancione e blu della Metro Cab. Magari ci mette un pochino ma arriva, promesso, e ti porta qui a casa, io ti aspetto alzata. Non mi sparire altrimenti dovrò chiamare tua madre, e la polizia. D’accordo? Ci siamo capite?»
«Sì», disse Sarah.
«Sei ubriaca, gioia?»
«No».
«Fatta?»
«No».
«Se anche fosse, non c’è problema. Voglio solo essere sicura che non te ne vai prima che arrivi il taxi».
«Non me ne vado».
«Però aspetta dentro, gioia. Non metterti fuori nel parcheggio da sola».
Su questo punto disobbedì. Attese fuori nel parcheggio, per non farsi vedere dai camerieri che sicuramente la guardavano e parlavano di lei. Verso l’una entrò nel parcheggio una macchina blu e arancio con scritto Metro Cab, guidata da un uomo con la barba e i capelli castani sul lungo, che le chiese: «Sarah?», le fece segno di salire e poi la guardò nello specchietto: «Ciao, mi chiamo Richard. Non ho acceso il tassametro perché poi me la vedo con Elli direttamente. Siamo amici».
«D’accordo», fece Sarah. Non aveva mai viaggiato in taxi in vita sua. Non si era neanche mai accorta che nella sua città ci fossero dei taxi. Da piccola guardava un telefilm su dei tassisti di New York: il tassametro c’entrava con il modo di pagarli.
Rifecero il viale a ritroso, l’erba secca, i vetri rotti, il pattume sparso, l’asfalto crepato, tutto il vivido e inesauribile assortimento granulare su cui Sarah aveva scarpinato esausta, in un istante. Sfrecciando nella notte il taxi imboccò la tangenziale, per poi smontarne due uscite più in là del quartiere di Sarah, tra casette malmesse in muratura a un solo piano uguali in tutta la città salvo che nei quartieri dei ricchi, come quello di David e di Kingsley, o nei quartieri poveri, come quello di Sarah e sua madre, o nei quartieri di gente anche più povera di Sarah e sua madre; tutti gli altri, per quanto ne sapeva lei, abitavano in case come quelle. Perfino lei e sua madre una volta abitavano in una casa così, quando i suoi genitori stavano ancora insieme. Richard entrò nel vialetto di una casa buia sui cui gradini d’ingresso una donna minuta, dai lunghi capelli castani, sedeva in vestaglia frou-frou a fumare una sigaretta. All’arrivo dell’auto la donna si alzò subito per venirle incontro. «Grazie», disse a Richard, appoggiandosi con un gomito sul finestrino aperto dal lato guida come se fosse pieno giorno. «Ti devo un favore».
«Ti mando il conto», Sarah lo sentì rispondere, e poi sia Richard che Elli si fecero una risata. Sarah scese dal lato opposto rispetto a dove si trovava Elli, e l’auto se ne andò.
In casa l’aria sembrava fatta di sonno. Era tutto tiepido, umido, stantio. Sarah sentiva le pesanti inspirazioni ed espirazioni di gente che dormiva; seguendo Elli per un salotto ricoperto di moquette e appena illuminato dall’orologio digitale di un videoregistratore, si accorse che addormentato a pancia sotto su un divano, una lunga gamba e un braccio penzoloni a terra, c’era Liam.
«Di qua», sussurrò Elli tornando nel punto dove Sarah si era bloccata e prendendola per mano come avesse, chissà, perso la strada nel buio. Lasciarono la penombra del salotto, percorsero l’oscurità quasi completa di un corridoio con molte porte chiuse e aprirono l’ultima, sotto alla quale baluginava una lama di luce dorata. «Stasera siamo al completo», disse Elli dopo aver richiuso la porta, con una voce rauca e perplessa, come se nessuna circostanza potesse smuoverla. Rimasero ferme lì nella sua camera ingombra, fra indumenti, orsacchiotti e cuscini ammucchiati in quantità tale che il mobilio sottostante si vedeva a malapena. Un abat-jour con uno scialle a frange pinzato sul paralume gettava una luce fioca sulle foto incorniciate di una Karen molto più giovane, dalle guance molto più tonde, e di un maschietto paffuto con la stessa faccia di Karen. Le mensole ormai imbarcate erano stracariche di bambole, cianfrusaglie e libri: Lo zodiaco; Il grande libro dei tarocchi; Ricette per mangiar sano. «Questo dovrebbe starti», disse Elli pigliando a strattoni un pigiama da dentro un cassetto talmente pieno che non scorreva bene. Una volta estratto, Sarah si accorse che il pigiama era tutto pieghettato e lungo l’orlo aveva una fila di pompon grandi come biglie. «L’avevo comprato per Karen ma lei non se lo metterebbe manco morta, e per me è troppo grande. Io sono una XS. Oddio, gioia, che c’è? Un ragazzo? Ma quanto sei carina. Karen non parla mai di te: posso capire il perché. Adesso ti fai una bella doccia, usa pure il bagnoschiuma».
Stringendo il pigiama coi pompon Sarah si chiuse nel minuscolo bagno, una foresta di candele, ciprie e creme in cui la tazza, la vasca e il lavabo parevano spuntati per caso, come funghi, nel sottobosco profumato e floreale. Seduta sulla tazza aprì la doccia e prese a singhiozzare nel rumore dello scroscio. L’amore era una specie di disfunzione chimica. Sotto la doccia alzò man mano la temperatura dell’acqua da molto calda a bollente fino ad aver paura di ustionarsi, e sentì un Liam microscopico – là dove si era dimenato col petto contro il suo lasciando strie di sudore rovente, dove le aveva slinguato di saliva i solchi delle orecchie e i tendini del collo, dove l’aveva unta e poi farcita di quella che, Sarah aveva sperato di dimenticare, ancora chiamava «sburra», altro termine puerile che evocava fetore nauseabondo, lenzuola sporche, macchie nascoste e vergogna – strigliato, sciacquato via come tutti i pelosi microrganismi degli spot dei detersivi che venivano risucchiati loro malgrado giù per lo scarico. Non c’era parte del suo corpo che non bramasse lo sterminio dell’acqua calda e del sapone. Trovò il bagnoschiuma, ma non le andava di usare l’apposita spugnetta arricciata che in tutta evidenza Elli usava spesso e che le pareva troppo personale, perciò alla fine se lo versò in mano e cercò di spargerselo addosso più che poteva. Si lavò i capelli due volte, grattandosi forte il cuoio capelluto. Poi temette di essere stata sotto la doccia troppo tempo; uscì dal bagno e trovò Elli rannicchiata sul letto, con accanto un vassoio che ospitava un grappolo di flaconcini. Elli le rivolse un lieve sorriso luminoso che Sarah si sorprese a restituire. Aveva un piccolo neo su una guancia e malgrado l’ora sembrava truccata di tutto punto. «Eccoci», le disse allegra. «Stai decisamente meglio». Diede un colpetto sul materasso e spostò il vassoio per farle posto. Che Elli fosse una madre, Sarah non riusciva a farselo entrare in testa, e figurarsi la madre di Karen. Si mise sul letto cauta, rimpiangendo che il pigiama non fosse più lungo; a casa dormiva con una maglietta di Radio 97Rock che le arrivava alle ginocchia.
«Hai il cuore infranto, si vede bene», disse Elli.
Sarah si mise a ridere e poi si ritrovò a piangere. Si coprì gli occhi con la mano e sentì che nell’altra le veniva passata una scatola di fazzolettini.
«Non ti vergognare, gioia. Sei fortunata, se ti hanno spezzato il cuore. Vuol dire che eri innamorata sul serio. Muoio dalla voglia di leggerti i tarocchi ma penso che dovresti dormire, appena hai preso un po’ di integratori. Ne prendi, di integratori?»
«Boh, no, mi pare di no».
«Dovresti. Al nostro corpo serve, questa roba. E al tuo ancora di più, visto lo stress e il dolore. Devi aiutarlo a rinnovarsi. Tanta della tristezza che senti è fisica. È una cosa da sapere. Adesso ti prepariamo un bel cocktail di integratori e domani quando hanno fatto effetto mi dici come ti senti e se c’è bisogno ritocchiamo un po’ le quantità. Poi te ne preparo una dose per una settimana, ti scrivo l’elenco e puoi comprarteli da sola». Mentre parlava Elli svitava un flaconcino via l’altro, scuotendone fuori capsule e compresse di tutte le forme e i colori da cui si levava un inquietante aroma di cose morte ed essiccate. A Sarah quell’odore ricordò le grotte di terriccio sotto cupole di radici d’albero in cui spesso accadevano fatti, magici oppure sinistri, nelle storie che leggeva da bambina. Sul vassoio intanto Elli aveva creato un caleidoscopio di tinte slavate che sembrava facile da ingerire come una montagnetta di ghiaia. «Stai dritta con la schiena», le ordinò, passandole un bicchierone d’acqua. «Rilassa completamente la gola, così vanno giù meglio».
Fu un processo lungo e disgustoso, buttare giù tutto. Alcune capsule contenevano polverine beige, dorate e verde oliva, alcune compresse sapevano di muffa o di salato e le asciugarono la saliva dalla bocca, come mangiare il gesso. Erbe, sali minerali, endospore, elementi della terra. Meccanicamente, Sarah si inumidiva la bocca, si piazzava una pasticca in fondo alla lingua, rilassava i muscoli della gola e la buttava giù, con il costante sottofondo della voce instancabile e musicale di Elli. «A Karen dico sempre che maschi e femmine, e quindi donne e uomini, maturano a un ritmo molto diverso – è scientificamente provato che se prendiamo una ragazza di sedici anni come te, e un ragazzo di sedici anni, fisicamente sembrate uguali, ma chimicamente – e ricordati che emozioni e pensieri sono fatti di sostanze chimiche – quella ragazza e quel ragazzo di sedici anni si trovano a livelli completamente diversi. Emotivamente, intellettualmente, la femmina è anni avanti al maschio. Quella capsula che sembra gelatina è olio di pesce, lo so che puzza ma ti lubrifica il cervello, è importantissimo. Anche se prendi solo quella, subito ti senti più calma. E il fatto è che i maschi non recuperano mai. O almeno non del tutto. Prendi mio padre, il nonno di Karen. Ha cinquantotto anni e a stento è più maturo del fratello piccolo di Karen, Kevin. Anche se Kevin ha una parte femminile molto più sviluppata, perché siamo tutti un po’ mescolati. Quando dico uomini e donne oppure ragazzi e ragazze sto semplificando, perché siamo tutti una miscela di maschile e femminile anche se in generale le donne sono più femminili e gli uomini in generale più mascolini, ma la faccenda non è o bianca o nera, assolutamente. Mio padre è un uomo molto mascolino ed è tipo un incrocio tra un animale e un bambino; già a quindici anni Kevin gli starà un pezzo avanti, sono convintissima. Ma il tuo, il ragazzo che ha ferito te – direi che in lui domina il maschile. Lo conosco? È un vostro compagno? No, gioia, non dire niente. Certe volte parlare aiuta e certe volte è peggio. Dormi». Perché Sarah si alzava tutte le mattine alle sei, sette giorni su sette su sette su sette. La testa le cadde in avanti, forse il mento si posò addirittura sul petto, il bicchier d’acqua svuotato le sfuggì di mano, sentì le manine morbide di Elli che la rigiravano, le scostavano da sotto il copriletto e le lenzuola, il letto rimase qualche altro istante senza pace, l’abat-jour era ancora acceso ma Sarah non vedeva quasi nulla, non sentiva quasi nulla, neanche quando il clic dell’interruttore portò il buio totale e i sobbalzi del letto cessarono e furono sostituiti da una pressione che la accerchiava. «Posso farti le coccole, gioia?», si udì il sussurro imperturbabile di Elli. «Poverina, quanto sei stanca...» E in effetti Sarah era troppo stanca per rispondere o spostarsi o ritrarsi dall’abbraccio avvolgente della sua compagna di letto.