«Karen» era ferma davanti alla libreria Skylight di Los Angeles ad aspettare l’autrice, sua vecchia amica. L’autrice, sua ex compagna di scuola. Dire «amica» era presumere troppo? Dire «Karen» era concederle troppo? «Karen» non si chiama «Karen», ma «Karen» aveva capito, quando aveva letto il nome «Karen», che era di lei che si parlava. Importa a qualcuno, tolta «Karen», di come si chiama veramente «Karen»? Non solo non importa a nessun altro, ma il fatto che importi a «Karen» probabilmente metterà «Karen» in cattiva luce, proprio come tante altre cose di «Karen» mettono «Karen» in cattiva luce. Perciò «Karen» non insisterà per fornire né il proprio vero nome né quello di chiunque altro, anche se le piacerebbe precisare che capisce perfettamente cosa c’è dietro la scelta di «Karen» per riferirsi a lei. Senza offesa per le effettive Karen, come nome «Karen» non è sexy per niente: è troppo moderno per avere un fascino rétro e non abbastanza da sembrare originale. È privo di verve. Fa un effetto scialbo, ma non così scialbo come ad esempio «Jane», talmente scialbo che l’espressione Plain Jane, benché a rigore significhi «donnetta scialba», è invece piena di verve, fa rima e suggerisce uno scialbore romantico: dici Plain Jane e la gente sorride. E𝔟𝔬𝔬k 𝔢𝔰𝔠𝔩𝔲𝔰𝔦𝔳𝔞 𝔡𝔢𝔩 𝔰𝔦𝔱𝔬 e𝔲r𝔢k𝔞ddl. Invece «Karen» non ha nessuna di queste connotazioni. Una «Karen» non è un tipo grazioso, né sveglio, né apparentemente scialbo finché non si toglie gli occhiali; «Karen» è un nome da annuario scolastico, un riempitivo, una tizia con un taglio di capelli come cento altre e una faccia che hai dimenticato. Io non mi chiamo né mi sono mai chiamata Karen, ma sarò Karen. Non sto a cavillare. Visto? Ho pure tolto le virgolette.
Karen era ferma davanti alla libreria Skylight di Los Angeles ad aspettare l’autrice, sua vecchia amica.
Non era una persona cavillosa, non lo era mai stata, non aveva mai avuto abbastanza controllo di sé o abbastanza personalità da concedersi il lusso di essere cavillosa, perché chi si mette a cavillare è sempre uno che ha più dello stretto necessario. Ciononostante: le piacerebbe precisare che la scelta del suo nome, questo Karen al quale si è rassegnata, non è la sola cosa che capisce perfettamente. Capisce perfettamente anche molte altre allusioni, con la facilità con cui si traccia una linea tra una colonna di cose sulla sinistra e una colonna di cose sulla destra e si fanno degli incroci che cuciono insieme le due colonne come punti di sutura. Come facevamo da bambini, no? A sinistra può esserci una colonna di immagini e a destra una colonna di parole, però le coppie non sono fianco a fianco, sono mescolate, e bisogna abbinarle. Non è difficile. Aveste conosciuto me – aveste conosciuto Karen – o uno qualunque degli altri, ci riuscireste anche voi. Anzi, lo schema è fin troppo semplice... per rispetto della «verità»? Per mancanza di fantasia? È meglio o peggio, che il codice sia facile da decifrare? Sarah e David sono le persone che devono per forza essere, solo i nomi sono stati cambiati, e nemmeno tanto: i nuovi nomi hanno lo spirito giusto, sono fedeli ai loro correlativi, anzi sono così adatti da risultare inutili, la loro distanza dalla verità è così irrilevante che potrebbero benissimo essere la verità che hanno sostituito. Anche il professor Kingsley è la persona che deve per forza essere; anche il suo, di nome, ha lo spirito giusto. Malgrado l’apposizione di alcune pittoresche modifiche al personaggio, queste non servono a dissimulare la persona storicamente esistita, benché qualcosa dissimulino. Un qualcosa che però non spetta a Karen smascherare; non è qui per fare rivelazioni senza preavviso. Pammie, al contrario del professor Kingsley, non è una persona storicamente esistita bensì il modo in cui veniva messa in ridicolo la religiosità di Karen. Julietta è il modo in cui la religiosità di Karen veniva ammirata. Joelle è l’intimità fra Karen e Sarah, rinnegata e ricollocata addosso a una persona storicamente esistita, molto simile a Joelle, con la quale però Sarah non era effettivamente in amicizia. Perché attribuire la sofferenza dell’amicizia interrotta a Joelle, perché portarla via a Karen? I motivi potrebbero essere psicologici. Perché privare Karen della religiosità e al tempo stesso far diventare Pammie la sua religiosità ridicola e Julietta la sua religiosità ammirevole? I motivi potrebbero essere artistici. Queste sono solo ipotesi; Karen non è il tipo da arrogarsi una profonda conoscenza di persone che frequentava da ragazzina, a cui poi ha voltato le spalle e che infine ha usato come le pareva per il proprio tornaconto personale. Sia detto senza polemica. Non è per cavillare.
Karen è ferma davanti alla libreria Skylight di Los Angeles ad aspettare l’autrice, sua vecchia amica. Karen ha trent’anni, la stessa età dell’autrice sua vecchia amica. Non vede l’autrice sua vecchia amica da quando ne avevano diciotto. Nei dodici anni trascorsi, a Karen sono successe molte cose. Il grosso di quanto le è successo è la psicoterapia, e il resto viene tendenzialmente descritto in termini presi dalla psicoterapia. Di questa tendenza Karen è consapevole, e non se ne rammarica: almeno sa da dove proviene il suo linguaggio. Se, tuttavia, Sarah – per esempio – dovesse chiederle che cos’ha combinato in questi ultimi dodici anni, nel risponderle Karen eviterebbe il gergo degli psicologi con la stessa cura con cui un tempo evitava il gergo dei cristiani. Farebbe così per essere presa sul serio da una persona priva di fede: malgrado Karen non solo non apprezzi, ma neppure rispetti questa persona priva di fede, la vergogna che provava un tempo andrebbe a coprire la sua fede, il suo bisogno di fede – la sua fede nella fede – come una macchia, e oggi come allora Karen si farebbe passare per una che non ha fede. Questo non è cambiato. Mah, niente di che, direbbe. Più che altro ho fatto la capufficio, la segretaria privata, l’organizzatrice personale, roba così... magari a scuola non te ne sei mai resa conto, ma io sono un tipo molto organizzato [risata]. È una specie di maledizione, se vedo una cosa devo renderla più efficiente. Credo sia una reazione a mia madre [risata]. Ma non è male, come modo di campare. Le persone mi pagano per organizzargli la vita, i clienti me li scelgo io, gli orari li decido io. Si guadagna bene. Mi resta molto tempo per viaggiare. Io e mio fratello – non so se ti ricordi che ho un fratello – siamo appena stati in Vietnam e in Laos. Sì, un viaggio stupendo. Bellissimo.
Nel dire queste cose, se le dirà, Karen sarà consapevole dell’apparente noncuranza con cui metterà in primo piano gli aspetti più invidiabili della propria vita. Sarà talmente consapevole di questo suo sforzo di suscitare invidia, e dello sforzo di occultare lo sforzo, che sarà difficile credere che Sarah non se ne renda conto a sua volta, malgrado abbia fornito ampie prove della sua incapacità di comprendere le emozioni di Karen. Tra i sinonimi di «ampio» vi sono «ricco», «copioso» e «abbondante» ma non, secondo questo particolare dizionario, «voluminoso», che però alla propria definizione elenca sinonimi tra i quali «grande», «enorme», «spazioso», «capace» e... «ampio». Talvolta la sinonimia va in una direzione sola. Il dizionario ci racconta che «voluminoso» arriva fin qui dal passato grazie al latino voluminosus, che significa «dotato di molte spire», che a sua volta arriva dal latino volumen, cioè un rotolo che, facendo nuovamente inversione, raggiunge il Medioevo per diventare la parola «volume», che indica un rotolo di pergamena scritta. Chiunque può reperire queste informazioni: l’abilità di alcuni con le parole non è in effetti un loro bernoccolo, dono o talento. È solo la prova che possiedono un vocabolario e un dizionario dei sinonimi. Per come siamo state cresciute noi – con «noi» intendo io e Sarah; con «cresciute» intendo fornite delle idee che più hanno contato per noi, e a fornircele non sono stati i nostri genitori ma i nostri insegnanti e amici – il talento era l’unica religione, l’unico articolo di fede che non venisse deriso. Il talento era un dono divino incarnato nei mortali e o ce l’avevi o non ce l’avevi, o avevi ricevuto il dono o non l’avevi ricevuto, ma in entrambi i casi lo veneravi. Se avevi ricevuto il talento lo veneravi mettendolo a frutto, e non c’era peccato più grave che sprecarlo. Se invece non l’avevi ricevuto, lo veneravi servendo quelli che ce l’avevano. E con spirito gioioso e non geloso, oltretutto. Karen e Sarah, lo sapete che senza di voi non potremmo mai preparare il saggio, siete due maghe della sartoria, ragazze, siamo fortunati ad avervi ai costumi! Forse che Sarah non faceva ogni anno i provini del saggio, malgrado possedesse l’estensione canora di un rospo? Certo che li faceva. Forse che Karen non faceva ogni anno i provini del saggio, lei che cantava da solista nel coro della sua chiesa? Certo che li faceva. Si sono mai viste assegnare un ruolo, anche solo una particina, anche solo una volta in quattro anni? No, mai. Erano membri permanenti della maggioranza misteriosa: quelli che avevano abbastanza talento da essere ammessi alla scuola ma non da diventarne le stelle. Dovevano fungere da sfondo contro il quale le stelle si stagliavano, e dovevano farlo con gioia, senza rancore, benché l’ammissione alla scuola somigliasse molto a una promessa che ogni anno veniva rinnovata per poi essere infranta. Ogni anno uno di quelli percepiti a torto o a ragione come eterni sfigati si vedeva inaspettatamente assegnare un ruolo da protagonista, cosa che da una parte teneva accesa la speranza e dall’altra intensificava l’umiliazione. In Quarta era successo al tipo che chiameremo Norbert. Norbert. A quel punto Karen era già fermamente tornata al proprio sogno infantile della danza, sebbene al posto di classica avesse iniziato a fare moderna e fingesse di guardare alla recitazione dall’alto in basso. La recitazione l’aveva scelta da quattordicenne: ancora bambina, aveva scelto un’arte destinata ai bambini. In Quarta teneva ormai un atteggiamento di placida superiorità, lieta di dare una mano con i costumi in modo che i bimbi della sezione Teatro potessero divertirsi. Ma bisognava si sapesse che all’università avrebbe continuato con la danza moderna. Sarah aveva assunto più o meno la stessa posa, ma con la scrittura. Pagine e pagine e pagine, riempiva la Sconsolata Sarah sul suo Serio Taccuino. L’unica differenza è che Sarah ce l’ha fatta, avendo mirato più in basso e abbracciato un talento che chiunque, con gli strumenti adeguati, può fingere di possedere. Provate a far finta di saper ballare: impossibile. La vera arte richiede disciplina, pretende che si scolpisca il muscolo e lo si leghi all’osso. Io non ballo dai tempi del college perché sono una realista e ho capito per tempo che non potevo diventare una ballerina di professione così come non potevo diventare un’attrice di professione, perché sebbene sia veramente asciutta, sono troppo bassa e troppo larga. Forse avrei dovuto fare la nuotatrice, ma insomma. Insomma, Karen non balla da dieci anni ma agli estranei continua a bastare un’occhiata per capire che una volta ballava seriamente, lo vedono dalla postura, ecco fino a che punto se l’è radicata dentro, quanto lavoro ci ha dedicato.
Il duro lavoro su di sé, sul duro muscolo e l’ossatura di sé. Senza infilarci niente di nessun altro per dare l’idea di qualcosa di ampio, ricco, copioso, abbondante o voluminoso.
Ero arrivata in libreria decisissima a sedermi tra il pubblico. Immaginavo Sarah che mi vedeva, magari appena avvicinatasi al microfono o magari dopo aver già iniziato a leggere. In entrambi i casi mi ero immaginata che il suo riconoscermi potesse farle, alla voce, lo stesso effetto di un urto contro il piatto ai tempi in cui ascoltavamo i dischi. La puntina avrebbe fatto un salto e poi sarebbe calata di nuovo e lei avrebbe finto di andare avanti, ma ci sarebbe stata quella minuscola pausa, quella soluzione di continuità. Magari l’avremmo notata solo io e lei, ma non pretendevo che lo notassero gli altri, anzi non volevo che lo notassero. Non ero in cerca di un attimo di visibilità, con il pubblico come strumento. Da ragazzine, o da studentesse, o qualunque cosa fossimo nel posto che chiameremo CAPA, ci avevano insegnato che i momenti d’intimità non significavano niente, se non facevano parte di uno spettacolo. I modi in cui ci apprezzavamo, odiavamo, invidiavamo, tormentavamo e punivamo a vicenda non sembravano mai abbastanza autentici, se Kingsley non li metteva in scena a Esercizi di Fiducia, e lui sceglieva pochissimi dei nostri momenti. Sarah e David, dovrebbe risultare evidente a chiunque, li invidiavamo tutti per l’attenzione che riscuotevano. Anzi, era quella la loro celebrità, una celebrità diversa dal fare una parte da protagonisti ma alla lunga molto più potente. Diventare una stella alla CAPA era un’impresa da ottimisti della più bell’acqua, per la quale bastava avere i denti bianchi e dritti, saper cantare e aderire a una serie di idee della vita che in quel momento eravamo troppo giovani per riconoscere come idee o, se vogliamo, come sistema di valori. Al contrario di gran parte di noi, io ero cresciuta all’interno di un sistema di valori religioso ma a quell’età neppure io mi rendevo conto che la celebrità interna alla CAPA era anch’essa un sistema di valori, e non solo l’andamento naturale delle cose. La diversa celebrità di David e Sarah era l’indizio rivelatore di un qualche universo alternativo dove tutto era ribaltato, e al posto della scoperta, dell’amore e del successo vigevano la distorsione, il distacco e il fallimento. Quello era lo spettacolo di cui erano protagonisti loro. Gli esercizi che Kingsley li costringeva a fare, ho capito solo molti anni dopo, erano una forma di pornografia. Insomma, volevo dire che avevo deciso di non sorprendere Sarah davanti a un pubblico. Non l’avevo deciso per gentilezza nei suoi confronti; semplicemente, non volevo concederle alcuna superiorità morale.
Un’altra cosa, prima che Karen e Sarah si rivedano. Nella sua storia, Sarah prende la vera amicizia tra Sarah e Karen e la trasforma in un’amicizia tra Sarah e Joelle. Prende inoltre la vera fine di quell’amicizia e la trasforma in uno spettacolo a cui assistono tutti i compagni di corso, un Esercizio di Fiducia. Ma non è andata così. La morte della nostra amicizia si consumò in privato. L’agonia si svolse a distanza, ma all’ora del decesso eravamo faccia a faccia, solo noi due. Era il mio primo giorno di rientro a scuola dopo parecchi mesi. Avevo passato l’autunno e l’inverno del mio terzo anno in un istituto di studi biblici e non vedevo Sarah dall’inizio di quell’estate, estate che lei aveva trascorso in Inghilterra con un amante molto più grande. Era riuscita a fare questa cosa andando con l’auto della madre, presa senza il permesso della madre per fuggire da una lite con la madre, causata dal rifiuto della madre di autorizzare quel viaggio in Inghilterra, a sbattere contro un camion dopo essere passata col rosso, distruggendo la macchina e riportando ferite non mortali ma di una certa rilevanza. Appena dimessa dall’ospedale e ottenuto il passaporto era partita per l’Inghilterra, e non era tornata fino al giorno precedente l’inizio della scuola. Conoscevo questi particolari perché mia madre aveva scarrozzato la madre di Sarah per tutta l’estate, accompagnandola al supermercato e dal dottore, perché Sarah le aveva distrutto la macchina e sua madre non poteva permettersi di ricomprarla. La madre di Sarah era disabile, cosa a cui per qualche motivo la storia di Sarah non accenna.
Quel primo giorno di rientro ero arrivata a scuola presto per lasciare la macchina nel parcheggio sul davanti, dove i posti non erano molti, perché volevo evitare tutti quelli che conoscevo, e loro parcheggiavano dietro. Era gennaio e l’aria era effettivamente fredda, l’umidità dell’aria era fredda, e il freddo umido creava una caligine che nel mio ricordo ammorbidisce la luce in modo da farmi sentire nascosta e addirittura sola, come se potessi davvero riuscirci, a passare quel primo giorno di scuola senza vedere nessuno che conoscevo anche se la scuola era piccola, e ogni anno nel corso c’era la stessa gente, e non c’era proprio verso di passare neppure un’ora senza vedere tutti. Ma pure qualche minuto senza vederli avrebbe contato. Nel parcheggio davanti c’era la macchina di qualche prof, ma era ancora mezzo vuoto. L’idea era di andare a sedermi nel cortiletto dei fumatori, che dava sulla mensa da una serie di porte vetrate e quindi non era un gran posto per nascondersi, ma almeno da lì si vedeva la gente arrivare. Sapevo che non c’erano posti per nascondersi e che al massimo potevo mettermi in un punto dove veder arrivare la gente, ma poi avevo aperto il pesante portone d’ingresso della scuola ed ecco là Sarah. Pareva stesse uscendo. Erano le otto meno un quarto del mattino, mancavano tre quarti d’ora alla prima campanella. Non c’era nessun altro, e nessun altro suono; gli adulti erano tutti in sala professori o chiusi nelle rispettive aule.
Sarah indossava una specie di tenuta punk che doveva dare un’impressione di noncuranza – punk – e invece gridava al mondo la sua fatica. La fatica di tutti i mesi trascorsi a lavorare alla panetteria per guadagnare soldi suoi, la fatica di distruggere l’auto della madre per intimorirla al punto da rinunciare a ogni controllo sulla vita della figlia, la fatica di attraversare l’oceano per passare l’estate con un uomo molto più grande di lei, la fatica di percorrere Carnaby Street e scegliere i capi giusti senza sapere cosa ciascuna scelta significasse. La tenuta era composta da anfibi Doc Martens, calze a rete nere smagliate, jeans délavé tagliati a mezza gamba e una T-shirt bianca, rossa e nera con sopra un tizio con la cresta che diceva Oi! Portava i capelli corti, e si era fatta una riga spessa sopra e sotto gli occhi. Ma dentro la riga gli occhi non sembravano più grandi, come lei probabilmente sperava, bensì incavati rispetto al resto della faccia, come se si fosse messa una maschera. Da sotto la maschera di eyeliner vide me, la persona che con tutte le sue forze aveva sperato di evitare, proprio come lei era la persona che con tutte le mie forze io avevo sperato di evitare, sicché, pensando e agendo allo stesso modo, i nostri sforzi si erano annullati a vicenda. E subito il suo sguardo si irrigidì, della rabbia che sempre proviamo verso chiunque guasti la nostra idea di noi stessi.
Non so cosa vide lei nel mio, di sguardo. La sua storia non racconta il mio sguardo, né lo rappresenta tramite qualcun altro, o forse lo fa ma io sono talmente illusa da non riconoscerlo; è possibile. Comunque quello che avrebbe dovuto vederci era un’esplicita accusa, che a lanciarla non ci vuole molto. Ci guardammo giusto il tempo che bastava. Direi che non ci fermammo neanche, io che entravo e lei che usciva dalla stessa porta. Tutto ciò che avevamo provato l’una per l’altra, e che per tutta l’estate si era andato esaurendo quasi con naturalezza, come lentamente muore la fiamma di una candela quando le si toglie l’aria, esplose e d’un tratto, anziché spirare, diventò qualcos’altro. Ma la nostra amicizia era finita.
Karen era ferma davanti alla libreria Skylight di Los Angeles ad aspettare l’autrice, sua vecchia amica. L’autrice sua vecchia amica era arrivata alla libreria in macchina circa un quarto d’ora prima, e si era fermata davanti al negozio nello stesso punto in cui adesso era ferma Karen. L’autrice sua vecchia amica aveva dato un’occhiata dentro e poi all’orologio, come se aspettasse qualcuno o qualcosa, o come a voler dissimulare un’esitazione fingendo di aspettare qualcuno o qualcosa. Poi, come se il qualcuno o qualcosa fosse arrivato oppure l’esitazione cessata, era entrata nel negozio. Durante questo lasso di tempo, Karen l’aveva osservata da un caffè di fronte. Lì anche Karen attendeva qualcuno o qualcosa, e anche lei aveva esitato. Attendeva l’autrice sua vecchia amica, e la sensazione che avrebbe provato nel rivedere l’autrice sua vecchia amica. La sensazione era stata precisa e appagante: un’improvvisa pressione sullo sterno, che significava euforia, terrore, ansia e riluttanza, tutte mescolate insieme, ma con l’accento su euforia e ansia. Karen era molto brava ad analizzare e battezzare le proprie sensazioni. Aveva alle spalle anni di esercizio. Il senso di pressione sullo sterno era anche simile alla fame, imponeva di agire, al contrario di altre sensazioni analoghe che malgrado l’analogia sono completamente diverse, non impongono di agire bensì trattengono dal farlo. L’esitazione di Karen stava aspettando quel segnale e una volta che lo aveva ricevuto era cessata, lei si era alzata, aveva pagato il caffè e aveva attraversato la strada per entrare in libreria, ma prima di far questo aveva avuto un altro momento di esitazione, l’esitazione sul sedersi o meno tra il pubblico. Come già esposto, Karen era decisa a sedersi tra il pubblico se mai fosse andata alla presentazione, ma una volta ferma davanti alla libreria, a guardare dalle ampie vetrine le persone arrivate in anticipo che gironzolavano sbirciando tra gli scaffali, Karen aveva formulato tutti i suddetti pensieri su spettatori, deliri di onnipotenza e superiorità morale e aveva deciso di non sedersi tra il pubblico ma di rimanere fuori sul marciapiede dove non sarebbe sembrata fuori luogo, perché per un marciapiede losangelino quello era animato, trovandosi in uno dei pochi quartieri «camminabili» di cui Los Angeles va tanto fiera. Karen aveva vissuto a Los Angeles per un periodo di diversi anni che era finito diversi anni prima, ma suo fratello ci abitava ancora, lei ci capitava ancora un paio di volte l’anno, ci si sentiva ancora a casa. Era ancora sul suo territorio, si potrebbe dire. Aveva anche fatto un giro in questa libreria in precedenza, ma non ci aveva comprato niente. Si appoggiò disinvolta al cristallo della vetrina, schermandosi gli occhi con le mani per visualizzare l’interno del negozio. Il sole calava, la sua luce fiammeggiante arrivava dal lato della strada dov’era il caffè e dipingeva d’oro le parti solide di Skylight Books, al tempo stesso mutando la vetrina in uno specchio accecante e creando enormi rettangoli dorati all’interno, sul pavimento grezzo e su per gli scaffali piazzati ovunque ad angoli artificiosi in modo da formare una specie di labirinto. Con la luce alle spalle, Karen capì di poter premere la faccia contro la vetrina e apparire a chiunque stesse dentro solo come una sagoma scura, un vantaggio che non aveva previsto. Oltre il labirinto degli scaffali riusciva a vedere la zona della libreria dove si tenevano le presentazioni. C’era un leggio di fronte a diverse file di seggioline pieghevoli. Qualcuno cominciava a occuparle, mentre altri seguitavano a girovagare. Alcuni dei girovaghi reggevano pensosi pile di libri che avevano già scovato, mentre altri contemplavano pensosi gli smilzi cartellini affissi alle pareti per descrivere i libri esposti sotto. Arte. Umorismo. Saggistica. Manualistica. Narrativa. Le parole sui cartellini formavano un sistema tale per cui chiunque facesse acquisti nel negozio concordava implicitamente sul significato delle parole stesse. Il giorno prima, il giorno che era arrivata a Los Angeles, Karen era stata in una farmacia e tra i cartelli che descrivevano il contenuto di ciascuna corsia – «Cura dei capelli»; «Tosse e raffreddore»; «Cosmetici» – ce n’era uno che diceva «Intimità personale». In quella farmacia si classificavano determinati articoli secondo la categoria dell’«Intimità personale»; nella libreria si classificavano determinati articoli secondo le categorie «Arte», «Umorismo», «Saggistica», «Manualistica» e «Narrativa». «Autrice di narrativa» è la categoria in cui la vecchia amica di Karen mette sé stessa. Una categoria è un modo di definire, mentre una definizione, secondo il vocabolario, è la spiegazione del significato preciso di un termine. Il vocabolario ci dice che la narrativa è scrittura in prosa basata sul racconto di fatti e personaggi immaginari, è opera di invenzione o finzione, in opposizione alla realtà. Il vocabolario ci dice che l’immaginario esiste solo nell’immaginazione. La logica ci dice che quanto esiste solo nell’immaginazione non esiste nel mondo della realtà, o della verità, che secondo il dizionario dei sinonimi sono la stessa cosa.
Il tramonto del sole dietro i palazzi di fronte illuminò meglio l’interno del negozio, e adesso Karen riusciva a vedere bene fino al leggio e alle sedie senza stare troppo appiccicata alla vetrina. Si appoggiò quindi al lampione, sempre sapendo che così non poteva essere vista da dentro, dove, finalmente, un uomo pallido e magro con un sipario di capelli davanti alla faccia si avvicinò al leggio, disse due parole e andò a sedersi da qualche parte. A quel punto davanti al leggio comparve Sarah. Anche a lei cadeva in faccia un sipario di capelli, lisci e scuri come un pezzo di mobilio pregiato. Alle superiori Karen e Sarah si erano fatte ogni cosa possibile e immaginabile ai capelli, tranne prendersene cura: se li erano ossigenati, rasati, permanentati, tinti, come spesso fanno le ragazze quando gli sembra che vandalizzarsi sia il modo migliore di dimostrare che il loro corpo è loro. A quanto pare, Sarah aveva imparato che anche la costosa cura di sé serve a dimostrare che il tuo corpo è tuo: ogni centimetro della sua superficie era tirato a lucido. Non poteva essere un caso che i capelli con la riga da una parte fossero quel filino troppo corti per rimanere ancorati lontano dal viso ogni volta che con la mano destra, in un lieve gesto pudico, se li ravviava dietro l’orecchio destro. Lei ravviava; i capelli ricadevano a eclissarle la faccia. Karen si domandò se quel tic risultasse così palese anche alle persone dentro la libreria, che la sentivano leggere, o se il suono della voce rendesse il gesto meno evidente.
A un certo punto da dietro il vetro si udì il debole rumore di un applauso. Poi sembrò che ci fossero delle domande. Sarah rialzò il capo chino sul leggio e guardò dritta verso il pubblico, sicché adesso il sipario di capelli rimaneva di lato e non c’era più bisogno di ravviarlo. Sarah ascoltava attenta, annuiva, rispondeva, e qualche volta sorrideva. Appariva meno impacciata e pretenziosa, più rilassata e intelligente. Anche il sorriso, che era sempre stato uno dei suoi tratti più piacevoli, sembrava migliorato, come i capelli. Sarah aveva quel tipo di faccia che, quando non assume una specifica espressione, tende a sembrare inquieta, preoccupata o folle. Lì per lì era impossibile sapere con certezza quali pensieri avesse in testa, se pure ne aveva, ma il più delle volte pareva quasi di vederli, e che fossero ostili. Alle superiori alcuni insegnanti, quelli con la pelle fina e la miccia corta, non facevano che dirle di smettere di fare quella faccia, cosa che pareva sconcertare Sarah o forse ferirla – spalancava gli occhi che brillavano come se fossero umidi – al punto che ti chiedevi se «quella faccia» in realtà non esprimesse nulla, non pensieri ostili bensì zero pensieri. Poi, quando sorrideva, tutta quest’incertezza sui suoi pensieri spariva. Ma Sarah non sorrideva spesso, o almeno non a quei tempi.
Dopo un secondo scroscio di applausi gli intervenuti cominciarono ad alzarsi e a riprendere il loro girovagare. L’uomo pallido e magro accompagnò Sarah a un tavolo con sopra una tovaglia bianca e una pila ordinata di libri e lei si sedette con l’aria impacciata di chi sa di essere osservato mentre fa una cosa normalissima come sedersi, e quindi cerca di farla come se in realtà non lo stessero osservando, con l’unico risultato di accentuare l’effetto di un’esibizione: un’esibizione di ritrosia, proprio come quando si ravviava i capelli. Qualcuno le porse un pennarello, davanti al tavolo si formò una fila di persone che volevano farsi firmare il libro e Sarah scomparve dietro la fila di persone in attesa del loro momento con lei. A questo punto potreste anche perdere la pazienza, sentendomi cambiare idea un’altra volta, ma la verità è che dopo aver deciso di non sedermi tra il pubblico non avevo ancora deciso come avvicinare Sarah. Forse me la vedevo uscire dal negozio come ci era entrata, e poi noi due insieme là sul marciapiede. Il sole era calato del tutto e il bagliore d’arancio dolciastro del lampione dava al marciapiede un’aria discreta, forse troppo. Non mi ero piazzata fra il pubblico, non mi ero presa la soddisfazione di infrangere la quarta parete. Ma la fila era un’altra faccenda. Prometteva a ciascuno un contatto privato, eppure soggetto alle regole dei contatti in pubblico. Tipo, tutti sorridono e nessuno scappa. Tutti questi pensieri produssero una lunga esitazione, durante la quale tutti coloro che in negozio esitavano a loro volta sul mettersi in fila, oppure stavano comprando un libro prima di mettersi in fila, pian piano si misero in fila, sicché quando Karen entrò in libreria e si mise anche lei in fila si ritrovò ultima. Per un attimo la luce del negozio, accecante dopo la penombra del marciapiede, le diede l’impressione che entrare fosse stato uno sbaglio. L’esperienza delle percezioni più semplici, per esempio la sensazione di accecamento che deriva dall’entrare in uno spazio fortemente illuminato dopo essere stati fermi un’ora al buio, induce spesso a farsi un’idea non corretta – ho commesso un errore – che induce un’emozione – l’ansia – che rinforza l’idea. Un autore tra i preferiti di Karen – perché, malgrado Karen di fatto non legga narrativa né quasi nient’altro di quel che si trova nelle librerie come Skylight Books, legge comunque moltissimo ed è una vera esperta di quattro o cinque argomenti che le stanno a cuore – ha scritto un libro che, una volta letto, ha insegnato a Karen ad analizzare i propri stati emotivi con la stessa chiarezza che se li vedesse passare attraverso un prisma, il quale non solo li rende visibili ma li scompone nei loro elementi costitutivi. Una volta che si impara a fare così, è molto difficile non pensare che gli altri siano tutti ciechi. L’aver già fatto esperienza del senso di superiorità che deriva dalla fede religiosa aiuta a limitare la sopravvalutazione di sé stessi. E un’altra cosa che aiuta è classificare secondo categorie che d’istinto si percepiscono sensate, mettere il simile con il simile, e saperlo fare è il motivo per cui Karen è brava nel suo lavoro. Mentre faceva la fila, tutta composta da persone con gli occhi puntati su Sarah, persone che si rifiutavano perfino di guardarsi tra loro perché incapaci di credere che qualcun altro potesse aver stabilito con Sarah lo stesso specialissimo legame che avevano stabilito loro solo leggendo il suo libro, Karen ebbe tutto il tempo di tirare fuori la sua copia. C’era ancora dentro il segnalibro piantato a pagina 159, a fissare il punto in cui, secondo Karen, era giunta la fine. Dato che, come il lettore apprenderà, Karen non aveva alcuna difficoltà a chiudere la porta in faccia alla madre quando la madre tentava di andare a trovarla, figurarsi se aveva difficoltà a chiudere un libro che ritraeva anche sua madre ma espungeva lei sotto molti aspetti importanti.
Man mano che la fila avanzava, una giovane commessa della libreria la percorreva a ritroso, porgendo a ciascuno un Post-it e, se necessario, una penna. «Se desiderate che Sarah vi firmi il libro, cortesemente scrivete il vostro NOME sul Post-it con la precisa grafia che desiderate venga usata, e per cortesia usate il Post-it per SEGNARE LA PAGINA dove volete la dedica. Di solito è il frontespizio. Se volete che Sarah scriva solo il vostro nome proprio, CORTESEMENTE SCRIVETE SOLO QUELLO. Se volete che vi firmi il libro per qualcun altro, CORTESEMENTE SCRIVETE IL NOME DELLA PERSONA. Se si tratta di un regalo di compleanno o altra ricorrenza, cortesemente scrivete sul Post-it COMPLEANNO o altra ricorrenza. Grazie! Qualcuno è senza penna? D’accordo, tenga comunque il Post-it. Lo usi per segnare la pagina dove vuole la firma. Così Sarah può aprirlo subito alla pagina giusta. La pagina può deciderla lei, ma di solito è il frontespizio. Qualcuno è senza penna? Uh, ma lei è davvero organizzata!» Mentre il metodo salva-tempo veniva spiegato e rispiegato a ogni componente della fila, Karen aveva già preso dalla ventiquattrore un blocchetto di Post-it e una penna, scritto «Karen» su un Post-it e appiccicato il foglietto sul margine del frontespizio. E sì, sul Post-it avevo messo le virgolette. Volevo che Sarah le usasse, quando mi firmava il libro.
«Avevo i miei», disse Karen alla commessa, dotata di targhetta con scritto «Emily». L’estenuante fatica che faceva per risparmiare a Sarah forse trenta secondi a dedica certificava che Emily non dava alcun valore al proprio tempo.
«Ah però, ha proprio l’edizione cartonata», commentò Emily. Essendo Karen l’ultima della fila, non c’era rimasto nessun altro che potesse richiedere un Post-it o aver bisogno di spiegazioni metodologiche, perciò Emily si attardò con Karen via via che a passettini si avvicinavano al tavolo bianco. Karen non fece nulla per incoraggiarla. «Adoro la copertina dell’edizione cartonata», continuò Emily come se l’avesse disegnata la stessa Karen. «Certo», proseguì quindi a mo’ di rettifica, «anche quella del tascabile è bellissima. È proprio un libro stupendo, dentro e fuori. Lei l’ha già letto?»
«Sì», disse Karen prendendola, senza sensi di colpa, come una domanda generica. Ma evidentemente non c’era modo di tagliare corto. Emily sembrava pendere dalle sue labbra, sembrava aver intuito che tra Karen e il libro c’era un legame particolare, o magari questa era l’ennesima idea non corretta di Karen. «Molto attentamente», aggiunse, per rimediare a una mezza bugia insignificante che Emily non avrebbe mai colto: il che le fece tornare in mente il proprio storico problema di voler sempre compiacere il prossimo, estranei compresi, senza nessuna ragione. Aveva sempre sperato che definirlo storico – cioè riconosciuto e documentato – avrebbe confinato il problema al passato, ma fino adesso non era andata così.
«Uh, accidenti!», disse Emily, gratificata. «Una vera fan!»
«Oddio». La voce di Sarah, fin lì melliflua, vaga e artificiosa come rumore bianco, ricadde bruscamente su un registro più basso, come se le fosse scappato un ruttino nel bel mezzo di una canzonetta: perché la penultima persona si era voltata per andarsene, come un sipario scostato, rivelando Karen. Era il momento che Karen attendeva e, distratta da Emily la commessa, l’aveva mancato. O meglio, aveva mancato di vederlo; lo aveva sentito. Ma avrebbe tanto voluto vederlo. Avrebbe voluto cogliere Sarah in un istante di panico. Invece la vide alzarsi subito da dietro il tavolo bianco, scatenando il rarissimo quanto abbagliante sorriso. Dicendo «abbagliante» intendiamo notevole, bellissimo, oppure smagliante, ma anche così splendente da provocare una temporanea cecità. L’aggettivo deriva dal verbo «abbagliare», che può voler dire offuscare la vista a qualcuno, ma anche stordirlo al punto che non riesce a pensare o a reagire nella maniera giusta; si pensi alla locuzione «prendere un abbaglio». Alle superiori l’uomo che stiamo chiamando professor Kingsley ci aveva assegnato, da quindicenni, la canzone intitolata «Razzle Dazzle» come pezzo da portare al provino per l’allestimento scolastico di Chicago (musica di John Kander, testo di Fred Ebb). Sarah, che non era mai stata capace di cantare, aveva fatto una figura imbarazzante; Karen, che cantava eccome, aveva eseguito il brano alla perfezione ma in tutta evidenza mancava di qualche altra caratteristica necessaria a ottenere una parte nello spettacolo. «Razzle Dazzle» – «fumo negli occhi», se si vuole – è un pezzo cinico che parla di come ingannare la gente e passarla liscia. Insomma Sarah si alzò da dietro il tavolo bianco, sparando fumo con il suo rarissimo sorriso a mille megawatt, e senza darle il tempo di fare un passo indietro agganciò Karen dietro le spalle e la strinse a sé, con il tavolo ancora nel mezzo, mentre la persona di nome Emily squittiva: «Avrei dovuto capirlo che era una sua vecchia amica!» Malgrado fosse una ex ballerina con un ottimo senso dell’equilibrio, nel compiersi di questo goffo abbraccio Karen rischiò di perderlo, neanche l’abbraccio fosse stato dato apposta; e rischiando di perdere l’equilibrio, si ritrovò quasi incapace di pensare o reagire nella maniera giusta. E quasi si sentì in svantaggio. Ma si era fatta un’idea non corretta.
L’ho sempre saputo di essere tra quelli che se ne sarebbero andati. Che si trattasse di talento o pura forza di volontà, qualcosa mi avrebbe portata lontano dalla mia città natale. La probabilità che dopo il diploma uno se ne andasse era un’altra categoria con cui si classificava la gente alla CAPA: tutti davano per scontato che le stelle se ne sarebbero andate, tutti davano per scontato che quelli sullo sfondo sarebbero rimasti. Sarah, in effetti, era stata l’eccezione alla regola. Sarah era scarsa come attrice, pure peggio come cantante e uno zero come ballerina, ma noi sapevamo che se ne sarebbe andata, reietta e depressa come fingeva di sentirsi, con le abitudini autolesioniste che erano la sua migliore prova di recitazione e i suoi abiti sdruciti da punk. L’ultimo anno, quando si fece tutto il corridoio della sezione di Teatro strillando e sventolando la lettera di ammissione alla Brown, nessuno si sorprese. Fu quando io ricevetti la lettera di ammissione alla Carnegie Mellon, che tutti restarono sconvolti. Ma io lo sapevo che di riffa o di raffa me ne sarei andata, mentre tante fra quelle stelle per cui lo si dava per scontato, come Melanie che rimaneva impalata a sorridere dentro il suo sogno a occhi aperti mentre io stavo per terra a quattro zampe ad abbottonarle gli stivaletti da My Fair Lady con l’apposito uncinetto, o Lukas che ogni sera buttava la camicia di scena di The Music Man sul pavimento del camerino perché sapeva che io l’avrei raccolta e stirata, hanno fatto la fine del boomerang: più si lanciavano lontano, più veloci ritornavano al punto da cui erano partiti.
Non diventai una stella della danza neanche alla Carnegie Mellon, ma quando smisi di ballare non tornai di corsa a casa, feci il contrario. Andai a New York comunque, proprio quando tutti i nostri compagni di corso che erano passati dalla New York University e anche dalla Juilliard venivano via. Per New York ci volevano «troppa fatica, troppi soldi, troppa solitudine», ma io non avevo mai pensato che a New York la vita sarebbe stata facile, economica o piena di nuove amicizie. Non ero mai stata una stella e non mi aspettavo di venire trattata come tale. E a New York me la cavai bene. Avevo un lavoro, abitavo da sola. E poi una sera aprii la porta e mi trovai davanti mia madre, con addosso una pelliccia sintetica nuova di pacca e lunga fino ai piedi che chissà quale uomo le aveva comprato per tenerla al caldo, lei che veniva dal Sud, nel gelido clima newyorkese. Era riuscita a convincere chissà quale uomo a portarla a vivere a New York e ridacchiava come una monella per quant’era stata furba, si mise letteralmente a saltellare sul mio zerbino. Traslocai immediatamente a Los Angeles, dove mio fratello stava finendo l’università. Nostra madre ci mise tre anni a sganciarsi dall’uomo di New York e riagganciarsi a uno di Los Angeles; ma quando alla fine mi raggiunse anche lì, io ero stata travolta da un cambiamento inatteso. Volevo tornare a casa. Volevo bene alla mia città, e mi mancava. Ero voluta scappare in primo luogo perché ci abitava mia madre, ma lei non ci stava più. Perciò le dissi chiaro e tondo che cosa sarebbe successo se mi avesse seguita di nuovo, e raccomandai a mio fratello di fare lo stesso, ma lui non ci riuscì. Mia madre lo aveva sempre trascurato, lo aveva tirato su con quel tipo di bonaria negligenza che lo induceva a cercarla di continuo, anziché fargli capire che lei era veleno. Mia madre e mio fratello abitano ancora a Los Angeles, mentre io vivo nella città che per tutti e tre rappresenta «casa». Quando vado a trovare mio fratello, lui non le dice che sto arrivando. Quando viene lui a trovare me, non le dice che viene da me. Finge che sia un viaggio di lavoro. E benché mi rattristi l’idea che questo rattrista mio fratello, quel che accadrebbe se mia madre entrasse in contatto con me sarebbe peggio della sua tristezza, e questo lo sanno tutti e due.
Dopo essere ritornata a casa, mi sono spesso imbattuta nella persona che stiamo chiamando David. Il suo volo da boomerang era durato più di quello di Melanie ma meno del mio: lui era già tornato da due anni. Aveva fondato una compagnia teatrale che metteva in scena i drammi più foschi e inquietanti che gli venivano in mente nello stesso genere di posti in cui da ragazzi andavamo a sentire musica, le ex ghiacciaie rugginose, i capannoni abbandonati, le discoteche sordide. Alla Northwestern lo avevano bocciato in recitazione, perciò era passato a drammaturgia, ma era stato bocciato anche lì perché non finiva mai le pièce che scriveva e allora era passato a regia e si era scoperto molto bravo. La gente andava a vederli, i drammi che allestiva, malgrado fossero foschi e inquietanti e messi in scena in luoghi scomodissimi. L’uomo che stiamo chiamando Kingsley era diventato un suo affezionato spettatore, poi un affezionato benefattore, e infine, quando la compagnia di David aveva cominciato a darsi una regolata e a fare domanda per lo status di associazione no profit e i relativi sussidi, persino un membro del comitato consultivo. Vedere Kingsley e David a un party di raccolta fondi per la compagnia, dove Kingsley beveva da un bicchiere di plastica trasparente qualunque rosso fosse disponibile, e David beveva dalla lattina qualunque birra da pochi soldi e ostentatamente «operaia» fosse disponibile, tutti presi a parlare fitto come se fossero soli, nel locale chiassoso e affollato, di qualunque fosco e inquietante dramma David avesse in scena in quel momento, significava vedere due membri della stessa Confraternita Artistica d’Élite.
Il professor Kingsley, quand’eravamo a scuola, non ci aveva mai spiegato questa Confraternita d’Élite alla maniera in cui spiegava costantemente l’idea della celebrità, tramite tutto quello che tentava d’insegnarci e tutti i motivi per cui non ne eravamo all’altezza. L’idea della celebrità, dell’affinare il proprio talento e poi riversarlo sul mondo, stava alla base di tutto ciò che facevamo – ma quello che Kingsley non ci aveva mai detto era che alla base della celebrità stava la Confraternita Artistica d’Élite. Lui ne faceva chiaramente parte. E adesso ne faceva chiaramente parte anche David. La cosa risultava strana e perfino divertente solo se uno faceva un passo indietro e notava che in effetti quella era una confraternita, con il suo tesseramento e le sue regole, e non un Divino Ordine delle Cose. Nel periodo in cui la compagnia di David si diede una regolata e fece domanda per lo status di no profit e i relativi sussidi, Karen prestò al gruppo i suoi servigi organizzativi, caso mai non si fosse ancora capito. Fu grazie a lei che la compagnia si diede quella regolata, anche se Karen non ha mai preteso riconoscimenti e neppure soldi. Era felice di poter dare quel contributo al successo di David. Così pochi tra i loro coetanei avevano avuto successo, così pochi avevano raggiunto la celebrità: ma fra tutti, il cinico David aveva trovato posto, proprio lì in città, per quel minimo di ambizione residua. Adesso gli allievi della sezione Teatro andavano direttamente dal diploma della CAPA ai provini di David, e Kingsley lo chiamava come «artista ospite» a tenere una «master class» di regia. Karen donò le sue serate e i suoi fine settimana all’«amministrazione» e alla «contabilità» della compagnia nonché a un problemone di tasse non pagate che, prima del suo intervento, stava per rivelarsi fatale. David, per un senso di gratitudine, insisté per portarla a un galà di raccolta fondi, dove poi la trascinò dal professor Kingsley, che le rivolse grandi sorrisi, cenni d’assenso e convenevoli vari nel tentativo garbato, se non efficace, di dissimulare il fatto che non aveva la minima idea di chi lei fosse.
Karen era soddisfatta, disse a David, di aver lasciato perdere le arti sceniche. Stava bene come stava. Ma David, forse perché col passare degli anni aveva sviluppato una forma di fervida adulazione artistica come unica valuta con cui pagare tutti quelli a cui doveva dei soldi, si rifiutava di crederci. «Ma dai», le aveva detto. «Ti hanno ammesso alla Carnegie Mellon. Al contrario di me sai cantare. Balli il tip-tap, cazzo!»
«Faccio schifo, a ballare il tip-tap». Questo era vero. I già menzionati difetti nella struttura fisica la rendevano inadatta al tip-tap. Per il tip-tap, come per la classica, ci vogliono gli smilzi; solo nella danza moderna può trovare spazio la ballerina con l’ossatura da nuotatrice.
«Ma cazzo, solo una ballerina di tip-tap può dire: “Faccio schifo a ballare il tip-tap”. Eri brava. Ti ricordi quando abbiamo dovuto preparare “Razzle Dazzle”? Tu hai steso tutti».
«Lui però non mi ha preso».
«Non ha mai preso neanche me».
«E adesso tu fai il regista e io faccio la contabile. Ciascuno al proprio posto. Non devi dirmi che sono una stella in attesa di essere scoperta solo perché non riesci a pagarmi».
«Invece avevi un’energia oscura, in scena... non fare quella faccia! Me lo ricordo bene. Non avevi un cavolo di sorriso da pubblicità del dentifricio».
«Piantala».
«Cazzo, dal punto di vista registico è incredibile quant’era scarso il nostro anno. Ovvio che noi sopravvalutavamo totalmente il nostro talento, ma pure se fai la tara in quel senso, eravamo veramente scarsi. Se la consideri nel complesso, in tutta la storia della scuola c’è stata un’unica persona che è diventata una celebrità globale, e a scuola c’era venuta per meno di tre settimane, quindi in effetti non possiamo neanche dire che sia stata una dei nostri. Però c’è la manciata di persone che finiscono su un cartellone pubblicitario di Sunset Boulevard almeno un paio di volte in carriera, e di quelle ne abbiamo sfornate, facciamo, due a decennio. Poi ci sono quelli che sono riusciti a campare di recitazione: ogni tanto li vedi in tv anche se non sfondano mai, e di quelli ne esce forse uno ogni due anni. Dopo ci sono quelli che in teoria potevano almeno riuscire a lavorare con regolarità, ma hanno avuto una caterva di sfighe. Sono tre o quattro ogni anno, li scritturo io nelle mie cose, e tanto meglio per me. Ma dal nostro corso non è uscito nessuno neanche in quest’ultima categoria... tranne te».
«Mi stai mettendo nella categoria delle sfighe? Preferirei stare in quella degli scarsi».
«Vieni ai provini, la settimana prossima. Eddai. Cazzo ti costa?»
Me ne sarei potuta uscire con una risata secca tipo latrato, o con una faccetta ironica, con ciò intendendo dire: Cosa sei, scemo, o Cosa sono, scema, e comunque sia non ci penso proprio. Avrei potuto scendere con tutta calma dallo sgabello davanti al bancone, pagare il mio conto, dire buonanotte. Alle superiori, malgrado fossimo compagni di corso della stessa sezione di Teatro, io e David non eravamo mai stati amici. Il nostro comune legame con Sarah ci separava più che unirci. Ma adesso che eravamo entrambi tornati a vivere nella città natale, facevamo spesso conversazioni come questa: David era ossessionato dal passato, e non solo da alcuni frammenti. Tutti quanti, credo si possa dire serenamente, ci fissiamo su qualche episodio del passato, magari perché vorremmo riviverlo com’era, magari perché vorremmo tornare indietro e cambiarlo. Ad ogni modo, questa della fissazione sui frammenti del passato è una tendenza diffusa. David però la portava all’eccesso. Era fissato con tutto il passato, nella sua interezza. Per lui il passato era una nazione dalla quale era stato esiliato, e ogni sua reliquia, me compresa, lo affascinava. Era come se avesse deciso, molto presto nella vita, che il meglio della sua vita era già trascorso, e i successi che conseguiva ora con la sua compagnia teatrale contavano solo perché gli offrivano un legame con il passato. Io contavo solo perché gli offrivo un legame con il passato. Gli davo l’opportunità di parlare del suo passato, perfino dei frammenti che per lui non avevano contato niente all’epoca, ma contavano adesso. E perciò si rammentava di questa o quella cosa che facevo, oppure parlava del mio talento incompreso, perché gli forniva ciò che più bramava: una via d’accesso, per quanto indiretta, al suo passato. L’avrebbe fatto con chiunque provenisse dal suo passato. Anzi, lo faceva. L’avevo sentito molte volte conversare allo stesso modo con altri relitti di quegli anni che a turno si erano ripresentati in città.
Queste conversazioni sul passato avevano sempre luogo in un bar che chiamavamo «Il Bar» – tutti lo chiamavano Il Bar – anche se aveva un suo nome. In città di bar ce n’erano molti, quindi non c’era un motivo evidente per cui quel comodo ma normalissimo bar dovesse essere noto come Il Bar; non era un posto che frequentavamo da ragazzi, benché esistesse già e avesse la medesima atmosfera di accogliente e prevedibile abbeveratoio da dopo lavoro che aveva adesso, con l’unica differenza che allora quell’atmosfera sembrava sgradevolmente banale e ora sembrava piacevolmente banale. Almeno in questo senso David aveva rotto col passato; era al Bar, e non in uno dei bar che aveva bazzicato ai tempi, che gli piaceva fermarsi a parlare del passato.
Diversamente da David, io Il Bar lo frequentavo pochissimo. Per essere chiari, frequentavo pochissimo David. La stesura volontaria delle domande per i sussidi, i tentativi di risolvere il problemone fiscale, la presenza una volta ogni tanto a un galà dove il professor Kingsley non mi riconosceva, le conversazioni sul mio talento incompreso al bancone del Bar, erano cose che succedevano forse ogni paio di mesi e rappresentavano una minima frazione della mia vita. Gran parte del tempo la passavo a lavorare per clienti che mi pagavano, o a risistemare la casa che mi ero comprata. Poi facevo psicoterapia, e avevo cominciato a studiare per diventare analista a mia volta. Non bevevo. Non avevo mai bevuto molto, e poi c’era stato un momento della mia vita in cui avevo eliminato delle cose, alcune perché non le tolleravo, altre perché non mi servivano, e bere era una cosa che non mi serviva. Chiamavo mio fratello quasi tutte le sere per sentire come andava, e spesso cenavo ascoltando lui che parlava. Qualche volta guardavo un film. Leggevo molto: le mie categorie sono Storia e Auto-aiuto. Mi è sempre piaciuto stare sola.
Certe sere, però, mi andava anche di stare con altre persone, e allora andavo al Bar, di solito con un libro, anche se poi non riuscivo a leggere perché di solito c’era David. E quasi sempre c’era qualche effettiva questione, qualche compito organizzativo in cui gli stavo dando una mano, a far sì che lui si distogliesse dal compagno di bevute di turno. David aveva sempre qualche compagno di bevute, spesso una piccola folla. Di solito c’era una donna che lo stava a sentire come se pensasse che dopo l’avrebbe interrogata, di solito c’era gente del giro del teatro, e del più ampio giro della cultura, e dell’ancor più ampio giro dell’alcol, in orbita intorno a David, con lui al centro di tutto. Perfino quando era solo al bancone del Bar, come talvolta succedeva perché aveva raggiunto uno Stato tale da respingere il prossimo neanche stesse roteando in giro una mazza chiodata, David era comunque al centro di tutto. Con questo intendo dire che gli altri lo tenevano d’occhio anche quando gli stavano alla larga, all’altro capo del locale, ansiosi di trovare un modo per riavvicinarlo, per riguadagnarsi la sua attenzione. Quando eravamo giovani, David aveva un suo goffo carisma: sapeva di essere attraente, ma non sapeva né in che senso né perché. Poi un decennio abbondante di continui stravizi gli aveva rovinato l’aspetto, e quand’era stanco o ubriaco gli veniva una faccia come una palletta di pongo tirata contro un muro; eppure il suo carisma, che ormai non si poteva confondere con il suo aspetto, si notava di più. Sembrava quasi autonomo rispetto a lui. Il David fisico sedeva floscio al bancone a guardare il bicchiere mentre il suo carisma percorreva il locale, allontanando qualcuno e attirando qualcun altro. Karen veniva sempre attirata, per via della sua utilità come leale collaboratrice non pagata e del suo status di Legame con il Passato.
Stasera, dunque – una sera di fine gennaio, molti mesi prima che Karen riveda Sarah alla libreria Skylight – David siede da solo al bancone, in preda a qualche sua paranoia, quando entra Karen con il giubbottino di jeans abbottonato fino in cima, uno sciarpone girato parecchie volte intorno al collo, un paio di guanti e un cappello calato sulle orecchie. Per la media della città fa freddo, vale a dire che fa freddissimo per Karen, la quale detesta ammettere di non essersi mai abituata al freddo di New York: gemeva sotto i suoi fendenti proprio come sua madre, però senza la pelliccia sintetica di sua madre. Da fuori, mentre tira la maniglia congelata, Karen non vede l’interno del Bar, solo un bagliore di luci dietro le ampie vetrine che di solito mettono in mostra la gente al bancone del Bar dal marciapiede esterno, ma che stasera sono appannate di condensa. Però Karen non si sorprende, entrando, di trovare David poco oltre l’ingresso, sullo sgabello più a destra, al suo solito posto. Quando non è alle prove, qualche volta David occupa questo sgabello dalle tre, quattro del pomeriggio fino alle due, tre di notte. È David che ci mette un secondo in più a notare Karen, forse a causa della sciarpa e del cappello. La vede mentre lei se li toglie e si avvicina al banco per ordinare una Coca. «Cazzo», dice. «Stavo giusto pensando a te. Ti ricordi Martin?»
Karen la trova una domanda interessante, anzi ottima. Come tutte le sue domande preferite, è talmente semplice e ovvia che sul momento le sembra stupido che David gliel’abbia fatta. Se si ricorda Martin? Ma poi la domanda inizia a sfaldarsi, a strati. Ricordarlo in che senso, esattamente? Il vocabolario ci dice che «ricordare» significa «richiamare qualcosa alla mente, rievocare qualcosa che si era dimenticato». Be’, Karen non ha mai dimenticato Martin, dunque non lo ricorda in questo senso. Il vocabolario ci dice anche che ricordare è conservare qualcosa nella memoria. Senza infilarci in un ginepraio e andare a cercare «memoria», mettiamo qui un segno di spunta: sì, lei conserva questo qualcosa nella memoria. Leggiamo anche, sotto questa particolare definizione, «tenere qualcuno a mente» – sì – «disporre un lascito per qualcuno» – diciamo di sì, dipende dal «lascito» – «inviare saluti a qualcuno» – non di recente – «commemorare qualcuno o qualcosa». Commemorare: ricordare qualcuno con solennità. Significato d’un tratto molto allettante, che come tante altre cose resta impresso nella mente di Karen. È probabile che a David, con tutti i suoi problemi, tra cui quello di essere troppo intelligente per le situazioni in cui si ficca – è troppo intelligente per la sua vita professionale, per la sua vita sessuale e sicuramente per la sua vita da ubriacone, a cui dedica la maggior parte del tempo – questa lezioncina sui vari significati di «ricordare» piacerebbe, ma a Karen non piacerebbe fargliela, perciò si limita a dire: «Certo che me lo ricordo, Martin».
«Guarda qui», dice David, e posa sul bancone un ritaglio di giornale. Preso dal Bourne Courier-Telegraph del 4 ottobre 1997: «Montano le accuse, noto docente allontanato». Sotto il titolo ci sono due brevi colonne a stampa e il riquadro della foto in bianco e nero di un uomo con un muso appuntito da faina, capelli chiari sfrangiati sugli occhi e sulle orecchie, una lieve fessura tra gli incisivi, occhialoni che erano fuori moda già dieci anni fa, più giacca e cravatta che probabilmente si è fatto prestare e non sono della sua taglia. Anche senza l’aiuto del colore si vede che ha la carnagione troppo bianca e i denti troppo gialli; la foto sembra più datata di quanto non sia davvero, perché le foto ufficiali – Karen presume si tratti di una foto da annuario, di quelle appese al muro subito fuori dalla porta della direzione sotto l’etichetta «I nostri docenti» – non somigliano mai al giorno in cui sono state scattate ma al giorno in cui il loro triste sfondo ha cominciato a mostrare i decenni di polvere accumulata. L’uomo, naturalmente, è l’uomo che qui chiamiamo Martin, e somiglia in tutto e per niente al Martin che Karen ricorda. Karen non riesce neanche a capire, guardando la foto datata, se il Martin che ritrae è più vecchio o più giovane del Martin che lei ha conosciuto. Il Martin della foto e il Martin che Karen «conserva nella memoria» sono assolutamente identici, ma al tempo stesso del tutto diversi. E adesso Karen non riesce più a distinguerli: si chiede se davvero ricorda Martin o se l’è appena inventato, mentre guarda senza vederla quella stranissima, irriconoscibile foto che sembra identica a Martin. E rimane a guardarla così a lungo che quando David le chiede: «Finito?», lei non si rende conto che intende «di leggere il testo». A leggere il testo non ha neanche cominciato.
«Finito», risponde, e intende una cosa diversa da quella che le ha chiesto David. Lui si riprende il ritaglio e lo mette via. Sembra che gli tremino le mani. Sembra avere difficoltà, adesso che il ritaglio è stato riposto con cura, ad accendersi un’altra sigaretta. David è completamente smarrito, che è l’altra faccia dell’essere un cinico impassibile; è la molle fodera interna che il suo costume da cinico impassibile dovrebbe nascondere. E senza che lui se ne accorga, anche Karen indossa il costume da cinico impassibile di David. Dovrà andarsi a recuperare l’articolo in biblioteca: ha cura di mandare a mente, di «conservare nella memoria», la testata Bourne Courier-Telegraph. Dovrà studiarsi l’articolo più tardi, anche se vorrebbe studiarselo subito. Ma non ha bisogno di studiarselo subito per intuire il nocciolo della questione. Quello l’ha capito.
«Chi te l’ha dato?», chiede.
«Jim», risponde David, e intende il professor Kingsley. È talmente smarrito, David, da non ricordare nemmeno che questa faccenda di chiamare per nome – ai nostri fini, «Jim» – la persona che sinora abbiamo chiamato professor Kingsley, è riservata alla Confraternita d’Élite. «Ma prima Martin mi aveva scritto», aggiunge David. David si sta sbracciando all’indirizzo del barista: ha un tale disperato bisogno di rinforzi, per riuscire a spiegare questa cosa, da non rendersi minimamente conto di cos’è successo a Karen. Non si accorge che il costume da cinica impassibile le è scivolato di dosso, al sentirgli dire che Martin gli ha scritto. Non vede Karen che se lo rimette a posto con uno strattone, e quindi perde l’occasione di indurla a confessare che quando si è ritrasferita in città, benché avesse giurato a sé stessa di non farlo, alla fine è tornata alla sua casa d’infanzia e ha bussato alla porta perché una parte folle di lei s’immaginava, ben dopo che sarebbe stato lecito aspettarla ancora, che lì potesse essere arrivata una lettera per lei dall’Inghilterra – ma per fortuna nella sua casa d’infanzia non c’era nessuno in casa, e lei non c’è più tornata.
Diversamente da Karen, David non si era mai aspettato di avere nuovamente notizie di Martin. David non aveva passato molto tempo con Martin nel corso di quei due mesi, quattordici anni prima, e dopo che Martin era ripartito con gli altri non si erano più sentiti. Martin però, nella lettera che gli ha scritto, sembrava al corrente del successo di David. Forse aveva sentito parlare di lui, chissà come, e si era ricordato di conoscerlo. O magari si ricordava proprio di David, e per motivi tutti suoi aveva deciso di cercarlo e vedere se aveva combinato qualcosa nella vita. Dalla lettera, che aveva inviato alla casella postale della compagnia, questo non si capiva.
«Ce l’hai qui?», chiede Karen interrompendo, in tono forse troppo brusco, il lungo excursus di David a proposito della lettera di Martin. Preferirebbe di gran lunga vederla coi suoi occhi, tenerla in mano, che ascoltare David che la descrive. Ma naturalmente David l’ha già persa. Non importa, ribatte davanti alla reazione molto irritata di Karen. La ricorda perfettamente a memoria. Quando erano alle superiori, David torturava tutti i compagni declamando gli sketch dei Monty Python e le canzoni di Bob Dylan. Per le parole ha sempre avuto una memoria di ferro, che convive non si sa come con una padronanza del tutto frammentaria della vita quotidiana. Un fenomeno psicologico o neurologico, forse dotato di un nome che un giorno Karen potrebbe imparare, se arriva a esercitare la professione.
«Si congratulava per tutto quello che ho fatto con la compagnia», continua David. «Diceva delle cose veramente carine. A quanto pare si è cercato le recensioni. E poi diceva: “Cazzo, era ora che qualcuno agitasse un po’ le acque in quel paesello di perbenisti dove abiti. Mi dispiace che non ci sia riuscito il Candido, ma sono felice che sia stato tu! Un bello schiaffo ai moralisti, hai visto mai che gli faccia aprire gli occhi”. E poi diceva: “Forse avrai saputo che anch’io sto avendo i miei guai con il giro dei moralisti. Sempre la stessa storia, se non trovano niente di immorale da stigmatizzare se lo inventano e va benissimo lo stesso”. Poi parlava del fatto che finalmente aveva trovato il tempo di finire una pièce che stava scrivendo, che si stava organizzando per allestirla, facendo sia la regia sia uno dei protagonisti, ma poi “ecco che è arrivata la caccia alle streghe in cui, malauguratamente, la strega sono io”. E alla fine, in pratica, chiedeva a me di mettere in scena il suo spettacolo. Quello che ha dovuto annullare».
Non capendo le allusioni ai «guai con i moralisti» e alla «caccia alle streghe», all’inizio David si era dimenticato per qualche giorno della lettera mentre affrontava i suoi progetti teatrali, creava e si riprendeva dalle sbronze. Poi aveva visto Kingsley a una riunione o da qualche altra parte e gli aveva chiesto se aveva notizie recenti di Martin. E Kingsley aveva fatto una faccia... il tipo di faccia che fanno le suore quando le colpe dei peccatori sono troppo efferate anche solo per parlarne. Seduto al Bar con Karen, il palmo posato sulla busta nella quale ha riposto l’articolo che Karen vorrebbe rivedere ma non intende ammettere di voler rivedere, David fa la sua versione della faccia, il che ricorda a Karen che se David è stato bocciato a recitazione non è perché non sapeva recitare. Quantomeno, sa fare le facce. Ubriaco com’è – o forse proprio perché è così ubriaco – fa una suora pazzesca: una faccia attaccata a un gancio e trascinata in basso da un peso, dal gravame di colpe troppo efferate anche solo per parlarne. Infatti Kingsley aveva preferito non parlarne; aveva fatto la faccia e poi, un paio di giorni dopo – oggi – era passato dall’ufficio di David e gli aveva lasciato il ritaglio. Ma chi sono i peccatori di cui Kingsley ha preferito non parlare? Si tratta di Martin, o dei suoi accusatori?
Benché non sia nota per la promiscuità e nemmeno per il senso dell’umorismo – anzi, è facile che il prossimo la ritenga sia casta, sia noiosa – in certi contesti pubblici Karen sottolinea spesso di non essere mai andata a letto con David. Mettiamo che Karen si trovi al Bar la stessa sera in cui c’è un tipo della cerchia più allargata di David, alias i suoi compagni di bevute, che lei non conosce e non vuole conoscere perché con questa persona non hanno niente in comune. In queste situazioni David regolarmente insiste per presentarla a quest’altro beone qualunque, che lui per primo conosce pochissimo. David regolarmente descrive Karen a colpi di iperboli, tipo «una delle mie più care amiche di sempre», o «la conosco da più tempo di chiunque altro», o «lei sa dove ho seppellito tutti i cadaveri». E Karen regolarmente ribatte: «Sono l’unica donna in questo bar che non c’è andata a letto», oppure: «Sono l’unica donna che lo ha frequentato per più di una settimana senza andarci a letto», o, per maggiore impatto: «Sono l’unica donna in tutta la città/contea/area metropolitana che non c’è andata a letto». Quando lei dice così, David regolarmente fa una smorfia. È come se trovasse la propria reputazione di maschio irresistibile a tutte – tranne Karen – per qualche verso immeritata, o fastidiosa. Karen non ha mai capito che rapporto abbia David con il proprio sex appeal, che come il suo carisma sembra percorrere il mondo in maniera autonoma rispetto alle sue intenzioni, facendo quello che gli pare. E la stessa Karen, quando dice così, regolarmente fa una smorfia, benché interiore, perché il commento è compulsivo, lei non vorrebbe mai farlo e preferirebbe non averlo fatto. Dà un’idea di volpe e uva, come se in effetti lei volesse andarci, a letto con David, quando invece non è così. Oppure sembra cattivo e sprezzante nei confronti delle altre donne; ma qualunque cosa sembri, non è necessario. Eppure Karen lo fa sempre, e sempre con quella smorfia interiore, e David le dà sempre l’opportunità di farlo, e sempre reagisce con la sua smorfia esplicita. Perché? Cosa li spinge?
Fino alla sera in cui David le mostrò il ritaglio, Karen avrebbe detto che David la presentava in giro a causa di quell’ossessione per il passato. E avrebbe detto che lei faceva sempre quel commento perché l’ossessione di David per il passato la infastidiva. Ma la sera del ritaglio Karen si chiese se tutta la faccenda non avesse a che vedere non con il passato, l’argomento che tirava sempre in ballo David, bensì col sesso, l’argomento che tirava sempre in ballo lei. Forse quest’insistenza sulla propria estraneità alla vita sessuale di David significava che in verità Karen era fissata con la vita sessuale di David, con l’aura epica di cui tutti parlavano, come se David fosse la stella di un programma tv di grande successo che Karen guardava da decenni senza poterlo spegnere.
Quella sera al Bar, quando cominciarono a parlare della «caccia alle streghe» contro Martin, Karen non ci mise molto a sospettare che David non fosse stravolto dal pensiero che Martin fosse un predatore: semmai, pareva stravolto all’idea che le donne avessero mentito sul conto di Martin, una persona che David, dopo tanti anni, ancora vedeva come un modello e una specie di collega in spirito, un esempio di come doveva essere, secondo lui, un artista teatrale in attività. Nei quattordici anni passati da quando David e Karen lo avevano conosciuto, Martin aveva continuato a lavorare nella stessa scuola. Era rimasto quell’insegnante esemplare e irriverente che vinceva tutti i premi e rischiava di essere licenziato tutti i giorni. Era rimasto il tipo di cui gli allievi dicevano «la più grossa fonte di ispirazione della mia vita» o «l’unico che in quella scuola formava veramente un legame con noi ragazzi» o altre iperboli del genere. Aveva portato i suoi allievi non solo alla CAPA quella volta, ma in tutto il mondo, gli aveva dato opportunità che mai avrebbero immaginato, aveva allargato i loro orizzonti, gli aveva insegnato a credere in sé stessi, eccetera. Tutte queste informazioni provenivano dall’articolo, che a quanto pare David non prendeva come una sola tra le possibili versioni di una realtà forse impossibile da ricostruire, ma come una finestra diretta sulla vita di una persona che conosceva a malapena, il cui passato aveva magicamente sfiorato il suo; in altri termini, una persona sacra. Karen sapeva che David aveva sempre visto l’annullamento del Candido come una prova dell’ipocrisia – o, per dirla con Martin, del «perbenismo» – del «paesello» dove David e Karen erano nati e cresciuti. Karen intuiva inoltre che l’annullamento del Candido aveva avuto un suo ruolo, insieme a Beckett e alla Northwestern, nel definire l’immagine che ora David aveva di sé stesso: un ribelle del teatro, un orgoglioso sconcertatore di spettatori paganti. Sulla strada aperta da Martin, a David l’articolo doveva sembrare un’ulteriore prova dell’impazzimento di un mondo in cui si premiavano le menzogne degli astiosi e si distruggeva il docente e l’artista che diceva la verità.
«Cioè, tu non credi che andasse a letto con le sue allieve?», domandò finalmente Karen. Si era resa conto che non avrebbe potuto, in quel momento, dire nulla che non rischiasse di fare a brandelli il costume da cinica impassibile che in qualche modo ancora indossava, di ridurlo a striscioline gommose. In momenti così, una tecnica efficacissima è quella di fare una domanda all’interlocutore. Domanda che non dovrebbe essere tendenziosa, ma qui si ammetterà che quella di Karen era un po’ obliqua. In definitiva, si può dire che tutto il locale era un po’ obliquo. Io cercavo di restare sullo sgabello. Cercavo di rimanere una cara, vecchia amica di David.
«No, io sono certo che andava a letto con le allieve. Sono certo che loro andavano a letto con lui. Però sapevano quello che facevano! Come noi sapevamo quello che facevamo. Te lo ricordi, com’eravamo?»
«Eravamo bambini», disse Karen cauta, come fosse David a dover essere trattato con cautela, David che rischiava di rimanere ferito dalla conversazione. Ma evidentemente, malgrado le precauzioni, riuscì comunque a offenderlo. David fece una risata sprezzante.
«Noi non siamo mai stati bambini».
Il lettore attento potrebbe chiedersi: Ma che fine ha poi fatto Manuel? Ci dirà Karen a quale destino è andato incontro? Me lo sono chiesto anch’io. Dopo aver letto il pezzo che ho letto del libro di Sarah, e prima di vederla da Skylight Books, ho tirato giù dai miei scaffali gli annuari delle superiori. Ebbene sì, lettore, li ho conservati. Erano articoli di pregio, quegli annuari. S’intitolavano Luci della ribalta!, con il punto esclamativo. E non senza premura ne ho sfogliato le pagine spesse e patinate. Poche le dediche a sciupare i risguardi, e le affettuosità che quelle poche contenevano non svelavano nulla d’inatteso. Non c’era autore che, una volta reclamato il suo spazio con un pennarello a punta fine, non trovasse la detentrice dell’annuario «una ragazza dolcissima», «troppo simpatica!» e destinata senz’altro a un «futuro pazzesco». Gira pagina, allora; passa al frontespizio occupato da David nientemeno, che si guarda indietro con gli ultimi capelli in testa e una giacca alla Mao. Passa per la Segreteria con una fitta di rimpianto: quelle impiegate badavano a te molto più di quanto abbia fatto tua madre. Passa per le sezioni Danza e Musica (Strumento e Canto), per il saggio invernale di danza classica e per «L’Ensemble di Jazz Conquista Manhattan!» Questa è la parte intitolata Teatro, che non solo viene per ultima ma conta anche il maggior numero di pagine. Guardali tutti: quattro corsi di studenti di Teatro ogni anno per quattro anni, e c’è comunque la forte possibilità che il DNA di «Manuel» includa cromosomi di un’altra sezione. Il destino di Manuel lo cerchiamo nelle sue varie origini, perché se da una parte non posso dire che un Manuel non esisteva, dall’altra garantisco che non ce n’era uno solo. Di fonti limpide posso elencarne almeno tre.
Il primo Manuel era uno studente di Teatro, «ispanico» come da modulo d’iscrizione, privo di qualsivoglia talento. C. non sapeva recitare né ballare, tantomeno cantare, ma neanche piantare un chiodo in un’asse; non era neanche in grado di incollare piume su un cappello. Che ci faceva lì? Non è un mistero che debba risolvere io, ma quale che fosse il motivo, non è mai venuto meno. C. rimase nostro compagno di corso per tutti e quattro gli anni e ripartì come era arrivato, nel disinteresse generale. Non ebbe mai alcun rilievo né scomparve prematuramente. E sebbene non avesse mai avuto una ragazza né un ragazzo finché eravamo a scuola, secondo le ultime notizie si era sposato, si era messo in proprio, aveva fatto un paio di ragazzini e se la cavava egregiamente.
Il secondo Manuel era uno studente di Canto, lui pure «ispanico» come da modulo d’iscrizione, del quale potreste aver sentito parlare se seguite l’opera. È uno dei più grossi successi usciti dalla scuola e ha una voce, come quella di Manuel nel suo sorprendente provino, che davvero evoca le schiere degli angeli. A scuola non si dichiarò mai gay, ma lo è senz’altro. Tuttavia, il talento di P. non era stato scoperto alla nostra scuola bensì anni prima, quand’era ancora bambino. Né era un protégé – o altro – del professor Kingsley. P. era l’orgoglio della sezione di Canto, con una tale sfilza di ingaggi nei teatri lirici fin dall’età di tredici anni che non si degnò mai di fare dei provini per il saggio scolastico. Dalla nostra scuola passò al conservatorio Eastman, e poi a una carriera favolosa. Una volta l’ho visto fare il console Sharpless nella Madama Butterfly, quando abitavo a New York; dopo ho valutato per un attimo l’idea di attenderlo all’uscita artisti col gruppetto degli altri melomani, tutti col mazzolino di fiori d’ordinanza. Ma non potevo rivendicare nessun tipo di rapporto. Io sapevo di lui ma lui non sapeva chi ero io. Perciò ho lasciato perdere e me ne sono tornata a casa.
Il terzo Manuel non è una persona, bensì un’osservazione. Non è forse il suo specialissimo rapporto con Kingsley, l’aspetto saliente di questo personaggio? E non è forse questo rapporto a inferocire Sarah, al punto da volergli infliggere una ferita inqualificabile, una strana forma di vendetta?
Il lettore attento potrebbe anche chiedersi: Che cosa sapeva Karen dello strano gesto di vendetta di Sarah? Di nuovo, me lo sono chiesto anch’io. Avevo visto cose che non avevo capito? Sapevo cose che poi avevo dimenticato? Quanto alla prima domanda: Difficile. Quanto alla seconda: Neanche per idea. Io non dimentico mai niente. Ma la ricostruzione di luci, scena e fondale che Sarah opera nel libro è talmente fedele ai miei ricordi che ho continuato a incolpare me stessa del fatto che l’azione mi risultasse ignota. Con quanta efficacia Sarah mi aveva trasportata in quella sartoria, davanti a quegli stand carichi di indumenti separati alla bell’e meglio da divisori logori fatti col cartone per piegare le camicie. Il ferro da stiro, l’asse, i cappelli lasciati per terra. Sì, preciso. Tutto quanto, tutto così. Al punto da farmi credere che l’azione ignota doveva essere altrettanto vera, e io semplicemente non l’avevo notata. Invece no: nessuno è scomparso senza spiegazioni dal nostro corso di teatro – tranne me. E nessuno aveva un rapporto speciale, forse troppo speciale, forse talmente speciale da scatenare in Sarah la sete di vendetta, con l’uomo che abbiamo convenuto di chiamare Kingsley... tranne Sarah.
Ma su quel rapporto specialissimo sapete già tutto. O no?
Due termini che il mio analista usava e che mi piacevano, tra gli altri, erano «proiezione» e «resistenza». Mi piacevano perché erano molto concreti nel contesto dell’analisi, e molto generici nel contesto della vita. Proiezione: anche chi non è in analisi dovrà convenire che, al netto della sua brutta fama, la proiezione è creativa. Porta qualcosa, o meglio qualcuno, allo scoperto, ossia la persona che in teoria prova le emozioni che nei fatti sono del paziente. Mentre la resistenza è il vero opposto della creazione, non la distruzione ma l’annullamento della creazione. Il non pensare, non sentire, non fare. Proiezione o Resistenza: Qualcosa o Niente. La bugia smaccata, o la nuda verità che non viene mai detta. Non c’è nessun Manuel, o ce ne sono molti. Sarah non ha fatto nulla del genere, oppure ha fatto tutto, anche ciò che attribuisce ad altri. Karen non sapeva nulla, oppure sapeva tutto tranne la piega che prende questa storia adesso. Sarah la racconta per rivelare una verità nascosta – o per nascondere il vero sotto una falsità plausibile, scombinando la realtà storica con la logica del sogno fino a renderla irriconoscibile.
Secondo Sarah, la vicenda la fa passare per una bella o una brutta persona? Vista in un modo, è una stronza crudele ed egoista. Vista in un altro, potrebbe essere convinta di salvare qualcuno.
Ma la verità o falsità del racconto di Sarah, la purezza o la disonestà dei suoi motivi per essere veritiera o falsa – queste non spetta a noi determinarle né ipotizzarle. Ci scusiamo per la digressione.
Poco tempo dopo quella serata al Bar con David, Karen andò alla sede centrale della biblioteca comunale e reperì una sua copia dell’articolo del Bourne Courier-Telegraph. Dopo averlo letto giudicò che la sua convinzione della colpevolezza di Martin fosse del tutto fondata. Riuscendo però, stranamente, a capire perché potesse essere del tutto fondata anche la fede di David nella sua innocenza. L’articolo era di quelli che prendono le mosse da una polemica circoscritta per indagare un più vasto «conflitto culturale». Nello stimato liceo di Bourne dove insegnava teatro, Martin aveva vinto premi un anno via l’altro, eludendo nel contempo le voci secondo le quali teneva «comportamenti inopportuni per un docente». Nessuna voce era mai stata confermata, e la suscettibilità alle stesse sembrava variare a seconda dell’idea che ciascuno aveva dell’utilità delle discipline artistiche. I genitori tradizionalisti, per i quali il corso di teatro era solo un cumulo di fesserie, chiedevano a gran voce un’inchiesta e accusavano il preside, sostenitore delle arti, di proteggere un colpevole di reati sessuali. I genitori progressisti, certi che i finanziamenti alla cultura fossero sotto assedio, difendevano Martin a spada tratta e denunciavano una caccia alle streghe in cui, malauguratamente, la strega era lui. La difficoltà di capire quale fazione fosse nel giusto era aggravata dagli studenti, che quasi sempre preferivano tacere e, le poche volte in cui parlavano apertamente, dissentivano gli uni dagli altri. Era finita che l’anno prima un’allieva sedicenne del corso di teatro del liceo aveva detto ai genitori di aver allacciato con Martin una relazione fisica affettuosa e consensuale, e di essere incinta di lui; Martin aveva negato tutto e ribadito che era solo un suo insegnante; i genitori della ragazza avevano assunto un avvocato e preteso che Martin si sottoponesse a un test di paternità. Martin si era rifiutato ed era stato licenziato – ma non indiziato di reati, perché nel frattempo la ragazza aveva ritrattato le proprie affermazioni. Benché nel Regno Unito l’età del consenso sia fissata a sedici anni già da fine Ottocento, diceva l’articolo, è reato per chiunque sia maggiorenne e ricopra una posizione fiduciaria (per esempio un insegnante) intrattenere rapporti sessuali con persone minori di diciotto anni, perché tali rapporti rappresentano un abuso della posizione fiduciaria. La scuola, forse per rimediare alla precedente inazione, tramite la rete degli ex allievi aveva fatto sapere che cercava altre vittime dei presunti abusi di Martin. Caso mai il taglio sembrasse troppo colpevolista, l’articolo si concludeva con il virgolettato di un collega di teatro di Martin: «Stiamo parlando di un uomo di enorme talento, che ha dedicato tutta la vita all’insegnamento, ed ecco cosa gli succede: si ritrova senza lavoro, e con la reputazione distrutta, sulla base di dicerie. E poi ci si chiede perché le persone di talento preferiscano non insegnare».
Poco tempo dopo aver letto l’articolo, Karen riuscì a procurarsi il copione della pièce di Martin, quella che lui aveva sperato di poter allestire e dirigere oltre a recitarvi finché la caccia alle streghe non aveva interferito, e lo lesse con il medesimo impegno che aveva dedicato all’articolo. Fu David a darle il copione. David, dopo essere rimasto sconvolto e traumatizzato dalle notizie su Martin, e poi offeso e scandalizzato, aveva infine optato per un atteggiamento caustico e militante. La militanza caustica prese la forma opposta allo sconvolgimento traumatizzato, che si manifestava al Bar, luogo ideale per sedersi a bere e rinfacciare al mondo di essere «completamente folle, cazzo»; la militanza caustica si manifestava invece sul palcoscenico del suo teatro. Questa progressione, da traumatizzato sullo sgabello del bar a militante in scena, era in effetti il ciclo vitale di David, l’unico verso in cui girava la sua ruota. Prima, David soffriva passivamente per il trauma. Ma da un certo punto in poi, come se la sofferenza lo avesse caricato di energia, scatenava una crociata per traumatizzare il prossimo e farlo soffrire a sua volta. Dopodiché, esausto o dispiaciuto o entrambe le cose – perché ogni volta, nella fase militante, aggrediva e feriva qualcuno – si sentiva di nuovo traumatizzato e riprendeva a soffrire passivamente. Sciacquare, strizzare, ripetere. Se mai riuscirò a diventare analista, e se mai David guadagnasse dei soldi, mi piacerebbe prenderlo come paziente. Mi interessa. David interessa a chiunque, il che non è da tutti. Una volta al Bar ho sentito un commentatore inebriato argomentare che David ha successo con le donne perché è imprevedibile, ma si trattava di un’osservazione da ubriachi. David è del tutto prevedibile. Per metà del tempo è in preda alle paranoie e per l’altra metà è di un attivismo feroce. Per metà del tempo soffre e per l’altra metà fa soffrire. Lascio ai professionisti della salute mentale giudicare se questo sia un disturbo bipolare da manuale o qualcosa di più sfumato, ma ai nostri scopi vi basti sapere che fu la causticità – sì, si può dire, verificate pure – di David contro il trattamento riservato a Martin a condurlo alla crociata per mettere in scena la sua pièce. Recuperò la lettera che Martin gli aveva scritto, spiaccicata sui tappetini dell’auto o tra le lenzuola del letto o sotto la macchinetta del caffè. Scrisse a Martin tuonando contro la stupidità e la follia del mondo, nonché chiedendogli il copione della pièce. E non è difficile credere che quando ricevette la lettera, Martin ne fu gratificato. Così ebbe inizio la corrispondenza transatlantica tra questi due membri a lungo separati della Confraternita Artistica d’Élite.
Karen era in ufficio da David, il giorno che arrivò la pièce per posta. Si può dire che la tenesse d’occhio, che la sorvegliasse, allo stesso modo in cui si era tenuta al corrente di tutti gli sviluppi fra David e Martin: il trauma di David che si faceva militanza, il recupero della lettera e via di seguito. Si era tenuta al corrente rendendosi indispensabile a David, obiettivo sempre facilissimo a centrarsi. David aveva sempre bisogno di qualche favore sul fronte amministrativo, ed era sempre felice di accettare un aiuto senza chiedersi perché gli venisse offerto. David aveva, ritengo, un grosso problema di autostima, ma non ha mai avuto difficoltà a credere alla singolare importanza del proprio lavoro. Il che è un tratto distintivo dei membri della Confraternita Artistica d’Élite. Gli veniva anche spontaneo credere che questa sua fede – nella singolare importanza del suo lavoro – fosse condivisa da altri. Quando ti offrivi di dedicare ore della tua vita a un qualche progetto di David, non correvi il rischio che lui ti chiedesse come mai. Di recente aveva trasferito gli uffici a causa di uno sfortunato malinteso sulla normativa antincendio, e Karen si era offerta di spacchettare e, già che c’era, reimpostare da zero tutto il suo archivio, che lei stessa aveva creato diversi anni prima ma che poi nessuno aveva tenuto in ordine. In questo modo era riuscita a tenersi al corrente del carteggio fra David e Martin, e a leggere la pièce di Martin, in tutta tranquillità. Nel carteggio sorprese non ce n’erano; tuttavia ce n’era qualcuna, almeno per Karen, nella pièce.
La prima sorpresa fu che la pièce era bella. O almeno, Karen la trovò bella. Non ha mai preteso di essere un’esperta di opere teatrali. Però la lesse tutta d’un fiato, e questo le sembrò un indizio che la pièce era bella. Non solo, anche l’averci ripensato a lungo dopo le sembrò un indizio che era bella. L’aveva stupita, e al tempo stesso le era parsa stranamente familiare. Quella era stata la seconda sorpresa, che i fatti narrati sembrassero tanto familiari, come se fossero accaduti a lei – ma in un’altra vita, una vita che Karen non sapeva di aver vissuto, sicché la pièce ne era una specie di versione onirica, tutta rimescolata ma ancora con qualche traccia dell’originale, come un odore o l’alone di una macchia.
Era ambientata in un pub, e benché fosse piena di inglesi che bevevano bevande inglesi e dicevano cose dal suono inglese, il luogo avrebbe tranquillamente potuto essere Il Bar. Il titolare e barista, «Doc» – il personaggio che voleva interpretare Martin – è una figura taciturna. Nella scena d’apertura, gli avventori discutono di un conoscente che è morto di alcolismo, e si chiedono se si possa considerare suicidio; tentano di coinvolgere anche Doc, ma lui preferisce non esprimersi. A quel punto entra una ragazza, che sembra voglia chiedere l’elemosina. È sporca e asessuata – anzi, il pubblico dovrebbe poterla scambiare per un ragazzo – e anche minuta e fragile. Malgrado tutto questo, il suo ingresso contraria moltissimo Doc, che per la prima volta dice più di due parole: le urla in faccia e la caccia via. Gli altri lì per lì restano a disagio, ma pian piano tutto torna alla normalità e la discussione riprende. Fine della scena.
Seguono parecchie scene in cui Doc e i suoi clienti illustrano mali della società e dilemmi morali; scene ben scritte, seppure non originali. Karen le lesse con grande attenzione ma non sentì il bisogno di ricorrere ai Post-it. Per questo salterò alla quasi ultima scena.
Il bar è buio e deserto, in chiusura notturna. Un orologio mostra che sono le quattro del mattino. Ma poi si sente una chiave girare nella toppa, ed entra Doc. E, sorpresa, con lui c’è la Ragazza. Prima era parso che i due non fossero nulla più che conoscenti ostili: l’esercente e la scroccona da strada. Adesso è chiaro che sono qualcosa di più. Nell’elenco dei personaggi a nessuno dei due viene attribuita un’età. Di Doc si legge che «non è più nel fiore degli anni; una vita diversa l’avrebbe forse reso meno curvo, meno accigliato». La Ragazza viene descritta come una che «campasse anche cent’anni, non smetterà mai di sembrare un efebo». Teoricamente dovrebbe essere indistinguibile da un ragazzo, nella sua lercia tenuta di jeans e maglietta. Quindi è senza seno e senza fianchi, ma questo significa che ha dieci anni, dodici, o venti? La Ragazza si siede al bancone mentre Doc vi si aggira dietro, entrando e uscendo da una porta al di là della quale adesso vediamo un mesto retrobottega, tutto linoleum che si sfalda e lampadine nude, più una branda. A quanto pare, è qui che Doc vive. Mette un piatto pieno davanti alla Ragazza, e lei mangia. Sembra che riprendano un dialogo interrotto in precedenza. Doc è arrabbiato con la Ragazza per la vita che fa. Il pubblico dovrebbe rendersi conto che è la preoccupazione, non l’accusa, il sottotesto delle urla di prima. Tanto varrebbe, ribatte la Ragazza, che Doc se la prendesse con sé stesso. Doc dice: «Facciamo tutti delle scelte». La Ragazza dice: «Veramente?» Doc dice: «Quando possiamo le facciamo, ma tu lo sai che io non posso». La Ragazza dice che però lei non può fare le scelte di Doc; nessuno può scegliere al posto di un altro. E qui Doc «crolla; che sia fisicamente, moralmente o in entrambi i sensi» (per citare dalle didascalie). Siamo a una resa dei conti: ma per cosa? «Non capisci?», dice Doc alla Ragazza. «Non capisci che sto cercando di rimediare?» «Per egoismo, come sempre», dice la Ragazza. «Ti prego, amore», dice Doc. «Ti prego, fallo per me». Indicazioni tecniche non ce ne sono, ma a quanto pare la Ragazza finisce di mangiare e si alza, ed evidentemente Doc fa il giro da dietro il bancone, oppure è lei a fare il giro da davanti, perché poi Doc «stringe la Ragazza in un abbraccio violento» (sempre dalle didascalie). Doc è il padre della Ragazza, o l’amante, o tutt’e due? Il copione non dà risposta a queste domande di Karen.
Doc e la Ragazza si ritirano nel retrobottega, la porta si chiude alle loro spalle.
Si sente uno sparo, fuori scena.
La Ragazza esce dal retrobottega e lascia il palco.
Ma la pièce non è finita. Le luci si riaccendono un’ultima volta. Siamo a un funerale. Il bar è addobbato di paramenti neri, c’è una foto incorniciata di Doc e un vaso di fiori che vanno appassendo. Tutti gli avventori di prima, in giacca e cravatta da pochi soldi, stanno seduti qua e là a bere e chiacchierare proprio come in scena uno, ma adesso il suicidio di cui parlano è quello di Doc. Ciascuno ha una sua teoria sul perché l’abbia fatto, e ognuno sputa la sua tronfia sentenza sul significato della vita. A un tratto, silenzio. È entrata la Ragazza. È vestita meglio, in abiti consoni all’occasione, anche se sembrano di seconda mano e non le stanno. Malgrado l’aspetto diverso, e la sua evidente intenzione di rendere omaggio al defunto, tutti i clienti la aggrediscono a colpi di «Vattene via, troietta!», «Vaffanculo, parassita di merda» e simili. La Ragazza non ha battute di rimando, ma neanche sembra uscire di scena. A quanto pare, la pièce termina con lei ferma lì. Entra, viene bersagliata d’insulti, e poi non resta che la parola
fine.
Karen però, leggendo quella parola, vide la fine con chiarezza, come Martin, scrivendo quella parola, doveva averla vista con chiarezza. Martin era regista oltre che drammaturgo: quella che poteva sembrare una mancanza, dal punto di vista della lettura, era in realtà un dono fatto a regista e attori. Karen è stata un’aspirante attrice. Ricorda bene come si riempiono quei vuoti.
Nella trance che l’aveva presa mentre leggeva, Karen perse la nozione del tempo. Le tornò in mente una volta che il professor Kingsley aveva detto alla classe che se avessero semplicemente letto Shakespeare al ritmo con cui lo recitavano gli attori, sarebbero stati in grado di leggere drammi interi in un paio d’ore. Quello era il genere di consiglio in apparenza incoraggiante ma in realtà critico e avvilente che Kingsley gli dava in continuazione malgrado, Karen ci avrebbe scommesso, lui per primo non avesse mai letto un’intera opera di Shakespeare in due ore, ma neanche un’intera opera di Shakespeare nella vita, eppure era un consiglio che non le era più uscito dalla testa. Le aveva dato l’idea, ovviamente erronea, che tempo di lettura e tempo di messa in scena fossero simili, quando in gran parte dei casi e senz’altro in questo le cose non stavano così. Aveva l’impressione di aver letto tutta la pièce di Martin nel giro di minuti, eppure il copione era lungo più di cento pagine e infarcito di silenzio invisibile, e non solo del tipo che richiede tempo in scena. C’era moltissimo silenzio di scena, la cui rappresentazione poteva richiedere minuti ma anche ore; ma c’era anche un silenzio di significato, un rifiuto di esporre i fatti. Questo rifiuto dette a Karen la sensazione di una sfida, anche se impiegò parecchio tempo a provare sensazioni e a dar loro un nome prima di trovare il nome di quella lì. Sfida. Una sfida molto personale. Questo non per dire che Karen abbia sentito la pièce come una sfida nel senso di un messaggio personale da parte di Martin, della lettera che le aveva promesso, finalmente arrivato a destinazione. Non è mica matta, Karen. Non sente parlare il paralume, né legge auspici nelle uova. Questo per dire che ha sentito, da sé, per sé, una forte sfida a entrare nei silenzi della pièce e a pronunciarne il significato.
Alcune parole sono sia nomi che forme verbali. Ballo/ballo. Modifica/modifica. Permesso/permesso. Sulla mia bacheca ce n’è affissa una lista, compilata a uso di stranieri con scarsa padronanza della lingua e pensata per illustrare non tanto la versatilità di certi vocaboli, quanto il fatto che solo il contesto permette di distinguerne la funzione nominale da quella verbale, il soggetto dall’oggetto dell’azione. «Ballo meglio grazie al mio maestro di ballo». «Modifica il testo, se serve una modifica». «Il permesso scritto mi ha permesso di licenziarti». Queste frasi esemplificative le ho composte io. Il mio elenco di parole mi piace perché somiglia a una monotona poesia, ma anche perché il fenomeno che descrive riguarda un numero limitato di parole, che fra loro non sono collegate da nient’altro. Anche «provino» è una parola che può cambiare significato: ci provino, a dimostrare il contrario. Qui però m’interessa il «provino» nel senso del breve saggio di abilità richiesto a un aspirante attore. Ma anche, secondo il vocabolario, di «campione da sottoporre a una prova». Infatti «provino» è un diminutivo di «prova», che a sua volta viene dal verbo «provare» derivato dal latino probare, ossia «riconoscere che una cosa è buona»; e lo stesso «provino» ha poi prodotto il verbo «provinare». A rigore, qui il soggetto dell’azione è chi assiste alle performance: è David che provina gli attori per assegnare i vari ruoli, che li «mette alla prova». Ma gli attori, pur ignoranti e malati di egocentrismo come sono, un paio di cose sul potere le sanno. Infatti non usano il verbo «provinare», e dicono invece: questo weekend faccio un provino, oppure ho fatto un provino per questo spettacolo o per quel regista. L’appropriazione del sostantivo ribalta la dinamica tra chi compie l’azione e chi la subisce, tra l’agire e l’essere agiti.
La mia avversione per gli attori e la mia riluttanza a mettermi nella loro categoria intralciava il proposito che avevo fatto, dopo aver letto il copione, che la Ragazza l’avrei interpretata io e soltanto io. Volevo recitare senza essere un’attrice, e di certo senza dover recitare come un’attrice. Ma ancor più di quanto detesto gli attori, detesto quelli che si credono tanto bravi da poter semplicemente chiedere una parte e ottenerla. Perciò nei giorni precedenti i provini non dissi a David che ci andavo anch’io né gli chiesi semplicemente di darmi la parte, non scelsi un brano, non lo provai, non mi rassegnai all’idea di essere provinata – ma neanche all’idea di non fare il provino.
Il mattino dei provini stampai un monologo ma non lo imparai. Non lo guardai neanche. Andai al locale che David usava come teatro e rimasi fuori ad aspettare in macchina finché ebbi la certezza che dentro avevano quasi concluso – perché avevo dato una mano a fissare gli orari, come sempre rendendomi indispensabile per quei provini a cui David non mi aveva mai proposto di partecipare, avendo quasi certamente dimenticato la nostra lontana conversazione sul mio grande talento perché all’epoca era sbronzo. Seduta in macchina, mi sorprese constatare che non avevo la minima idea di cos’avrei fatto. Allora cercai di provinarmi da sola; tentai di evocare un pubblico e non ci riuscii. Poi, come se le avessero dato l’imbeccata, più o meno nell’istante in cui intuì che dentro avevano concluso, Karen scese dall’auto e si avviò rapidamente all’interno dove una giovanissima, minuta e graziosa attrice stava parlando con David che chiaramente l’aveva appena provinata o forse, abbandonata ogni soggettività, a giudicare dal viso appena arrossato aveva lasciato che fosse lei a fare il provino. Karen sapeva che i provini innervosivano David come se fosse lui, quello che aveva qualcosa da dimostrare: forse fu quella consapevolezza a imbaldanzirla. Prese una sedia, gli si piazzò di fronte ed entrò a viva forza nella conversazione tra lui e l’attrice, la quale s’impappinò, sorrise e finalmente andò a recuperare la borsa mentre l’aiuto regista di David prendeva il portablocco e sfogliava pomposamente le distinte di presenza che la stessa Karen aveva stampato. «David ha quasi fatto, se ci dai un secondo», disse l’aiuto regista, ma Karen lo ignorò e rimase concentrata su David. «Secondo te io non sono capace», gli disse.
«Di fare cosa?», disse David.
«Secondo te io non sono capace», ripeté lei, esattamente allo stesso modo. David si sintonizzò.
«Secondo me tu non sei capace», disse.
«Secondo te io non sono capace», disse Karen.
«Secondo me tu non sei capace», disse David.
«Secondo te io non sono capace», disse Karen.
«Secondo me tu non sei capace», disse David.
«Secondo te io non sono capace».
«Secondo me tu non sei capace?»
«Secondo te io non sono capace», confermò lei, perché tu non t’impegni, cazzo, non mi metti alla prova, non sai mettere alla prova niente e nessuno.
«Secondo me tu non sei capace?», disse David rabbioso.
«Secondo te io non sono capace!»
«Secondo me tu non sei capace?»
«Secondo te io non sono capace!»
«Che cazzo state facendo?», strillò l’aiuto regista di David.
«Sta’ zitto, Justin! Secondo me tu non sei capace!»
«Secondo te io non sono capace?»
«Lo scopo della ripetizione», aveva detto una volta il professor Kingsley, «è il controllo del contesto. Gli interlocutori piangono, urlano, si abbrancano a vicenda in mezzo alle gambe, si strappano i vestiti... ripetendo sempre la stessa frase...»
Karen e David non si abbrancarono da nessuna parte, né si strapparono i vestiti. Per urlare urlarono, via via con più gusto. Karen in effetti pianse, un pochino, ma solo dopo essere tornata a casa. «Ripetere» non stava sul suo elenco perché non è un omografo, però è un’altra parola dal doppio significato: ridire qualcosa che qualcuno ha già detto, ma anche rifare qualcosa da capo. «Secondo te io non sono capace», ripetuto, vuol dire anche: «Ci sono cose che vorrei rifare da capo».
Ho detto che David m’interessava. Sarah no. Sarah mi ossessionava. Non uso questa parola con leggerezza. Ricordiamoci che queste due parole non rappresentano differenze di grado. Il dizionario ci dice che essere interessati a qualcuno significa nutrire nei suoi confronti «attenzione, premura, curiosità». La curiosità è un’emozione affettuosa e perfino una presa di posizione morale: se facciamo di qualcuno l’oggetto della nostra curiosità non lo pre-giudichiamo né lo condanniamo. Non lo temiamo e non lo aborriamo. Il mio analista, quando ci vedevamo, mi esortava spesso a «mantenermi curiosa» ed era bella, questa cosa che sia pure invano tentava di farmi fare, perché la curiosità è una bella sensazione.
Essere curiosa verso David, interessata a David, mi faceva sentire come se l’avessi sottoscritto, scelto. Di contro, essere ossessionata da Sarah era una forma di schiavitù. «Ossessionare» viene dal latino obsessus, participio passato di obsidere, da ob- («contro» o «di fronte a») + sedere = «stare seduti di fronte a» (senso letterale) = «occupare, frequentare, assediare» (senso figurato). Quando diciamo che siamo ossessionati, stiamo dicendo che siamo posseduti, controllati, perseguitati da qualcosa o qualcun altro. Siamo circondati, sotto assedio. Non abbiamo scelta. Io avevo l’ossessione di Sarah, cioè ero ossessionata da lei, la sua esistenza mi privava di qualcosa che mi serviva per sentirmi completa e padrona di me stessa. Fossi andata a chiederlo a Sarah, però, lei avrebbe detto che non mi aveva mai fatto niente. È sempre così, con le persone da cui siamo ossessionati. Loro hanno ossessionato noi, ci hanno transitivizzati, ma sono i primi a meravigliarsene.
E quindi chi è che la provoca – l’ossessione? Diversamente che per altre cose di cui la incolpavo, di questa non incolpavo Sarah. Non era colpa né sua né mia. L’ossessione è un tormento involontario, inflitto da una persona ignara di essere un fantasma. Io sapevo che Sarah era il mio fantasma, ma lei si era dimenticata della mia esistenza.
Da Skylight Books Karen e Sarah, l’autrice sua vecchia amica, si spostarono in un costoso e scicchissimo ristorante messicano fatto di enormi e candidi lenzuoli di lino come l’accampamento di un sultano, se mai i sultani mangiassero messicano. La cosa che meglio imprime nella mente del visitatore il concetto che a Los Angeles non piove mai sono i negozi o locali che non si prendono il disturbo di darsi un tetto. Palme in vaso, panchette bianche, gazebo di servizio per il personale scintillanti di bicchieri a calice e coltelli da bistecca: tutto stava sotto l’aranciato cielo notturno con quel paio di stelle sfocate. Cavi d’acciaio s’incrociavano in aria a formare una griglia dalla quale pendevano lucine natalizie, gonfie lanterne di carta e i vasti lenzuoli di lino bianco pensati per dividere l’aria notturna in zone cena «private» sicché la sensazione, per chiunque fosse sobrio, era quella di trovarsi in mezzo al bucato steso di un ciclope. Karen si rendeva conto che Sarah era nervosa, e nemmeno la sua «faccia da ascolto» più attenta, pronta per l’esercizio della professione, riusciva a farla scalare verso una marcia più bassa. Sarah sfiorava già il fondo del suo daiquiri e Karen, mentre Sarah parlava, fece cenno al cameriere di portare un altro daiquiri e un altro bicchiere di quello che stava bevendo lei, un bizzarro cocktail analcolico a base di succo di lime e, a quanto pareva, pacciame di tosaerba. Siccome il punto di vista dell’astemio sembra più unico che raro, specie tra la gente che legge, consentitemi d’intervenire ancora e osservare che nella mia esperienza la gente che beve, quando si trova con un astemio, non si astiene mai. Anzi, beve di più. I bevitori si trovano a disagio, con gli astemi. La situazione che temono – ubriacarsi sotto gli occhi di chi è sobrio – è precisamente quella che creano.
«Ma adesso basta parlare di me, tu cosa mi dici?», esclamò Sarah al termine di una lunga litania di eventi inattesi che le erano capitati durante il tour di presentazioni del libro, nessuno dei quali avrebbe potuto essere più inatteso dell’apparizione di una dei suoi personaggi, in carne e ossa, a invalidare tutti i ricordi che Sarah ne conservava. «Che cos’hai combinato in questi ultimi, boh, quindici anni?»
«Mah, niente di che», disse Karen, sorridendo per far vedere che non riteneva la domanda troppo tardiva per essere cortese, se non addirittura insincera. «Più che altro ho fatto lavori di amministrazione, la segretaria, l’assistente personale, roba così... magari a scuola non te ne sei mai resa conto, ma io sono un tipo molto organizzato». La risata condivisa arrivò proprio al momento giusto. Esattamente come aveva immaginato di fare, Karen raccontò a Sarah del recente viaggio in Vietnam con il fratello, così illustrando la propria vita spensierata e ben finanziata.
«Oddio, tuo fratello!», disse Sarah, esultando perché si ricordava dell’esistenza di questa persona. «Come sta? Cosa fa?»
Karen rispose alle domande di Sarah nello stesso modo in cui avrebbe parlato del fratello a un estraneo qualunque, menzionando i dati di fatto più prevedibili e meno particolari, che avrebbero potuto riguardare chiunque. Single, abitava lì a Los Angeles, era un avvocato di diritto societario. Suo fratello, con cui Karen condivideva la faccia e molte altre cose meno visibili. Karen sapeva che Sarah non poteva neanche fingere di trovarli, questi banali dettagli su Kevin, esattamente identici a come se li era aspettati, oppure del tutto diversi. Il fratello di Karen era stato, all’epoca, talmente fuori della sua visuale che adesso Sarah faticava a inserirlo nel quadro generale, e sembrava addirittura credere che Karen si sarebbe meravigliata al sentirne il nome. «Kevin, Kevin, Kevin, ommioddio», arpeggiò Sarah, come se il nome del fratello di Karen fosse la risposta a un difficilissimo quiz. «Me lo ricordo... oddio! Portava una collanina con appesa una lametta da barba che secondo lui era una ficata, te la ricordi?» Forse che non la ricordava, Karen? Forse che non ricordava, Karen, ogni granello del paesaggio infantile che aveva condiviso con il fratello minore e di cui la collanina con la lametta, che ci crediate o no, non era neanche un elemento così cruciale? Ciò malgrado, Karen annuì e sorrise come se lei e Sarah passeggiassero fianco a fianco tra i ricordi di Kevin, come se la collanina con la lametta girasse e splendesse nel loro cielo con l’enormità di un sole.
Quante stanze ospitano il passato? Nella loro città natale lo spazio costava poco. Perfino le case dei poveri erano gonfie di spazio; solo che erano fatte al risparmio. L’appartamento in cui abitava Sarah con la madre, la casa in cui abitavano Karen e Kevin con la madre, erano strutture di merda piene di scarafaggi e muffa, maniglie di rubinetti e di porte che venivano via, finestre e porte che non si aprivano o non stavano chiuse, ma non erano mai anguste, c’era sempre spazio; umido, ma più di quello che si poteva dignitosamente riempire. Karen e Kevin, prima e dopo il divorzio dei genitori, avevano sempre avuto ognuno la sua stanza: cameroni dai soffitti bassi e macchiati, con la moquette sporca e infeltrita, cabine armadio con le porte a soffietto che uscivano dalle guide, finestre scorrevoli con gli infissi d’alluminio che s’incastravano, cigolavano e producevano una strana ruggine biancastra, come un deposito salino, che restava sulle mani. Già una stanza come quella faceva schifo, ma due erano letali. Per tutta l’infanzia Karen e Kevin non avevano fatto che migrare verso l’una o verso l’altra, non si rassegnavano ad averne una ciascuno, capivano con il corpo, se non con la mente, che due corpi in una stanza battono la stanza, ma un corpo solo in una stanza viene sconfitto. E perciò ognuno dei due continuava a sgattaiolare in camera dell’altro – sì, a sgattaiolare, perché nel corso della loro infanzia c’era sempre stato qualcuno dell’opinione, espressa apertamente o meno, che loro non dovevano condividere la stanza. Prima del divorzio erano stati il padre e la nonna a pensarla così. Dopo il divorzio, per un po’ la madre aveva avuto un fidanzato che la pensava così. Alle superiori era Sarah, a pensarla così – non consciamente, perché Sarah nemmeno sapeva che molto spesso Karen divideva la stanza con il fratello. Era solo che Sarah avrebbe trovato strano che Karen, in una casa con quattro camere e tre abitanti, potesse dividere la stanza con il fratello. E perciò Karen e Kevin, per non sembrare strani agli occhi di Sarah, si ritiravano ciascuno nella sua camera. Kevin, Karen lo capiva, condivideva la ferma determinazione della sorella a non spaventare un’amica-trofeo come Sarah. Anzi era possibile che Kevin – dodicenne l’anno che Karen aveva conosciuto Sarah, ancora in jeans taglia bambino, tenero, pallido, rotondetto, goffo e sgradevolmente timido – fosse ancor più fermamente deciso di lei. Kevin sbirciava Sarah da dietro le porte. Era possibilissimo che si fosse comprato con le paghette risparmiate, nel negozio più grande del centro commerciale, la ridicola lametta appesa a una catenina nella speranza di conquistare l’approvazione di Sarah.
Quindi sì, nella versione di Sarah dell’infanzia di Karen, Kevin esisteva a malapena, mentre nella versione di Karen e Kevin della loro infanzia, Sarah incombeva. Sarah si era stupita di ricordarsi Kevin, mentre sperare che Kevin potesse dimenticare Sarah, Karen lo sapeva, era chiedere troppo. Quando aveva prenotato il viaggio a Los Angeles, Karen aveva deliberatamente omesso di dire al fratello che aveva scelto quella particolare data per incrociare Sarah durante il tour di presentazioni. Temeva che avrebbe voluto accompagnarla. Temeva che lui mettesse in crisi la sua idea di Sarah, prodotto di una grande fatica analitica, mediante la propria idea, cristallizzata nell’ambra di una cotta infantile. Ma almeno Kevin aveva un’idea di Sarah, diversamente dalla non-idea che Sarah aveva di lui: essersi ricordata il suo nome da sbronza era un altro degli eventi imprevedibili che le erano capitati. «Kevin! Ommioddio. Quindi voi due vi siete trasferiti a Los Angeles insieme? Che teneri. Me lo ricordo, che eravate molto uniti». Sì, erano uniti, ma no, lei non se lo ricordava. Lei non si ricordava niente del genere. Mentre ordinava a Sarah un terzo daiquiri, Karen sorrise di nuovo.
«Per un po’ abbiamo vissuto qui tutti e due, e ci sono stata molto bene. Adesso però sono tornata giù a casa».
Sarah ci mise un momento. «Cioè, dove siamo nate?»
«Casa dolce casa».
«Tu abiti lì?» La voce su di giri di Sarah calò di un’ottava. Si era finalmente dimenticata di sé, ed era riapparsa quella sua aria ironica da persona che sa le cose – e non necessariamente se ne cura, ma le sa – che Karen ricordava con tanta chiarezza. Sembrava sempre che Sarah sapesse. Non qualcosa di te, ma qualcosa che tu volevi sapere. Ora sembrava che vedesse la loro città, mollata sul tavolino accanto come una serie di ciotole sporche di guacamole. «Mai avrei pensato che potessi abitarci tu. Più facile che pensassi di poterci abitare io, e non l’ho mai pensato. Com’è?»
«Si sta benissimo. Non è lo stesso posto di quando eravamo ragazzine. Cioè, quel posto esiste ancora, ma non è lì che passo il tempo».
«Quanto odiavo stare là. Mi sono sempre sentita impotente».
«Eravamo piccole. Era normale che fossimo impotenti».
«Tu non eri impotente. Tu avevi la macchina».
Quanto le era rimasta impressa, a Sarah, quello schifo di macchinetta delle superiori! Tra le cose del libro di Sarah che più avevano affascinato Karen c’era proprio quel complesso della macchina. Era un elemento che la manteneva curiosa, nei confronti di Sarah, e non solo furibonda. Avesse deviato per sentieri freudiani, come a volte suo malgrado le piaceva fare, Karen avrebbe potuto concludere che c’era, in aggiunta all’ovvia invidia del pene (o del fallo? Su Freud Karen è un po’ arrugginita, ricordiamoci che all’università ha studiato danza), anche un ovvio filo d’invidia del padre, con l’auto di Karen a rappresentare il ruolo del padre di Karen nella sua vita, che per quanto minuscolo aveva pesato più del ruolo del padre di Sarah nella vita di Sarah, dato che Sarah non lo vedeva mai e non sapeva nemmeno dove abitava. E qui con «padre» potremmo intendere qualunque forma di cura virile. Si veda per esempio la specialissima amicizia di Sarah con l’uomo che chiamiamo professor Kingsley, e la fine misteriosa di quella stessa amicizia. A titolo di altro esempio, si veda la fissazione di Sarah con la macchina di David. Quel telefono a cui lui non risponde, quel macello sul sedile del passeggero. Quell’orgasmo che Sarah si procura, masturbandosi, perché David non è lì. Tutto in quella macchina rappresenta la promessa infranta da David di prendersi cura di Sarah, come se David fosse stato qualcosa di più – avesse dovuto essere qualcosa di più – dell’ennesimo adolescente sgangherato. Ma perché doveva essere David, ad avere la responsabilità di Sarah? Dov’erano gli adulti, nella loro vita? Neanche avesse sentito l’imbeccata, Sarah disse: «Vedi ancora qualcuno?»
E con «qualcuno» Karen capì che Sarah intendeva David, e provò la soddisfazione di veder giungere la serata esattamente dove lei aveva previsto, come un treno che entra in stazione spaccando il minuto.
«Vedo parecchio David. Anzi, stiamo lavorando insieme a un progetto».
Un’altra cosa che Karen ha notato, sulla gente che beve, è che l’ubriachezza non si accumula con l’uniformità della neve che scende. È tutta dossi e cunette, attimi di confusione e parziale chiarezza. E benché la confusione non faccia che peggiorare, e la parziale chiarezza si offuschi sempre più, continuano a esserci questi momenti in cui si raggiunge un picco da cui la persona ubriaca è convinta di vederci bene. In cui si sente certa di non essere ubriaca. E lì si trovava Sarah quando saltò fuori l’argomento David. Non era più stridula e sovreccitata, non macinava più euforia fasulla, era frollata fino all’osso. Ma di certo si sentiva salda e sicura tra le mura della propria fortezza. Se è possibile vedere l’egocentrismo di una persona schiantarsi contro la sua curiosità, veder collidere la sua introversione e la sua estroversione, allora in Sarah io l’ho visto. Ho visto la sua smania di parlare di David incontrare la sua smania di apprendere da me un nuovo David. Prima si era dimenticata di sé. Adesso, per fargli spazio, si metteva da parte.
«Raccontami di lui», disse.
Un problema che ho dovuto affrontare in analisi è la mia memoria assoluta. Da sempre ho una straordinaria capacità di ricordare. Da sempre la gente la nota. E nessuno più di mia madre, che quand’ero bambina amava esibirla. C’era la versione allegra in cui mi usava per fare la spesa al posto della lista. Immaginatevi me a quattro o cinque anni, e un Kevin più piccolo e cicciotto incastrato nel seggiolino del carrello. Una corsia dopo l’altra, snocciolavo l’elenco di ciò che serviva in cucina, approssimato al grammo. Ci mancano il latte e il pane, ci sono rimaste tre uova, c’è un petto di pollo congelato nel freezer, la scatola del bicarbonato è vuota, c’è solo un pacchetto di cracker. Se poi c’era altra gente a portata d’orecchio mia madre mi faceva domande sul livello del barattolo dello zucchero, o sullo stato della lattuga, sempre sperando che qualcuno facesse un commento: e quando succedeva partiva in quarta. «Mi creda, sa anche quand’è stata l’ultima volta che ho passato l’aspirapolvere». [Risa elogiative.] «Mi creda, c’è poco da scherzare quando tua figlia si ricorda che le avevi promesso un gelato... l’estate scorsa!» [Altre risa elogiative.] Poi c’era la versione meno allegra in cui mi usava nelle guerre contro mio padre oppure, in seguito, i suoi vari fidanzati. «Sei sicuro che vuoi dirmi una cosa del genere? Guarda che Karen ti ascolta». «Karen, cortesemente, ricorda a Paul cos’aveva promesso di fare». Una volta che sono cresciuta, però, mia madre ha smesso di esibire la mia memoria a destra e a manca, di vantarsene o di usarla per colpire i suoi nemici. Al contrario, ha preso a denigrarla. La mia memoria aveva sempre costituito la prova definitiva di qualunque sua tesi, ma stranamente confutava tutte le mie. Sì, certo, ricordavo il tale o talaltro episodio, ma non lo avevo capito. Chiunque avesse il cervello tanto ingombro di inutili sciocchezze come i grammi di dentifricio rimasti nel tubetto non poteva capire il significato delle cose. Mia madre prima ha sfruttato la mia memoria, poi l’ha offesa, ma la conclusione che ho raggiunto da sola non è mai cambiata. La mia memoria era la parte più profonda della mia identità, e io dovevo proteggerla.
L’analisi può sembrare una revisione della memoria. Può darti l’impressione che ti stai salvando la vita distruggendo la tua storia e scrivendone un’altra. Puoi avere l’impressione che l’analisi non riesca a levarti le sue luride zampacce di dosso. Nella migliore delle ipotesi l’analisi richiede una scomoda umiltà da parte della persona dotata di memoria assoluta, e nella peggiore mi ricorda mia madre – con la differenza che l’analisi pretende la verità emotiva, mentre mia madre scappa terrorizzata da qualunque emozione o verità che non sia la sua. Sarah era uguale a lei, come avevo sempre ritenuto? Una cosa che già dalle superiori sapevo di Sarah era che quanto a memoria era ben al di sotto della media. Dimenticava le cose di continuo, in qualsiasi categoria. Dimenticava dove aveva lasciato la borsa, il giubbotto, il rossetto nell’istante in cui le si staccavano di mano. Dimenticava i compiti assegnati, o se li aveva fatti. Dimenticava perché aveva litigato con questa o con quello, e cosa si erano detti. Il risultato della sua smemoratezza – o la causa? – poteva essere il suo «dono immaginifico» di riscrivere il passato, ma questo significava che era più portata, o meno, a intuire la verità emotiva di qualcun altro? Se aveva dimenticato la mia verità emotiva – ammettendo che l’avesse mai saputa – adesso stava ancora più attenta a coglierla? O si sarebbe limitata ad attribuirmi la sua, come avrebbe fatto mia madre, ignorando quello che non tornava?
Karen avrebbe detto la seconda – o avrebbe pensato di dire la seconda. Ma mentre Sarah attaccava il quarto daiquiri, Karen si rese conto che qualcosa era cambiato, e non era solo il livello di alcol nel sangue di Sarah. Sarah, che era apparsa in tutta evidenza sconvolta e atterrita dalla comparsa di Karen in libreria – comparsa che in quel momento, volontariamente o meno, era stata in perfetta sintonia con la verità emotiva della situazione, e cioè che Karen la disprezzava – si era adesso accoccolata, con la fiducia cieca di un bebè, in una diversa e fraudolenta interpretazione che era opera di Karen. Secondo quella nuova e fraudolenta interpretazione, Karen e Sarah non avevano mai rotto. Erano sempre state amiche. Non avevano mai smesso di volersi bene, avevano solo preso strade diverse. E Karen si rese conto di aver sempre saputo che Sarah, pur con tutto il carisma e la bellezza e l’aria di chi la sa lunga – che non equivale a saperla lunga davvero – di base era una smemorata, un’insicura, una che diffidava del proprio istinto e andava sempre in cerca di elogi e conferme. E si rese conto di aver sempre saputo che Sarah, a dargliene la possibilità, avrebbe ignorato la verità emotiva di Karen se le fosse stata proposta una falsità emotiva che la facesse sentire meglio. E si rese conto che questa debolezza di Sarah era un aspetto su cui lei, Karen, aveva fatto affidamento. Malgrado i dubbi autocritici sull’essersi presentata da Skylight Books senza un piano preciso, Karen si concesse di ammettere che un piano ce l’aveva avuto fin dall’inizio.
«Quanto avrei voluto vedere la sua faccia quando ti sei presentata ai provini», proseguì Sarah, impaziente. A questo punto sapeva della nuova pièce di Martin – ma non della caccia alle streghe – e dell’allestimento che ne avrebbe fatto David – ma non della crociata – nonché della sfacciata, divertita decisione di Karen di prendere in parola il fasullissimo invito di David a fare un provino per lui, se non della forma che il provino aveva assunto. Karen l’aveva fatta ridere accennando al subdolo uso, da parte di David, del proprio fascino come metodo di pagamento. Uh, sì, Sarah se lo ricordava bene: la dote che aveva David di farti sentire come se solo lui vedesse le tue doti. Malgrado la serata fresca Sarah pareva accaldata, per l’alcol ma più concretamente per questo ricordo di David e il piacere di parlarne. Anche se, nella sua lieta e rinnovata fiducia nell’amicizia con Karen, non trascurò di insistere sul fatto che Karen i numeri ce li aveva. «Voglio dire, David ha ragione, tu sei brava», disse, «ma penso che hai ragione anche tu, cioè che ti ha detto di fare il provino perché gli piace tantissimo fingere di essere un tipo aperto e solidale. Per questo adoro che ci sei andata. E insomma, che è successo?»
Karen fece una faccia comicamente sorpresa – ah, non gliel’aveva detto? «Ho avuto la parte». Sarah strillò e gettò le braccia in aria.
«Dopo tutte quelle cazzate sul mio talento incompreso, mi sa che doveva prendermi per forza», seguitò Karen. Questa era falsa modestia. Ricorderete che il ruolo – l’unico ruolo femminile nella pièce – era stato scritto per una donna che «campasse anche cent’anni, non smetterà mai di sembrare un efebo». Ricorderete che il personaggio è talmente esile da apparire di sesso incerto. Karen è minuta e in splendida forma, ma ha smesso di «sembrare un efebo» quando ha compiuto dieci anni e non è mai stata presa per un maschio. La giovane attrice graziosa di cui Karen ha spazzato via il provino dalla memoria di David, lei sì che era efebica; ma David alla fine ha scelto Karen, con sua stessa grande sorpresa, e non per pietà né per senso di colpa. Il suo fisico non ideale è la prova che lei ha qualcosa di meglio da offrire. «Non c’era stato qualcosa, fra te e Martin?», le aveva chiesto David al Bar, dopo averle detto che con sua grande sorpresa le affidava la parte. Karen l’aveva guardato di sotto in su, come se non si aspettasse la domanda – se l’aspettava eccome – e la trovasse molto inelegante. «Va bene», aveva detto David, «però fammi un favore. Non contattarlo prima della prima prova. Voglio vedere la faccia che fa. Perché scommetto che ci torna utile per quando la Ragazza entra nel bar di Doc la prima volta».
«Quindi Doc lo fa lui?», aveva chiesto Karen con nonchalance.
«Cazzo se lo fa. Gli ho detto che non mettevo in scena lo spettacolo se lui non faceva Doc. E adesso non sto nella pelle dalla voglia di vedere la faccia che fa quando si trova davanti te».
«Anch’io», disse Karen.
Nel ristorante messicano all’aria aperta Karen non scese in questi particolari con Sarah, neppure quello della parte affidata a Martin. Ma quando Sarah le chiese: «Secondo te esiste la possibilità che Martin venga a vederlo?», Karen rispose: «David sembra certo di sì», e osservò Sarah prima resistere, e poi cedere alla tentazione.
«Se ce la fa lui dall’Inghilterra, posso farcela anch’io da New York. Devo. Non ho mai visto neppure uno spettacolo di David».
«Davvero ci verresti?», si stupì Karen. «La prima è fra meno di tre settimane».
«Davvero», disse Sarah. Splendeva come una lanterna, come stesse già assorbendo la stordita adorazione di David davanti alla sua inattesa comparsa come spettatrice. «Scrivimi le date sul tovagliolino. Appena torno in albergo prenoto il volo».
«Ma dici sul serio?», insisté Karen.
«Certo che dico sul serio! Non posso non venire. Uno spettacolo di David, con te dentro?»
«No, perché... se fai sul serio...»
«Cosa?»
«No, è assurdo».
«Dimmelo e basta!»
«Mi è appena venuta quest’idea assurda... non ti offendere. È solo che, ti ricordi tutte le volte che siamo state ai costumi? Per quanto, il mio personaggio ha un cambio solo. E non è neanche particolarmente veloce».
Sarah si coprì la bocca con la mano, dissimulando a malapena uno strillo. Poi dovette levarla per parlare di nuovo. «Ma ti faccio io da sarta! Ti vesto io!»
Le madri stirano ancora? O forse, meglio: la gente stira ancora? Però va detto, erano le madri a stirare, non la gente. Ai tempi perfino la madre di Karen, che si trascinava per casa in vestaglia con i volant e ciabatte con la zeppa, stirava. L’asse da stiro sempre ritta sul trespolo a X, con addosso la copertura argentea tenuta stretta dall’elastico. A Karen sdraiata a terra sotto l’asse quell’elastico ricordava i suoi pannolini, che in quel ricordo appartenevano a un passato recente. Avrà forse due o tre anni, sta sdraiata sotto l’asse da stiro e guarda l’elastico arricciato che tiene a posto il tessuto liscio e argenteo. Kevin dev’essere poco più di un bebè, a scalciare nel box o a fare il sonnellino nella culla. Il padre di Karen vive ancora con loro e la madre di Karen gli sta stirando le camicie. Ci spruzza sopra qualcosa da una bomboletta, allo stesso modo in cui spruzza le padelle prima di preparare la cena, ma a Karen il profumo dell’appretto spray cotto dal ferro da stiro fa venire più fame del profumo di qualunque operazione di cucina. Il ferro, quando scende sulla chiazza di appretto umido, sembra mangiarselo, con un crepitio e un sibilo compiaciuto. E sua madre, che compie trasognata quell’umile incombenza come se non esistesse nulla di più romantico, è la madre che Karen vorrebbe, la madre che cercherà sempre di trovare. Nella sartoria della CAPA, dove Karen aveva riscoperto l’appretto caldo, quel rumore e quel profumo l’avevano appagata durante tutti gli spettacoli in cui si era occupata dei costumi, in cui aveva vestito qualcun altro per andare in scena. L’appretto spray caldo la calmava. Le richiamava l’antica sicurezza dell’infanzia perduta. E aveva legato lei e Sarah in un’armonia, a stirare costumi. Adesso quei pomeriggi passati insieme in sartoria, che all’epoca le facevano venire nostalgia di quando era bambina, sono a loro volta un antico ricordo d’infanzia. La nostalgia è un «affetto malinconico o desiderio intenso del passato». Deriva dal greco nóstos, ritorno, e álgos, dolore.
A tanti anni di distanza dalla prima volta, Martin dunque tornò. Ad attenderlo all’aeroporto c’era David, che lo avrebbe ospitato nel suo tremendo appartamento. Karen sapeva che per la Confraternita Artistica d’Élite questi accordi erano di rigore, ma si chiedeva comunque quanto Martin avrebbe gradito il divano letto di David, dopo la camera degli ospiti del professor Kingsley. La stessa Karen, inevitabilmente utile, mandò un’impresa di pulizie a suffumicare e bonificare casa di David prima dell’arrivo di Martin, guadagnandoci come al solito la meschina riconoscenza di David. Sempre lei prenotò i voli di Martin, compilò i moduli per una sovvenzione statale agli artisti ospiti, stilò il comunicato stampa che annunciava l’allestimento e aggiornò il sito web del teatro. In nessuna di queste occasioni Karen divulgò il fatto che l’Artista Ospite si portava dietro un alone di scandalo. Anche tra i membri della compagnia teatrale di David nessuno ne fece parola; per quanto poteva dire Karen, a parte lei, David e Kingsley nessuno ne sapeva niente. I presunti reati di Martin non lo seguirono in quella città americana dove aveva già trascorso un periodo oltre dieci anni prima. Ma non ce n’era bisogno, pensò Karen – l’autrice desidera concedersi un avverbio e scrivere – serenamente. Sì, Karen era serena nel pensare a Martin, nel prepararsi al suo arrivo. L’aggettivo «sereno» significa «limpido, tranquillo, privo di turbamenti» e spesso è riferito alle condizioni del cielo; il cielo che Martin aveva attraversato, se in uno stato d’animo sereno o no, non abbiamo modo di sapere. Accolto da David all’aeroporto, era possibile che Martin rimanesse sconvolto dalla sua trasformazione fisica. A trent’anni, David si poteva benissimo scambiare per un uomo vicino ai cinquanta: era calvo, la fronte, la pappagorgia e le spalle gli cascavano quasi fossero soggette a una forza di gravità potenziata, non riusciva mai a sbarbarsi decentemente, si era appesantito dappertutto e aveva il pallore tipico del forte bevitore e tabagista i cui unici momenti all’aria aperta sono quelli necessari a entrare e uscire dalla macchina. Era possibile che Martin, nel rivedere David, provasse la sensazione che il passato era più lontano di quanto aveva creduto. Avrebbe provato la stessa sensazione nel rivedere Karen? L’avrebbe riconosciuta?
La pièce si rappresentava in un ex capannone che adesso ospitava un bar nella metà anteriore e uno spazio per gli «eventi dal vivo» nella metà posteriore, delimitato da tribune malferme e tubi appesi al lontano soffitto con le catene, dai quali pendeva un assortimento di fari teatrali di seconda mano con i cavi logori e le gelatine raggrinzite. Tendaggi recuperati da un qualche antico teatro dismesso, neri e smangiati dalle tarme, avevano trasformato l’enorme capannone polveroso in una specie di labirinto di spazi che ai margini dovevano per forza essere collegati, solo che era impossibile capire dove: la gente non faceva che perdersi, cercando il bagno o tentando di uscire. La gente ci si ingarbugliava talmente, fra quei tendaggi neri che pareva segnalassero entrate o uscite ma non lo facevano, che qualche volta bisognava andare a salvarla dopo che aveva cominciato a chiamare aiuto. Il bancone del bar era un enorme ferro di cavallo in compensato, praticamente privo di posto per sedersi: per qualche misterioso motivo c’era solo una manciata di sgabelli, ciascuno con un bevitore gobbo e taciturno stabilmente appiccicato sopra. A parte quelli, alcuni divani e poltrone disseminati qua e là, ed evidentemente recuperati dopo che altri li avevano buttati via. La sera della prima prova di lettura, la sera del primo giorno intero di Martin in città, Karen arrivò presto e sistemò i mobili in cerchio, radunò un certo numero di portacenere e riuscì perfino a convincere il barista a darle una brocca d’acqua e un po’ di bicchieri. Ok, era nervosa. Non più serena. Ma si trattava di un nervosismo atteso e gestibile. L’origine era chiara e la durata sarebbe stata breve. Non sappiamo mai, quando la vita ci ricongiunge con qualcuno, quanto corrisponderanno le rispettive versioni della storia comune. Al contrario della prima volta in cui si erano visti, quando lei si sentiva molto grande ma in effetti era giovanissima, adesso Karen era davvero grande abbastanza da sapere che per Martin poteva anche non esistere alcuna storia comune. Poteva non essere rimasta – in questa persona che non l’aveva solo toccata, ma deformata – alcuna sensazione di contatto. Lui avrebbe potuto non riconoscerla. Se anche l’avesse riconosciuta, poteva non ricordare il minimo particolare del loro passato rapporto. Se anche avesse ricordato, poteva non ricordare i medesimi particolari. Se anche li ricordava, poteva non ricordarli proprio allo stesso modo. Ma a Karen sarebbe bastato molto poco per valutare la sfasatura e regolarsi di conseguenza.
A un certo punto venne raggiunta dagli altri quattro attori, che le rivolsero goffi convenevoli. Erano tutti sotto i venticinque anni e nervosi in presenza di Karen, della quale non capivano la posizione nella scala gerarchica della recitazione. E a Karen non poteva fregare meno di spiegargliela. Avrebbe potuto chiacchierarci pure nel sonno. Rispetto a questa storia e alla pièce, le erano completamente periferici. Si intromettono in questo paragrafo solo perché David era in ritardo; David gli aveva chiesto di presentarsi alle sette e mezza mentre lui e Martin, così aveva detto a Karen, sarebbero arrivati per le sette, perché David bramava di assistere senza distrazioni al ricongiungimento tra Martin e Karen. Ma come sempre, David era in ritardo senza essersene reso conto. Entrò nel vasto spazio polveroso con quel passo lungo e sorvegliato dietro cui trapelava sempre, anche in una penombra da crepuscolo, la consapevolezza del suo ruolo di impresario, l’acuto piacere e l’ansia nel far succedere qualcosa – in questo caso, il ricongiungimento di Martin e Karen. Ne potevano conseguire imbarazzo o diletto ma in ogni caso lui l’aveva fatto succedere e l’avrebbe innestato dentro la pièce, facendo così succedere altre cose. Questo era il punto di vista tipicamente egocentrico e non del tutto erroneo di David: che al centro dell’istante c’era lui. E a Karen il suo punto di vista andava benissimo. La manteneva invisibile.
«Ehi, ehi, ehi, guarda chi è tornato negli Iu Es Ei», disse David mentre Martin, stranamente piccolo, mani ficcate nelle tasche, testa esageratamente incassata nelle spalle, teneva il passo con in faccia un sorrisetto triangolare, a un’estremità del quale penzolava una sigaretta. Poi David vide gli attori. «Che cazzo ci fate voi qui?»
«Gli avevi detto sette e mezza. Sono le otto meno un quarto», disse Karen.
«Ma questa è Karen?», esclamò Martin, con l’enfasi estrema della goduria. Si strappò la sigaretta di bocca e si bloccò sui due piedi, ma il resto di lui sembrò sporgersi verso di lei, il sorriso soprattutto. Tuttavia, gli occhi lo contraddicevano. Lì si videro un lampo e un sussulto. Frenetica rassegna delle possibilità, rapida scelta di Entusiasmo. E David, con lo sguardo che rimbalzava sugli attori, si perse tutto quanto.
«Ebbene sì», sorrise Karen.
«Cazzo, ma stai veramente una favola!», disse Martin.
«Grazie». Karen accettò quell’omaggio con la signorilissima e laconica condiscendenza che aveva osservato una volta in un’attrice che interpretava un membro della famiglia reale inglese in chissà quale puntata di Masterpiece Theatre. La madre di Karen adorava Masterpiece Theatre, con l’adorazione servile di una che pensa di essere colta ma in realtà si sdilinquisce per i costumi. Karen aveva disprezzato per anni quella servile adorazione materna, eppure aveva continuato a guardare il programma, con la madre nelle viscere come un verme. Poi una sera ne aveva vista una puntata con quell’attrice in quella parte, appunto, che con una gran puzza sotto il naso reagiva con questo striminzito «grazie» a un complimento da parte di un tizio. Lo diceva proprio come se si stesse turando il naso, ma anche come se stesse facendo al tizio un dono immenso e comunicandogli che qualunque dimostrazione di riconoscenza sarebbe stata fuori luogo. Ah, con quanta tenera e intricata odiosità lo diceva, e Karen, che forse ai tempi era al college, aveva ripensato a Martin, sì, proprio a lui. Aveva ripensato alla Differenza Inglese e si era chiesta se ci fossero stati dei codici che lei non aveva capito. E adesso eccola qui, a dirgli quello stitico «grazie» e a osservare la reazione. Che cosa vide? Lo sguardo di Martin guizzava qua e là come una pallina da ping-pong. Pareva avesse capito che le uscite erano difficilissime da trovare. Il nervosismo di Karen, da qualcosa che ribolliva scoppiettando, si trasformò in qualcosa di freddo, rigido e patinato. Potremmo definire questa nuova cosa «sicurezza», dal latino se-, senza, e cura, affanno, e chi tra noi non ha notato che chi è sicuro di sé tende ad attenuare l’affanno anche nel prossimo? Lo sguardo di Martin faceva il ping-pong; e lui aveva ottime ragioni per stare sulla difensiva – dopotutto, si portava dietro un Alone di Scandalo. Ma aveva anche ottime ragioni per tacitare il proprio istinto e trovare motivi di sicurezza dove poteva. Ovvio che Martin preferisse normalizzare la situazione. Quale delinquente non lo vorrebbe. E il piccolo «grazie» abbagliante di Karen era così pieno di consapevole disprezzo che per qualche verso sembrò civettuolo, e tutto sommato lei sorrideva. Karen vide Martin riprendere il controllo e sfoderarle, per tutta risposta, il suo ghignetto laido da faina. Perfino David, pur sintonizzandosi un secondo troppo tardi, pensò che tra loro ci fosse un frisson e ne fu felice. Frisson è una parola francese che significa «brivido» o «fremito», e fino alla fine degli anni Sessanta non era di largo uso in questo paese. Poi, con l’arrivo della rivoluzione sessuale, la gente ne sentì o volle sentirne il bisogno; la madre di Karen, colei che viveva in négligé, adorava la parola frisson.
Karen, sempre col sorriso sulle labbra, si lasciò dare da Martin un bacetto su tutt’e due le guance, cosa che lui fece lanciando nel contempo un nervoso rimprovero a David. «Cazzo, non me l’avevi detto che avremmo visto Karen!»
«Almeno ti ha detto che faccio la parte?»
Al sentir dire così, Martin fu obbligato a mostrarsi talmente Entusiasta che saltò praticamente in aria – ma era perché la nervosa sicurezza che provava lo aveva convinto che in realtà Karen stava civettando con lui, che in realtà andava Tutto Bene. In questo modo Karen poté constatare che di fatto, malgrado tutti i suoi dubbi e preoccupazioni, la versione di Martin e la sua erano uguali.
Fingendo entrambi che così non fosse, i due si sedettero a raccontarsi pacchi di inutili bugie sugli ultimi dodici anni delle rispettive vite mentre i giovani attori affiancavano rispettosamente alla brocca d’acqua diverse caraffe di birra.
Poi si sedettero tutti quanti e fecero la prova di lettura.
«Nel primo atto Doc quasi non parla», osservò David alla fine, «eppure il pubblico deve farsi un’opinione di lui – che poi viene demolita».
«Visto che è la mia cazzo di parte, magari posso fare lo sforzo di scrivermi più battute», disse Martin, suscitando l’ilarità dei giovani attori.
David aggiunse qualcos’altro sulle caratteristiche sovversive del personaggio, con Martin che lo interrompeva a suon di commenti tipo: «È veramente un poveraccio, eh?», spacciando furbescamente ai giovani attori e a David il suo nevrotico bisogno di lodi sconfinate sulla complessità del suo Doc come falsa modestia travestita da giocosa autoironia. In pratica un virtuosistico millefoglie di stati emotivi, che tutti si sbafarono per poi restituire a Martin esattamente quel che voleva: altre risate, insieme alle rassicurazioni sul fatto che no, il suo Doc non era un «poveraccio», ma anzi un uomo della strada e forse addirittura un Cristo.
Oltre a dissezionare i raffinati espedienti di quel cialtrone di Martin, cosa che ebbe il gradito effetto di farle provare meno vergogna per la versione adolescente di sé che lo aveva trovato tanto geniale, Karen si divertì a cercare di indovinare quanto ci avrebbe messo uno qualsiasi dei maschi presenti a notare che lei stava seduta lì senza aggiungere una parola alla conversazione. Ma quelli stavano tutti bevendo birra, mentre lei no, per cui non si trovavano neanche sullo stesso fuso orario. «Secondo me nel primo atto dovremmo far vedere la pistola», intervenne allora. «Come dice Čechov. Se sentiremo una pistola nel secondo atto, nel primo bisogna vederla».
«In realtà lui sostiene che se la vediamo nel primo atto, nel secondo dovrà sparare. Ma è lo stesso. Ficata, Karen, brava».
«Me lo vedo, Doc, che a un certo punto fruga qua e là in cerca di qualcosa e poi sbatte la pistola sul bancone per levarsela di torno», osservò un attore.
«Tutti i titolari di bar tengono una pistola», disse un altro.
«Ma veramente?», fece Martin. «Che roba americana, cazzo. In Inghilterra non è così».
«Benvenuto nella cazzo di America».
«Potrebbe tirarla fuori la prima volta che compare la Ragazza, tipo che la sbatte sul bancone come a dire: Smamma, altrimenti...»
«Mi piace», disse David. «Ci servirà una pistola finta, ma tanto ci serviva comunque. Gli spari registrati sono penosi».
«Ci penso io», disse Karen.
I quattro giovani attori avevano deciso di fermarsi per sentire un gruppo che avrebbe suonato di lì a poco, perciò David, Martin e Karen uscirono insieme tornando sulla strada dissestata, tra lastroni di cemento crepati da cui spuntavano le erbacce e altri ex capannoni ancora non convertiti in bar con spazio eventi. Qualche traversa più in là correvano dei binari ferroviari, a sinistra dei quali sorgeva tutta la zona industriale; mentre sulla destra, dopo chilometri di terra letteralmente desolata, si vedeva il profilo ordinato del centro città, dove i semafori funzionavano. Su quella strada deserta David avrebbe potuto parcheggiare ovunque, non c’erano altro che posteggi, e invece aveva parcheggiato proprio dietro a Karen, sicché per tornare alle rispettive auto dovettero fare la strada insieme. La macchina sportiva di David, quella col telefono, era scomparsa da tempo. Quella con cui girava ora aveva un sacco nero della spazzatura al posto del finestrino del passeggero. Anche l’invidiatissima cabrio di Karen era scomparsa da tempo. Adesso lei girava con una pratica e linda utilitaria che David riconosceva solo perché l’aveva vista tante volte. Il marciapiede crepato e la strada deserta si estendevano fino all’orizzonte. Una tenebra infinita si estendeva nel cielo. Eppure quaggiù, a sinistra della terra letteralmente desolata, l’inquinamento luminoso era troppo leggero per posargli addosso, come una copertina consolante, la foschia arancio-salmone che era la notte della loro città: da parte di David, l’aver parcheggiato dietro Karen era un gesto cameratesco, quello degli animali gregari che si stringono gli uni agli altri all’imbrunire, per sentire meno il buio e il freddo. Karen fu indotta a chiedersi, mentre aprivano le rispettive auto, se David si fidasse del proprio giudizio meno di quanto aveva lasciato intendere. «Se anche faceva il cretino con le studentesse», le aveva detto qualche sera prima, «non è mica un delitto, cazzo. L’asticella si è veramente alzata troppo. Cioè, non puoi guidare senza cintura di sicurezza e non puoi scopare senza il permesso delle autorità? Tanto lo sappiamo, che erano tutte consenzienti».
«Chi ce lo dice?», aveva chiesto Karen in tono nessuna-polemica-semplice-curiosità.
«Ce lo dice lui – e onestamente finora nessuno è riuscito a darmi un buon motivo per non credergli. Adesso, dicono che non erano consenzienti; a distanza di anni, se non di lustri. Com’è ’sto fatto?»
«Non lo so, ma non è una prova che stiano mentendo».
«Be’, e allora tu cosa mi dici? Qualunque cosa ci sia stata fra voi, non eri certo una vittima indifesa. Gli avevi dato le chiavi della macchina. Si era trasferito a casa tua».
«Tutto vero», aveva detto Karen.
«Non eri una vittima indifesa», aveva insistito David. Aveva uno strano fervore nella voce, quando parlavano di Martin. «Potevi chiamarti fuori – potevi cacciarlo! Invece l’ha cacciato Kingsley, e tu te lo sei preso. Se c’era qualcuno di indifeso, quello era Martin».
«Non ti do torto», aveva detto Karen. No, lei non era stata una vittima indifesa. Non toccava certo a David giudicare, ma si dava il caso che avesse ragione. Ad ogni modo, quella sera era deciso a dimostrare qualcosa, e questa sera, mentre ciascuno dei due apriva la sua macchina, con Martin fermo là a dare tiri alla sigaretta come se ne andasse della sua vita e a fingere di ammirare l’orrendo panorama, Karen intuì che David non era certo di essere riuscito a dimostrarlo. E quando David si sentiva incerto, non si dava pace finché non estorceva una rassicurazione.
«Vieni al Bar?», le chiese con mal dissimulata insistenza.
«La minerale costa troppo. Vado a casa», disse Karen.
«Dai, Karen, vieni, ancora non ci siamo fatti una chiacchierata», intervenne Martin con mal simulata insistenza, così evidentemente desideroso di vederla andarsene che lei quasi rimase solo per fargli dispetto. Comunque, no.
Mio padre era falegname. «Come Gesù», per citare lui. E proprio come Gesù, papà sapeva fare un sacco di altre cose. Elettricità, idraulica: qualunque cosa servisse per costruire una casa, papà era capace di farla. Dopo che si era separato da mia madre veniva comunque a trovarci nei fine settimana, per fare lavoroni e lavoretti: sostituire le assi del tetto, pulire le grondaie, ricablare il ventilatore a pale, sgorgare la tazza del bagno. Nemmeno quello sapeva fare da sola, mia madre. Quando si trovò Ron, il primo di una serie di fidanzati, papà smise di venire; non che Ron sapesse riparare alcunché, solo che mia madre non voleva che l’accigliata competenza di papà lo facesse sentire sminuito. Le cose che venivano aggiustate erano quelle che avevo imparato ad aggiustare io, guardando, ma da sola non riuscivo a tenere dietro al deterioramento generale: all’epoca in cui cominciai le superiori, la casa stava ormai tornando allo stato di natura. L’erba in giardino mi arrivava alla vita, le querce stavano mettendo radici nelle condotte fognarie. Man mano che il nostro giardino si impadroniva della casa, la casa di papà si impadroniva del giardino: lui ci aveva aggiunto una terrazza in legno, poi aveva ampliato la cucina, trasformato il garage a due posti in una stanza per la tv e costruito una gigantesca tettoia per ombreggiare il vialetto. Nei nostri weekend andavo da lui con la mia macchinetta e ci lavoravamo su insieme. Anche lì, non c’era niente che papà non sapesse fare: motore, carrozzeria, aveva recuperato perfino dei sedili in pelle per l’interno. Non parlavamo molto, non ci confidavamo emozioni o pensieri. Io e papà – questo è quello che mi racconto io; chissà come la racconterebbe lui – siamo troppo simili per essere intimi. Siamo entrambi molto competenti, entrambi preferiamo essere lasciati in pace, entrambi avevamo un debole per mia madre e ancora ce lo rimproveriamo aspramente. Ripeto, se chiedeste a mio padre di lui e di me, è probabile che direbbe una cosa completamente diversa, ma è ancor più probabile che non direbbe niente.
Quando ero piccola papà si guadagnava da vivere con lavori di falegnameria e manutenzione varia, ma da un certo punto in poi, abbastanza presto, si mise a curare scene e luci al teatro dell’opera e si iscrisse al sindacato macchinisti. Era questo a dare da mangiare a me e Kevin, il lavoro sindacalizzato di papà e la sua correttezza nei nostri confronti nonostante mia madre, allora come ora, a stento lavorasse e spendesse i soldi degli alimenti per i suoi fidanzati. Mio padre ha lavorato per concerti rock e set di cinema, praticamente ovunque servisse un impianto luci, ma il suo reddito più stabile è sempre venuto dalla lirica, nel teatro in centro e in quello estivo nel parco – tutti palcoscenici moderati e tradizionali che David detestava. David, che era cresciuto con più soldi di chiunque altro a scuola nostra, ardeva di disprezzo per quei posti, che a suo dire fornivano un passatempo culturale a gente piena di soldi che non vedeva oltre il proprio naso. Viceversa mio padre, che era cresciuto povero e non aveva potuto studiare, avrebbe disprezzato le pièce guastatrici di David se avesse avuto il tempo di interessarsene, tempo che non aveva. Quando dissi a papà, che conosce tutti gli attrezzisti sindacalizzati del circondario, che mi serviva una pistola a salve per uno spettacolo di David, lui fece quello sbuffo dal quale bisogna arguire che sta ridendo. «E lo spettacolo come si chiama, La rivoluzione marxista? In ogni intervista che trovo sulle pagine culturali, quel bamboccio sta sempre a prendersela coi ricchi, ma mi pare che la grana non gli faccia schifo per niente. Ha anche lui i suoi angeli custodi, come tutti». Benché papà fosse religioso, quando diceva «angelo custode» non intendeva un emissario di Dio, bensì una persona ricca che elargiva donazioni per tenere in piedi il teatro di David.
«Lo so, è un paradosso. Ad ogni modo, pensavo che forse può darmi una mano Richie». Richie era un attrezzista amico di mio padre.
«Ti serve una pistola finta o una pistola a salve?»
«A salve, deve sparare».
«E allora usa una pistola finta e un effetto sonoro».
«Papà, non faccio io la regia».
«Io non mi fiderei, a dare una pistola a salve in mano a quello. Chi è il suo attrezzista? Come fai a sapere che sa il fatto suo?»
«Sono io l’attrezzista, e so il fatto mio».
«Guarda che pure senza proiettili è pericolosa lo stesso. C’è la cartuccia e la polvere da sparo. Non bisogna fare cazzate. Il figlio di Bruce Lee è morto così».
«Ma in quella pistola ci avevano messo praticamente un razzo».
«Perché gli attrezzisti erano dei deficienti. Devi sapere il fatto tuo».
«Lo so, papà».
«Tu lo sai, sì. Sono i deficienti che mi preoccupano».
«Va bene, non gliela faccio toccare», gli dissi.
Decisi di farmi dare da Richie una pistola finta e pure una a salve – per stare sul sicuro, concordammo. Ne presi addirittura due modelli diversi, così era impossibile confonderli. Quella finta era la riproduzione di una Colt con il calcio di legno: come qualunque pistola finta, era un giocattolo che sembrava vero e non faceva niente. La pistola a salve invece era una Beretta tutta nera: fino alla prova generale neanche la portai al capannone. Nelle prove normali usavamo quella finta, avevo in mano la pistola finta quando, fuori scena, io e Martin recitavamo quello che il pubblico avrebbe sentito ma non visto. Martin era seduto in poltrona e io gli stavo accanto in piedi, con la pistola finta puntata in basso e di lato. Per sicurezza avevo suggerito di fissare i nostri movimenti anche nel retrobottega, ed era esattamente il tipo di dettaglio che David adorava e appoggiava per l’autenticità che avrebbe saputo trasmettere. Doc sprofonda nella poltrona, la Ragazza prende posto accanto a lui, divarica i piedi, si prepara.
Da quella posizione, in piedi accanto a Martin seduto, lo sguardo di Karen cadeva sempre là, sul suo cranio, nel punto da cui spuntava l’orecchio. La connessura tra cranio e orecchio sembrava un po’ troppo floscia. Karen si era persa il Martin originale, che in precedenza la sua memoria assoluta aveva conservato fino alle lunette giallastre delle unghie. La sera della prova di lettura, quando lui era arrivato ciondolando accanto a David, per un attimo i due Martin le erano apparsi uno sovrapposto all’altro, più simili che diversi ma comunque segnati dal tempo trascorso fra il passato e l’oggi. Era l’esiguità della differenza tra Martin Oggi e Martin Allora a rendere tutto così strano. Era la differenza netta tra Karen Oggi e Karen Allora, la differenza scioccante tra David Oggi e David Allora, e la differenza minima, per solutori più che abili, fra i due Martin, a rendere tutto così strano. Strano al punto da farti credere che in passato Martin non l’avevi conosciuto affatto. Il Martin originale, già così difficile da attestare, era stato assorbito dal Martin di Oggi, e nemmeno Karen con la sua memoria assoluta riusciva a estrarlo di nuovo.
E tutto, e tutti, contribuivano ad aiutare Martin a soppiantare Martin. Tutti sorridevano e concordavano, senza essere tanto volgari da dirlo a parole, sul fatto che senz’altro lo scandalo riportato dal Bourne Courier-Telegraph non si era verificato. Il professor Kingsley, che una volta aveva cacciato Martin di casa, venne alle prove tutto sorrisi e strette di mano per Martin. Martin che era normale, amabile, come la maggior parte della gente se gliene dai la possibilità; e a me faceva bene, confesso senza remore, partecipare alla sua normalizzazione, lasciarmi portare dai venti dominanti, non essere quella che non sa perdere o la matta asociale fissata col passato. Mi faceva bene e io lasciavo che mi facesse bene. Mi godevo le prove; mi godevo il permesso che mi davano di non pensare a Martin. Ripassando battute con Martin, facendomi «stringere» da Martin «in un abbraccio violento», andando al Bar con Martin e gli altri dopo le prove, avevo finalmente smesso di pensare a Martin per la prima volta dopo anni e anni. Finalmente mi era uscito dalla testa ed era andato a sedersi all’altro capo del locale con il suo ghigno da faina, i polpastrelli ingialliti, le ginocchia nodose e la zazzera spettinata, e pur vedendolo seduto là, la sua realtà non mi disturbava.
Quand’era uscito il libro di Sarah, l’anno prima, David aveva avuto una reazione maniaco-militante, come se l’avesse scritto lui, o forse più precisamente come se avesse avuto un figlio che si era rivelato di una precocità incredibile, nonché dotato di tutte le qualità che lui amava di sé e privo di tutte quelle che detestava, e questo figlio, questa specie di geniale distillato di David, avesse scritto il libro. La prima campagna di David fu diretta a convincere la CAPA a pubblicizzare il libro sulla pensilina sopra l’ingresso del teatro dove di solito si annunciavano i saggi di fine anno; nella spaziosa vetrina appena dentro il portone principale; e sul sito web nuovo di zecca e ancora under construction. Verrebbe da pensare che fosse un tentativo senza speranze, visto il ritratto della CAPA fornito da Sarah, che alcuni avrebbero definito negativo e altri invece una versione edulcorata – divergenza che non approfondiremo – e invece saltò fuori che evidentemente la direzione della CAPA era troppo estasiata dall’idea del legame diretto con un’Autrice Pubblicata per leggere il libro dell’autrice stessa e farsi un’idea, perciò David la spuntò. Dopodiché partì la campagna per indurre il Tribune e l’Examiner non solo a recensire il libro di Sarah, ma in ambedue i casi a farlo con un grosso, vistoso servizio di apertura. David era uno che girava su una macchina con un sacco dell’immondizia come finestrino del passeggero, sì, ma era anche un abile promotore di sé stesso che nel corso degli anni aveva stretto utilissimi contatti con le redazioni culturali di entrambi i quotidiani, e anche questa campagna centrò l’obiettivo. Verrebbe da pensare che Sarah lo avesse assunto come ufficio stampa freelance, ma la verità è che Sarah e David non si vedevano dalla fine delle superiori, proprio come Sarah e Karen non si vedevano dalla fine delle superiori e come Karen e David non si erano visti dalla fine delle superiori finché Karen non era tornata nella loro città natale e ce l’aveva ritrovato. Fu da David che Karen sentì parlare per la prima volta del libro di Sarah: lui se lo cavò dallo zaino e glielo piazzò in mano con il sorrisetto – labbra tiratissime, lineamenti contorti nell’inutile sforzo di nascondere un giubilo maligno – che sempre sfoggiava quando pensava di aver avuto ragione. Su cosa gli dava ragione, il libro di Sarah? Sul fatto che lei avesse un «talento» per la scrittura, che forse lui pensava di avere scoperto, o incoraggiato? Sull’importanza che David aveva avuto per lei, misurata dal numero delle pagine dedicate alla sua versione fittizia, rispetto alle molte meno pagine dedicate ad altri personaggi fittizi i cui veri correlativi magari avrebbero meritato più spazio? Karen diede per buono che si trattasse della seconda; ma una sera dopo le prove David le disse, meravigliandola molto, che lui il libro di Sarah non l’aveva mica mai letto. Questo accadeva un anno dopo la pubblicazione, e pochi giorni prima che Karen sorprendesse Sarah durante il tour di presentazioni per il tascabile. David parve meravigliato dalla meraviglia di Karen. «Io i libri non li leggo», le ricordò, col tono di chi sottolinea l’ovvio. «Leggo pièce e leggo il giornale».
«Ma eri così fiero, così euforico. Cioè, hai rotto le scatole a non so quanta gente per fare pubblicità al libro».
«Ovvio. Sarah ha scritto un libro. Farò lo stesso per te, quando realizzerai la tua più grande ambizione, qualunque sia».
«Io non ho nessuna grande ambizione».
«Cazzate. Sono riuscito a farti fare un provino!» Come al solito David reindirizzò la conversazione verso i propri successi: l’autocompiacimento coesisteva con l’insicurezza e l’odio di sé. Dovevano essere stati l’insicurezza e l’odio di sé, pensò Karen dapprincipio, a impedirgli di leggere il libro. Solo il terrore di una scoperta umiliante poteva essere tanto forte da neutralizzare la bruciante curiosità narcisistica che David aveva certamente provato sapendo che Sarah aveva scritto dei loro anni alla CAPA e dunque, presumibilmente, di lui. E invece nemmeno sapeva, si scopriva ora, che l’umiliante rivelazione che avrebbe potuto temere, se avesse avuto un minimo di consapevolezza di sé, Sarah gliel’aveva risparmiata, per motivi che Karen non tenterà di indovinare. E se anche la rivelazione ci fosse stata, a Karen sarebbe sembrato comunque più plausibile che David divorasse il proprio ritratto, anziché passare la mano.
«Non vuoi sapere come ne esci? Non vuoi vedere come ti ha dipinto?», gli chiese.
«Non sono mica io. È letteratura».
«Adesso tocca a me: cazzate. Tutta quella storia che la letteratura non è verità è una bugia».
«Quindi tu l’hai letto».
Ai fini di quella conversazione, il fatto che Karen ne avesse letta solo metà non contava. Il punto era che la disciplinata Karen aveva ceduto, e invece l’impulsivo David aveva resistito. «Ovvio», scattò. «E mi sconvolge che tu invece no».
«E tu come ne esci? Come ha dipinto te?»
Vi sorprenderà sapere che lì per lì Karen non seppe cosa rispondere. Era sorpresa lei per prima. Tutti quegli anni di fatica per dare un nome alle proprie emozioni, a scendere la scaletta delle definizioni del vocabolario fino alla buia tomba polverosa dell’origine delle parole, eppure non ne trovava neanche una da offrire a David. «In maniera incompleta», disse, dopo una pausa talmente lunga che di certo David si era scordato la domanda. Rise troppo, come se lei avesse detto una spiritosaggine.
Quella sera al ristorante-caravanserraglio messicano Karen raccontò a Sarah delle campagne maniacali di David per conto del suo libro, cosa che non aveva previsto di fare. Come già detto Karen non sapeva, arrivando quella sera da Skylight Books, che cos’avrebbe fatto di preciso, a parte subire gli stimoli della rimpatriata e reagire di conseguenza. Tuttavia, per quanto non sapesse cos’avrebbe fatto, c’erano cose che sentiva con certezza non avrebbe fatto. Di certo non avrebbe alimentato la fede di Sarah nell’enorme valore drammatico della storia della sua vita descrivendole la passione maniacale di David nel promuovere il suo libro. Eppure, non appena stabilito che Sarah le avrebbe fatto da sarta, Karen disse: «Credo che per David significherà molto, vederti coinvolta in uno dei suoi spettacoli. Era così esaltato quando è uscito il libro, si comportava come fosse un figlio. L’ha fatto mettere sulla pensilina della CAPA».
«Davvero?», disse Sarah, con aria turbata. Altra voce sull’elenco di cose assurde che le erano capitate durante il tour di presentazioni: sgradite prove che il posto di cui aveva scritto esisteva veramente.
«“LEGGI ora il romanzo pluripremiato di una nostra ex allieva, in tutte le migliori librerie!” Sì, ce l’ha messa tutta. Non te l’ha detto? Pensavo ti avesse scritto».
«No, non mi ha detto niente, e non ho più avuto sue notizie. Speravo di sì». Tono poco convincente.
«Potevi scrivere tu a lui».
Sarah fece una smorfia da bambinetta. Era senz’altro ubriaca, con le guance che scintillavano d’ansia e d’illogico piacere. Terrorizzata all’idea di avere notizie di David, voleva tuttavia sapere di più della passione di David nei suoi confronti. «Paura», disse con una vocetta infantile, della prospettiva di scrivere a David.
Karen fece una faccia tipo «non dire scemenze». «Di cosa?»
«Che magari il libro l’aveva fatto incazzare».
E perché? Le modifiche e i tagli sembravano fatti apposta per non ferire i sentimenti di David. Ma Karen omise di dirlo, e men che meno svelò che David non l’aveva neanche letto. «Stai scherzando? È fierissimo di essere diventato un personaggio letterario».
«Quindi gli è piaciuto?»
«Da matti. Se c’è qualcosa che non gli è piaciuto, del libro, è che non hai scritto abbastanza di lui».
La risata di Sarah svanì pian piano; non si poteva più eludere l’argomento. «E a te?»
«A me, cosa?»
«Mi preoccupavo che leggerlo potesse farti un’impressione strana. Che sembrasse troppo familiare».
«Ti sei preoccupata per questo?», disse Karen, in tono stupitissimo. «Ma veramente?»
«Altroché. Cioè, sono ancora preoccupata adesso». Sarah proruppe in un’altra risata nervosa.
«Be’, no, non mi ha dato nessuna sensazione di familiarità. Cioè, hai cambiato parecchio. O no? Se ti preoccupavi che mi riconoscessi, no, non è successo». Stava peccando di omissione, qui, Karen? Si era limitata a esprimersi letteralmente. Ho detto di aver riconosciuto me stessa facilmente, nella storia di Sarah: riconosciuto nel senso di «aver individuato». Ma quel riconoscere non significava «convalidare». Non significava «accettare».
Sarah, come mi aspettavo, non riconobbe il genere di riconoscimento a cui alludevo, e il viso le si distese nel sollievo. «Non puoi sapere quanto sono sollevata», disse.
Nel frattempo, con sorpresa di tutti, per le ragazze non era stata casa di Joelle bensì quella di Karen Wurtzel a diventare il quartier generale. Si noti come, caso unico fra tutti i ragazzi della CAPA, tutti i coetanei inglesi, e a differenza anche di Martin e Liam, a Karen viene attribuito un cognome. Un brutto cognome, che ricorda una vivanda tedesca e nel quadro della narrazione ha l’effetto di farla sembrare estranea e distante, non invitata alla festa. Tolto il «Wurtzel», comunque, la frase è perlopiù vera, salvo qualche peccato di omissione, come il grosso di quel che Sarah ha scritto. Forse importa solo a Karen che fosse stata sua madre, a trasformare casa loro in una specie di bivacco permanente, non solo tramite la permissività ma grazie a una laboriosa campagna. Aveva cominciato con l’ospite ufficialmente assegnata a Karen – ospite la cui designazione, come per gli altri, non ci disturberemo a riconvertire da Lara – strappandola a Karen con confidenze, sigarette e nottate trascorse a guardare la tv. Quando iniziarono a passare di lì anche le altre ragazze inglesi, la madre che ci sta bene chiamare Elli – la restituisce bene – le conquistò tenendo il frigo sempre pieno di sfiziosi wine cooler e impasto per i biscotti. Elli dispensava consigli su amore e sesso, prestava cosmetici, accessori per capelli e abiti; spiegava i segni zodiacali, leggeva i tarocchi. Ben presto la stanza di Karen diventò la sede di un pigiama party fisso a cui sua madre era l’ospite d’onore e Karen la meno gradita. Lei se ne andò a dormire in camera di Kevin, il che le guadagnò lo scherno e il disprezzo delle altre; e allora si addossò turni straordinari al lavoro che faceva dopo scuola, puntava la sveglia più presto la mattina, e in pratica era assente, volatilizzata, ogni volta che alle inglesi serviva un passaggio.
Elli cercò di appianare il dissidio portando a scuola le ragazze la mattina quando andava al lavoro, ma non poteva chiedere permessi per andarle a riprendere alla fine delle lezioni. Quindi c’era un guazzabuglio di altre persone – David, vari tizi di Terza e Quarta che le Inglesi avevano cominciato a frequentare, perfino un ruffiano di tassista che Elli teneva sulla corda perché nella speranza di scoparsela lui le faceva un mucchio di favori – che le accompagnavano da scuola al posto dove volevano andare dopo, e di lì a casa di Karen al termine della serata. La faccenda era una grande rottura di cazzo per tutti, faceva girare le palle a tutti, perché con la sua macchinetta Karen avrebbe sempre potuto dare passaggi alle ragazze, non fosse stata la stronza musona e ipersensibile che era.
Così stavano le cose quando, un giorno verso la fine del turno, Karen uscì dal magazzino e notò Martin fermo di fronte a quello scatolone illuminato al neon. Ne rimase profondamente sorpresa e imbarazzata: alla CAPA lo aveva già visto parecchie volte ma emarginata com’era, invisibile com’era fra i compagni, non ci aveva mai parlato. L’idea che Martin sapesse che lei passava i pomeriggi lì, a pompare frozen yogurt dalla consistenza fecale dentro coni di cialda stantia, la mortificava. L’anno prima, a quindici anni appena compiuti, era stata a un «raduno» in parrocchia e aveva pomiciato con un ragazzo che le aveva sfregato il pacco contro la coscia nuda talmente forte da lasciarle un’abrasione, dopodiché un’altra ragazza l’aveva presa in giro perché aveva un’«ustione da moquette» nel posto sbagliato: in fatto di sesso, fino a quel momento l’esperienza di Karen era tutta lì. Quando uscì dal magazzino e vide Martin, pensò che senz’altro era lì per caso. Pensò che senz’altro gli piaceva il frozen yogurt. E quando Martin disse che era venuto apposta per lei, forse restò letteralmente a bocca aperta. Ma subito dopo, tutto si chiarì. «Mi hanno chiesto le ragazze di parlarti, per il fatto che non gli dai mai un passaggio», disse lui. Karen non aveva ancora finito di arrossire del confuso piacere che lui fosse venuto apposta per lei, che tutto il sangue dovette cambiare marcia e al contrario farla avvampare di rabbiosa umiliazione.
Ma poi lui strattonò la leva nella direzione opposta. «Io però gli ho detto di non rompere i coglioni. Non sei mica la loro autista, cazzo. Gli ho detto: “Se non vi va di rimanere nelle case che vi hanno assegnato, poi non potete piantare un casino perché non vi scarrozzano di qua e di là”».
«Gli ha detto così?», esclamò Karen.
«Sono stato a un passo dal non farle partire. Avrei dovuto sapere che sarebbero state pessime, come ospiti. E quindi questo sarebbe il miglior yogurt del paese, eh? Dici di provarlo?»
Così, come niente, aveva liquidato le altre ragazze e si era schierato dalla sua parte. Karen gli servì un cono del frozen yogurt di cui nelle prime settimane di lavoro aveva campato, e che adesso le faceva venire i conati solo a sentirne l’odore, e a sua volta lo liquidò con un gesto quando lui cercò di pagarlo. Ormai dal retro era sopraggiunto il suo collega, che si stava allacciando il grembiule. Il turno di Karen era finito. «Com’è arrivato qui?», chiese a Martin mentre uscivano insieme. Lui aveva già finito il cono. Il parcheggio del piccolo e malconcio centro commerciale era vuoto, se non per l’auto di Karen e quella del collega.
«A piedi». Martin fece spallucce.
«A piedi? Qui da noi nessuno gira a piedi».
«Be’, io sì. E ci ho pure messo un sacco di tempo. Spero di non dovermela fare a piedi anche al ritorno».
«Ah, quindi adesso sono la sua autista».
Martin sogghignò, furfantesco. «Mi è venuta un’ideona. Adesso dico alle ragazze che non puoi fare da autista a loro perché devi fare da autista a me. Così non possono più arrabbiarsi con te».
«Chi se ne frega se si arrabbiano», mentì Karen.
«Frega a me».
Salto in avanti. Immaginatevi Karen resa a un tratto spiritosa dall’attenzione di quest’uomo spiritoso, che chissà perché la crede spiritosa. E lei lo è! O almeno, con lui si crede tale. Immaginatevi i giri in macchina. Un giorno dopo l’altro, ore e ore di giri in macchina. Evitare le compagne vendicative, e la madre superata in abilità, è un gioco che i due vincono automaticamente solo per aver fatto squadra. Karen porta Martin in tutti i luoghi della città che secondo lei sono speciali. Martin non la fa sentire ingenua per non aver notato che ognuno di questi posti è situato in una zona industriale. È una città fatta così, dotata solo di bellezza artificiale, «laghetti» creati dall’uomo e solcati da ponti in calcestruzzo sotto i quali l’acqua riluce del verde spettrale e accecante di faretti magicamente sommersi che tuttavia non danno la scossa alle anatre lì stanziate. Alberi potati a forma di lettere dell’alfabeto, che tracciano il nome della multinazionale la cui sede centrale è racchiusa tra queste siepi e laghetti, e gettano ombre impenetrabili sull’erba comoda e tosata di fino. In alto, in cima alla torre aziendale, un faro gira tutta la notte come se da qualche parte nel raggio di mille miglia ci fosse una costa, e navi da avvisare. Sotto il corpo di Martin, il corpo di Karen prende vita come mai prima, né al «raduno» quando il ragazzetto le ha grattato via la pelle dalla coscia con l’erezione ricoperta di jeans, né sotto le coperte quando leggeva le parti zozze di Uccelli di rovo e si toccava. Può darsi che non avrebbe fatto nessuna differenza se fosse stato Martin o il collega della yogurteria, del cui nome la storia non conserva il ricordo. Può darsi che il primo amore, nonostante il subbuglio, non sia che un accoppiamento con delle idee appiccicate. Martin, ci dice il senno di poi, era pelle e ossa, puzzava, sapeva di portacenere e aveva le unghie gialle, i denti gialli e pure il bianco degli occhi giallastro. Dentro le sue mutande, dov’era stata infilata con foga la mano di Karen, albergava un solitario funghetto viscido. Anche nella quasi totale oscurità all’ombra degli alberi potati, il pene di Martin appariva insalubremente pallido e umidiccio. Ma questo era l’amore, un folle fracasso per essere riconosciuti. Contava qualcosa, se l’uomo che le aveva aperto le cateratte era molto più vecchio di Karen – perfino più di quanto lei sapesse? Contava qualcosa, se era un bugiardo? Contava qualcosa, se lui aveva molta pratica e lei zero? Contava qualcosa, se dopo che lui aveva aperto le cateratte, il «lago, fiume, serbatoio ecc.» di Karen non si era più riempito, per restare sulla metafora idrica? Karen ci ha pensato su, credetele. Sa di non essere un tipo speciale di vittima solo perché a farle prendere dimestichezza con certe cose è stato un uomo molto più grande a cui di lei, si è poi capito, non importava niente. Sa che è una dinamica comunissima; basta vedere quanti libri/testi teatrali/film la raccontano. Lei lo desiderava. Nella sua ignoranza e inesperienza le sembrava bello, scafato, sincero e affidabile, mentre adesso, con la sua consapevolezza ed esperienza, è in grado di vedere che era brutto, provinciale, disonesto e indegno di fiducia; crudele addirittura. Resta il fatto che lei lo desiderava. E il fatto che lo desiderasse significa che aveva scelto. Non ha argomenti, se ne rende conto benissimo; e questo sarebbe il motivo per cui ha tenuto la bocca chiusa e si è tenuta il problema per sé. Al contrario, la «caccia alle streghe» contro Martin è condotta da donne certe di avere degli argomenti, ma a voler ben guardare, che c’è di diverso? Verso di loro Karen nutre sensazioni ferocemente conflittuali. Davanti a David magari le difende, ma nelle viscere le disprezza, queste ragazze che hanno fatto un errore di valutazione e adesso vogliono dare la colpa a qualcun altro.
Nella storia di Sarah, Sarah e Karen si conoscono a malapena. Sarah finisce nella macchina di Karen, a casa di Karen e perfino nel letto della madre di Karen sostanzialmente per caso. Per l’etica dell’amicizia questo significa che non deve niente a Karen, perché loro due non sono amiche; ma in realtà, come già esposto, le cose non stavano così. Erano amiche. Sarah era la migliore amica che Karen avesse mai avuto, mentre Karen era, all’epoca, l’unica amica automunita di Sarah, se non vogliamo insinuare che questo era l’unico motivo per cui Sarah coltivava la sua amicizia. Nella storia di Sarah, Karen si risente per il rapporto fra Sarah e Liam, che vede come un’intrusione. Qui è possibile che ci sia un fondo di verità psicologica: le ragazze sono complicate. È raro che si vogliano bene senza anche odiarsi. Spesso reagiscono con l’invidia alla disparità di circostanze, perfino quando la disparità, la cosa che l’amica ha e loro no, non la volevano comunque. Quando Sarah cominciò a frequentare Liam – e successe in maniera molto più semplice e inevitabile rispetto a come si svolge la cosa nella storia di Sarah, perché Sarah e Karen erano sempre insieme, e Martin e Liam erano sempre insieme, e quindi Sarah fu quasi obbligata a mettersi con Liam una volta che Karen si mise con Martin – Karen provò una fitta d’invidia. Liam era, a colpo d’occhio, più bello di Martin. E Sarah aveva sempre una o più tresche, mentre Karen non ne aveva mai avute. Ma la fitta fu momentanea. Tanto per cominciare, Liam non era bello come la storia di Sarah lascia intendere. È vero che aveva dei begli occhi e un fisico interessante. Ma aveva dei denti orrendi, come tutti gli Inglesi, e il pomo d’Adamo troppo sporgente. Come nella versione romanzata trasmetteva una sensazione strana, rispetto alla quale vi prego di dare retta a Sarah: su questo punto è impeccabile, spietata, di fatto ammette che Liam era un ripiego/chiodo-scaccia-chiodo, perché le sue tresche più prestigiose/precoci erano finite male. Dunque Karen aveva provato una fitta, perché per un attimo aveva avuto il piacere di essere lei quella con la tresca, ma la fitta non era solo passata, era stata proprio spazzata via, cancellata, dal piacere ben più grande che le davano le uscite di coppia con la sua migliore amica. Non solo volontariamente, bensì con gioia Karen faceva tutti quei giri in macchina con Martin, Sarah e Liam. Non solo volontariamente, bensì con gioia Karen, insieme a Martin, guardò Sarah, insieme a Liam, avviarsi fra le ombre ben potate della zona industriale.
Mentre rincasano l’ultima sera dalla zona industriale Karen ha i vestiti rovinati dalle macchie d’erba e la vista offuscata dalle lacrime. La mattina dopo, senza l’assemblea scolastica originariamente prevista in cui la preside che avete conosciuto con il nome di Laytner dovrebbe ringraziarli per «aver condiviso l’arte da una sponda all’altra dell’oceano», gli Inglesi ripartiranno. Il professor Kingsley li metterà su tre taxi e li spedirà all’aeroporto senza un saluto, anche se magari si produrrà nel suo sorrisetto a labbra sbiancate e tiratissime. Nell’auto parcheggiata davanti a casa di Kingsley in questa vigilia di partenza, Martin si stringe Karen al petto, le accarezza i capelli con le dita gialle di nicotina e dice: «Bimba mia dolcissima». Questo commento romantico resta una pietra miliare nella vita sessuale di Karen. Il giorno dopo Karen e Sarah, consce della tragedia che vivono, non entrano a scuola e vanno invece in un ufficio passaporti in centro. Siccome hanno sedici anni, per le loro domande l’«autorizzazione parentale» è richiesta ma incredibilmente semplice da falsificare, molto più delle credenziali necessarie per comprare una birra. Strana posizione da parte delle autorità, né carne né pesce. La madre di Karen non solo è al corrente dei progetti della figlia, è al settimo cielo, talmente esaltata che per poco non glieli rovina. Invece la madre di Sarah è all’opposto del settimo cielo, ma di questo abbiamo già detto. Sarah il biglietto se lo paga da sola, a quello di Karen dà un contributo la madre, raccomandandole di nascondere al padre questa bravata. La partenza è prevista di lì a un mese e mezzo, appena finisce l’anno scolastico. In questo periodo Sarah riceve lettere da Liam praticamente un giorno sì e uno no. Sono lettere entusiastiche e stupidissime, neanche le scrivesse un cane. Raccontano eventi banali, tipo un’auto che va a finire contro una siepe e il conducente che deve uscire dal bagagliaio perché la portiera è bloccata dai rami. Quando non narrano episodi simili, sono piene di smancerie su quant’è bella Sarah e quanta voglia ha Liam di rivederla. A ogni nuova lettera Karen nota l’interesse di Sarah per Liam scemare sempre più. E lei stessa, che all’inizio le setacciava in cerca di accenni a Martin, fatica anche solo a scorrerle. Nel frattempo Karen riceve da Martin cartoline scherzose e assai sporadiche che non sembrano a tono con le lettere che manda lei a lui, anche se è chiaro che le ha ricevute. «Ciao, Karen! Grazie per la cassetta, super compilation. Come vanno le cose lì negli Iu Es Ei?»
Nei giorni precedenti il volo, Sarah va ad abitare con Karen. Dice che la madre l’ha cacciata di casa, anche se Karen ne dubita. Data la disabilità della madre di Sarah, a Karen viene più facile credere che Sarah se ne sia semplicemente andata. La madre di Sarah telefona continuamente, Elli si porta il telefono in camera e chiude la porta ma Karen non ha bisogno di ascoltare per sapere che cosa si dicono. Con la madre di Sarah, Elli fa la parte dell’adulta, si duole insieme a lei di quanto siano cocciute le ragazze, le promette che farà intendere ragione a Sarah. Poi, non appena riattaccato, Elli si dimentica completamente della madre di Sarah fino al successivo squillo del telefono. A Elli importa solo di aiutarle a fare i bagagli. Telefona all’agenzia immobiliare dove fa la receptionist per darsi malata e accompagnare le ragazze a comprare le cose che ancora servono. Un foulard di qualità: entrambe dovrebbero avere un bel foularino di seta per legarcisi i capelli o da mettere al collo. Karen non ha mai indossato un bel foularino di seta in vita sua. E una bella giacchina leggera, perché là fa freddo, non è come qua, vi ricordate che gli Inglesi si sono portati tutti i vestiti sbagliati? Con «bella giacchina leggera» Elli non intende il logoro giacchetto di jeans di Karen, intende una cosa simile al blazer maschile di Sarah con la fodera amaranto che si vede quando arrotoli le maniche. Sarah predilige uno stile vintage che Elli adora; lei e Sarah passano ore a provarsi i vestiti di Sarah, creano varie mise, soppesano i vantaggi di questo contro quel capo, il blazer, il cardigan da nonnetto, la gonna a quadri, i pantaloni kaki presi allo spaccio di articoli militari per fare l’alternativa. Una valigia sola, ragazze: la gente raffinata viaggia leggero. Elli non è mai uscita dagli Stati Uniti. Forse non ha neanche mai preso un aereo. Karen non sa da dove abbia tratto queste regole sui foulard di seta e il bagaglio leggero. Neanche Karen è mai salita su un aeroplano. Sarah invece, subito dopo che i suoi avevano divorziato, l’ha preso qualche volta per andare a trovare il padre prima che lui sparisse per sempre. «Tutta sola?», esclama Elli.
«Ti affidano a una hostess e via. Neanche me li ricordo, quei voli».
«Sei fortunata, a viaggiare con una persona esperta», dice Elli a Karen.
All’aeroporto si nota che Sarah si è molto calata nel ruolo di viaggiatrice esperta. È insopportabile, tutta presa a spiegare cose a Karen, tipo che deve stare attenta a non perdere la carta d’imbarco e accertarsi di avere la pochette del trucco nel bagaglio a mano perché non rivedrà la valigia finché non atterrano a Londra. In retrospettiva, Karen è disposta ad ammettere che forse Sarah era nervosa, proprio come lei. E forse il suo nervosismo aveva assunto questa forma di dispotica condiscendenza verso l’amica: stava tutto il tempo a dirle cose che perfino chi non parla inglese capisce da solo una volta arrivato in aeroporto e poi, una volta decollato l’aereo, cose su Londra che lei stessa sapeva solo in base a delle cartoline. «Carnaby Street è dove si ritrovano i punk. C’è un Hard Rock Café e poi c’è Piccadilly Circus che è una ficata totale. Del Big Ben chi se ne frega, è un orologio, fine». Il programma era che Liam e Martin sarebbero andati a prenderle a Heathrow – «Heathrow» era il nome dell’aeroporto ma nessuno diceva «all’aeroporto di Heathrow», solo «a Heathrow», aveva riferito l’esperta Sarah all’inesperta Karen – e che poi tutti e quattro avrebbero soggiornato in un ostello della gioventù, qualunque cosa fosse, di questo neppure Sarah era sicura, e una volta completata la visita a Londra sarebbero andati in treno a Bournemouth, la cittadina dove sia Martin, sia Liam abitavano. Cosa sarebbe successo dopo quel momento restava un mistero.
Karen, seduta accanto al finestrino, preme il viso contro il vetro. Il vetro è talmente ghiacciato che le fa lacrimare gli occhi. La notte è di un’oscurità che non aveva mai neanche immaginato, laggiù a casa dove il cielo notturno è sempre offuscato. Il volo procede tra boati e vibrazioni, che Karen trova inquietanti perché sembra che l’apparecchio si stia sforzando troppo. Ma non vuole cercare rassicurazioni da Sarah. Non vuole darle la soddisfazione. Sarah fuma, ascolta il walkman, fa finta di leggere. A contemplarle dal futuro, Sarah che tiene intenzionalmente un libro in una mano e una sigaretta nell’altra, come una donna col triplo della sua età, e Karen che si mordicchia un angolino del pollice, ignara della chiazza rossa che si è fatta venire a forza di premere la fronte contro il finestrino gelato, mi si stringe il cuore. Come un’hostess fantasma che fluttua per il corridoio contemplo queste due adolescenti, Sarah che non ama Liam e Karen che non è amata da Martin, e mi sento colmare di una malinconia che è quasi compassione. Ugualmente triste. Ma in quell’istante, mentre guarda l’oscurità da cui non riesce a staccare gli occhi nonostante la spaventi da morire, per Sarah Karen prova solo rancore. Perché nei giorni precedenti la partenza Karen non ha avuto nessuna notizia di Martin, neppure una cartolina scherzosa. Lui non può non sapere che lei sta arrivando, lei gli ha scritto date e orari più di una volta, e anche Liam sa che lei sta arrivando, e tutto quello che sa Liam lo sa anche Martin, e Sarah parla dei suoi programmi con Liam come se fossero anche i programmi di Karen con Martin, e non è forse vero? Karen ci crede, perché ci crede Sarah. Sarah ci crede, perché ci crede Karen. Karen non ha dato a Sarah alcun motivo di non crederci, non ha accennato al silenzio di Martin. Karen ha lasciato che Sarah si facesse quest’impressione erronea, e adesso la detesta e addirittura la biasima per questo, il che è ovviamente ingiusto, ma Karen è sgomenta e imbarazzata e anche la loro amicizia, in questo momento di enorme rischio condiviso, ha preso la piega sbagliata. È ammalata, è rotta. A dire il vero è così da settimane, ma Karen voleva credere che fosse Elli a farla sembrare sbagliata, e invece adesso Elli non c’è e la sensazione di sbagliato resta. Un’ora dopo il decollo Karen scavalca Sarah senza spiegazioni, si schianta nel bagnetto piccolo come una cabina telefonica e vomita su tutto il lavabo piccolo come un portacenere. Poi si guarda il viso grigio-verdognolo allo specchio. Le ci vogliono tutte le salviettine di carta del dispenser per pulire il vomito. Ficca le salviettine coperte di vomito nella tazza, preme la maniglia e poi balza indietro terrorizzata quando il boato del risucchio la informa che ha aperto un buco nell’aeroplano e che il suo vomito è caduto in mare. Il ricordo comprime le nove ore di viaggio e ingigantisce i presagi di sventura. Davvero sapeva già in volo, la sedicenne Karen, come sarebbe andata? Davvero lei e Sarah rimasero sedute fianco a fianco in un silenzio gelido, consce che la loro amicizia era finita? Probabilmente no. C’erano idee che suscitavano emozioni, ed emozioni che suscitavano idee, ma ci fu anche un bel fumare, ridacchiare, scarabocchiare su diari e dividersi il walkman. Quasi mai sappiamo che cosa sappiamo finché non lo sappiamo. La notte corse via al di là del finestrino stondato e quando a oriente apparve la linea del fuoco Sarah si strinse a Karen, i capelli crespi di permanente che le solleticavano la guancia, e insieme videro sorgere il sole fino a quando la linea si fece così splendente da non poterla guardare più. L’ultima ora di viaggio la dedicarono al solenne rifacimento del trucco.
«A Heathrow», dopo aver fatto tutte le file ed essersi fatte timbrare i passaporti – un brivido, questo, che nulla ha mai attenuato, Karen lo sente ancora oggi, la consapevolezza di aver appena reso la propria vita più ampia di quella di sua madre; se solo riuscisse a non rimanere indietro, se solo potesse continuare a muoversi, sarebbe sempre avanti di quel tanto – videro una folla inquietante che urlava e sventolava cartelli da dietro una transenna. Ed ecco lì Liam, con tutta la telegenica bellezza che talvolta acquisiva sotto i riflettori, o in foto, totalmente cancellata dal pallore da mollusco, dai brufoli, dalle membra annaspanti da ragno, e da quel pomo d’Adamo troppo appuntito che sembrava un’erezione in gola. E guardava frenetico di qua e di là e agitava un rettangolo di cartone con scritto sopra SARAH e quando scorse la persona che rispondeva a quel nome rimase paralizzato e a bocca aperta per lo stupore come se non avesse mai creduto che lei sarebbe arrivata davvero. Sembrava un bambino a cui hanno appena offerto una caramella: la sua gioia era limpida e del tutto priva d’imbarazzi. E malgrado ancora non disponiamo, per citare uno spiritoso ex analista di Karen, della tecnologia per leggere il pensiero, Karen avrebbe scommesso che in quel momento il pensiero di Sarah fosse così centrato su che razza di penoso imbranato era Liam, malgrado gli occhi e il fisico interessante, e su quanto era lontano dall’ideale romantico che lei aveva tentato di credere che fosse, e su quanta poca voglia aveva di lasciarsi mettere la lingua in bocca da lui, che non colse minimamente la limpida gioia che gli aveva acceso in volto. Il che è un peccato, perché tantissimi di noi non vengono mai guardati in quel modo.
Nei primi istanti di confusione, mentre uscivano dal cancelletto fra le transenne e si facevano largo in mezzo alla folla per raggiungere Liam, non fu subito chiaro che Martin non c’era. Continuò a sembrare possibile che stesse parcheggiando, o prendendo un caffè, o tornando da una capatina al bagno degli uomini. Liam afferrò Sarah alla vita mentre ancora saltava su e giù perciò i due si urtarono goffamente, e poi Liam le cacciò la lingua in bocca finché lei lo allontanò di un braccio. «Aspetta un attimo! Lasciati guardare!», disse, come se volesse ammirarlo anziché levarsi la sua lingua di bocca. Fu allora che Liam si accorse di Karen, e sembrò che la vedesse per la prima volta.
«Ehi, cavoli, Karen! Sei venuta!», disse. «Pensavo che Martin te l’avesse scritto, del suo grosso ruolo? Ha ottenuto una parte di repertorio esti–»
«Come, non c’è?», fece Sarah. «Che cazzo stai dicendo?»
«Me l’aveva detto», sbottò invece Karen senza averlo preventivato. «Cioè, mi aveva detto che era in lizza per una parte. Forse la lettera in cui mi dice che l’ha ottenuta è ancora in viaggio verso casa mia». Karen si sentì addosso lo sguardo perplesso di Liam. Evidentemente la parte, se davvero esisteva, Martin l’aveva ottenuta già da un po’. Ma Liam era troppo stupido per rendersi conto che Karen non stava dicendo la verità. Era perfino più stupido di Karen.
«Ma è fichissimo che sei venuta lo stesso!», disse infatti, schietto. «Noi tre ci divertiremo un casino–»
«Sì, ma Martin dov’è», intervenne Sarah. «Karen non può raggiungerlo?»
«È in tournée, Sarah. Io mica posso accodarmi!»
«Davvero ti aveva detto che poteva essere in tournée? E com’è che non mi hai detto niente? Cioè, sei venuta fin qui e lui non c’è?»
«A mia mamma non darà nessun fastidio se c’è anche Karen», tentò d’interrompere Liam.
«A tua mamma?», disse Sarah.
Singolare, a dire il vero, come in quel momento lo stato emotivo predominante di ciascuno venisse camuffato da un’emozione diversa. La repulsione di Sarah nel ritrovarsi con Liam si manifestò come sdegno nei confronti di Martin. La passione di Liam per Sarah si manifestò come premura verso Karen. E l’insopportabile umiliazione di Karen, che lei prevedeva da sempre e non aveva previsto mai, si manifestò come noncurante impassibilità. «L’Inghilterra voglio vederla lo stesso», disse a Sarah con rabbia. «Piantala di fare tutte ’ste scene. Devo andare in bagno».
In bagno Karen vomitò di nuovo, ma siccome in aereo aveva avuto troppa nausea per mangiare, vomitò solo poltiglia incolore e puzzolente. Ad arrivare fin dentro un cubicolo non ce l’aveva fatta, perciò intuiva gli sguardi e sentiva i piedi delle viaggiatrici di Heathrow che le giravano al largo mentre sboccava nel lavandino e si spruzzava la faccia con l’acqua fredda. Martin aveva capito? Se l’è sempre chiesto. Malgrado le evidenti tare caratteriali, lui le permane nella psiche come una specie di bizzarro dio-giullare, malevolo e onnisciente. Finalmente Karen uscì dal bagno. Si sentiva gli occhi come se glieli avessero sfregati col sale. E nello stomaco un pugno che non finiva mai.
Karen, Sarah e Liam andarono all’ostello della gioventù dove in una stanza che era una cella Karen si coricò faccia al muro sulla branda bassa di un letto a castello con la valigia sui piedi così se tentavano di rubargliela se ne accorgeva e dormì di un sonno febbrile mentre Sarah e Liam facevano chissà cosa, vivevano chissà quale avventura, trasformavano qualunque cartolina nella mente di Sarah in un vero ricordo di vita. Più avanti Sarah sarebbe diventata una che buttava là cose tipo Trafalgar Square e gli U2 a Cardiff e il fish-and-chips nella carta di giornale. Più avanti Sarah sarebbe andata a Bournemouth con Liam e avrebbe conosciuto la mamma di Liam che guardava la BBC e metteva la crema di lievito sul pane tostato e serviva e riveriva Liam come fosse un re e Sarah come fosse la sua novella sposa e regina e pareva non avere idea che Sarah andava ancora alle superiori, e più avanti Sarah avrebbe appreso che Liam prendeva il sussidio di disoccupazione da quando aveva diciott’anni e gli andava benissimo così, e più avanti Sarah avrebbe rotto con Liam e sarebbe tornata a Londra da sola a vivere all’ostello e in qualche modo avrebbe trovato un posto da cameriera in un locale notturno, e più avanti al locale Sarah avrebbe conosciuto uno che la portò in treno a Cardiff per sentire gli U2 e che lei perse di vista nella corsa per andarsi a mettere sotto il palco del palazzetto, e più avanti Sarah avrebbe smesso di mandare a Karen questi aggiornamenti, tutti vistosamente affrancati con profili della Regina in diversi colori, perché Karen non rispondeva mai; anzi, Karen non lesse quelle lettere se non a molti anni di distanza e ancora non sa bene perché le abbia lette. Lei a Londra rimase coricata sulla branda nella stanzetta carceraria dell’ostello, e s’inginocchiò dietro la porta del corridoio con scritto «Water Closet» a sboccare sulla tazza, e attese seduta sulla seggiola di plastica lercia dell’ufficio dell’ostello mentre un tedesco dall’aria robotica cercava di capire come fare una chiamata internazionale a carico del destinatario per suo conto. Cuccetta, tazza, telefono. Benvenuta a Londra.
Karen ed Elli erano riuscite a nascondere la mattata al padre di Karen, eppure quando rispose al telefono lui non parve né stupito né perplesso quanto si potrebbe pensare nell’apprendere che la figlia era a Londra e che era ammalata, sola e senza un soldo. Il suono della sua voce, distaccata ma non proprio fredda, appena strascicata in un modo che lei non aveva mai notato prima, che usciva dal telefono e le entrava nell’orecchio mentre sedeva sulla seggiola dell’ostello londinese, segna l’inizio dell’autentica vita adulta di Karen, sempre che certe cose si possano segnare. Karen spera di sì. Trova conforto in questa specie di chiarezza storica. All’epoca Karen non avrebbe saputo spiegare perché aveva scelto di chiamare suo padre e non sua madre, ma la decisione fu parte integrante di quell’inizio di autentica vita adulta, paradossalmente perché fu la decisione di non prendere altre decisioni, di rimettersi a un’autorità superiore, di riconoscere che tale autorità esisteva. L’autentica vita adulta di Karen iniziò nel momento in cui riconobbe di essere una bambina e si ricordò che pure il padre, diversamente dalla madre, la considerava una bambina. Chiamare il padre voleva dire fare a modo suo, ma almeno lui un modo ce l’aveva. Almeno aveva un modo e la forza di volontà di attenercisi. Karen si mise nelle sue mani. Per tutto il volo di ritorno in America Karen non ricordò nulla, non conservò nulla nella memoria e non richiamò nulla alla mente. Ormai era una viaggiatrice esperta: fece ogni cosa con la mente del tutto sgombra. Il padre l’aspettava all’aeroporto con la pancia abbottonata dentro la camicia da lavoro e le manone pelose strette davanti all’inguine. Elli qualche volta gli dava del «cafone di merda» con enorme disprezzo, ma il padre di Karen controllava le risorse. La prima sera non le disse niente, si limitò a mandarla a letto nella triste stanzetta che era sempre riservata alle rare visite sue e di Kevin e non era adorna che dei loro ritratti scolastici, di tutti gli anni tranne uno (Kevin prima elementare e Karen terza, Elli si era dimenticata di ordinare le stampe), incorniciati e allineati sulla parete. Il perlinato alle pareti e la moquette pelosa a terra il padre di Karen se li era posati da solo. Lenzuola in stile militare che Karen quasi non riuscì a infilarcisi sotto, per quant’erano tirate sul materasso. Poi il forte odore di detersivo, una cosa che non le aveva mai dato fastidio prima, le fece venire il mal di testa e la tenne sveglia. Il giorno dopo via, dal dottore. Al rientro a casa il padre le arrossò il culo con la cinghia, come faceva quando lei e Kevin erano piccolini, prima del divorzio. Questi erano tutti eventi attesi e auspicati. Poi il padre di Karen la lasciò tornare a letto, portò in camera una seggiola pieghevole e rimase seduto a guardarsi le nocche finché Karen non smise di piangere. Alla fine disse: «Lui chi è».
«Niente, uno che era venuto in visita dall’Inghilterra».
«Lo sa?»
«No».
«E quando sei andata là non sei riuscita a trovarlo?»
«No».
«Altre idee su dove cercarlo?»
«No».
Queste erano tutte formalità. Il padre di Karen non aveva la minima intenzione di affrontare il tipo, proprio come Karen. «Il posto sta a un’ora di macchina da qui. Tengono lezioni per farti stare in pari con l’anno scolastico. E funzioni, ovviamente. È un istituto religioso. Pensano a tutto loro. Anche all’adozione».
«Va bene», disse Karen.
«Niente lussi, ma è un posto sicuro e pulito. Mica dev’essere un hotel».
«Lo so», disse Karen.
«Costa un po’ ma è giusto così. Per il bene dei neonati. Non è una vacanza».
«Capisco. Mi dispiace», disse Karen, ed era vero.
A modo suo era il posto perfetto per congedarsi da Dio. A un certo punto, senza accorgersene, Karen aveva smesso di credere in Dio. Quindi per lei c’era qualcosa di tenero e sentimentale, nel vivere in un posto dove nessuno smetteva mai di tirarlo in ballo. «Grazie davvero, Karen, per l’amore incondizionato che dimostri nell’affidare alla volontà di Dio il futuro di tuo figlio» era il tipo di cosa che chiunque, dalla prof di matematica all’assistente sociale al bidello, diceva a ogni piè sospinto. E benché capisse che quella gente le leccava eufemisticamente il culo per non avere abortito, Karen trovava comunque piacevole essere ringraziata ed elogiata di continuo, come se davvero fosse un «dono di Dio», altra locuzione abusata. Come aveva detto suo padre laggiù non c’erano «lussi», ma in effetti era il posto più simile a un hotel in cui Karen avesse mai vissuto. C’erano vasi di fiori freschi, e confortante musica sacra, e più frutta e verdura di quanta Karen avesse mai sospettato esistesse. Lì assaggiò il suo primo kiwi, per dire. Anni dopo – anzi, poco tempo fa – Karen è giunta a capire che all’istituto l’avevano coccolata così tanto perché l’istituto era un allevamento di Bambini Cristiani Bianchi Senza Difetti Congeniti del tipo più raro e più richiesto dal mercato delle adozioni. Ma se anche l’avesse capito allora, non si sarebbe goduta meno il soggiorno.
Esattamente un mese dopo Natale, cosa che dal ginecologo all’assistente sociale nessuno mancò di sottolineare come fosse stato merito suo, Karen partorì. Ebbe una femminuccia. Lo stato emotivo del travaglio non si può conservare nella memoria né richiamare alla mente, anche se il momento dell’uscita della bambina, scivolosa come un pesce, in effetti si rivela memorabile. Quando la sua bimba fu pulita, calda, asciutta e tutta involtolata in una copertina, Karen la prese in braccio, la annusò e si disse: Non ricorderò mai quest’odore, e aveva ragione, non lo ha mai ricordato. Resta sempre fuori portata, come un sogno. In seguito ci fu una cerimonia piena di preghiere in cui Karen ricevette altri elogi per il suo cristiano altruismo nell’aver scelto la vita. Poi la bimba le venne portata via per essere congiunta alla sua Famiglia Definitiva, di chiunque si trattasse.
Due settimane dopo Karen tornò alla CAPA. Andò a scuola con la sua macchinetta, arrivando presto in modo da lasciarla nel parcheggio sul davanti, dove i posti non erano molti. Voleva evitare tutti quelli che conosceva, e loro parcheggiavano dietro. L’aria era fredda e umida e l’umidità creava una specie di caligine leggera che nel ricordo ammorbidiva la luce in modo da farla sentire nascosta e addirittura sola, come se davvero potesse riuscirci, a passare quel primo giorno di scuola senza vedere nessuno. Ma la scuola era piccola e ogni anno nel corso c’era la stessa gente e non c’era proprio verso di passare neppure un’ora senza vedere tutti. Ma pure qualche minuto senza vederli avrebbe contato. Nel parcheggio davanti c’era la macchina di qualche prof, ma era ancora mezzo vuoto. L’idea di Karen era di andare a sedersi nel cortiletto dei fumatori, che dava sulla mensa da una serie di porte vetrate e quindi non era un gran posto per nascondersi, ma almeno da lì si vedeva la gente arrivare. Karen sapeva che non c’erano posti per nascondersi e che al massimo poteva mettersi in un punto dove veder arrivare la gente, ma poi aveva aperto il pesante portone d’ingresso della scuola ed ecco là Sarah. Karen e Sarah si guardarono giusto il tempo che bastava. Non si fermarono neanche, Karen che entrava e Sarah che usciva, dalla stessa porta.
Per come Martin aveva scritto la pièce, la Ragazza non deve fare un cambio d’abito veloce. Se vi ricordate, verso il finale lei e Doc escono di scena per entrare nel retrobottega che abbiamo visto prima al di là della porta aperta e che sappiamo essere la squallida abitazione di Doc. Lui e la Ragazza si chiudono la porta alle spalle, c’è una pausa, si sente lo sparo, si spengono le luci; poi le luci si riaccendono su tutti gli habitué di Doc seduti nel bar a commemorarlo, e solo dopo che hanno pronunciato alcune battute ricompare la Ragazza, vestita a lutto. Semmai c’è un cambio veloce di set: a luci spente gli attori che interpretano gli habitué si mettono in posizione, gli attrezzisti sistemano il ritratto di Doc, i fiori vizzi e i drappeggi neri sul bancone, eccetera, mentre la Ragazza ha tutto il tempo che le serve, tra quando varca la soglia del retrobottega con Doc e quando torna in scena, per cambiarsi il costume da sola. Perciò l’invito di Karen a Sarah a farle da sarta era stato, oltre che l’impulso di un momento, anche una gaffe idiota. A Karen non serviva una sarta e Sarah non ci avrebbe messo nulla a capirlo. Ma nelle settimane dopo l’incontro tra Karen e Sarah da Skylight Books, e prima che Sarah venisse ad assumersi il compito sentimentale/farsi la divertente rimpatriata che Karen le aveva proposto malgrado non ce ne fosse il minimo bisogno, la messa in scena della pièce andò incontro a una serie di evoluzioni da far pensare, quasi, che Karen fosse dotata di poteri soprannaturali. Per cominciare, lo scenografo di David ritagliò una finestrella schermata da una veneziana nella porta del retrobottega, in modo che quando Doc e la Ragazza entravano nella stanzetta e chiudevano la porta, un riflettore proiettasse le loro ombre sulla veneziana e il momento dello sparo si vedesse in controluce. Secondo, David decise che alla riaccensione delle luci voleva la Ragazza già in scena, visibile in penombra da parte degli spettatori ma non degli habitué, in modo che quando avanzava sotto la luce gli habitué capissero che li aveva sentiti. Questo voleva dire che Karen non poteva iniziare il suo cambio finché non si spegnevano le luci, e doveva completarlo prima che si riaccendessero. Era diventato un cosiddetto cambio in quinta. «Ti servirà una sarta», disse David. Karen attese il dopo prove serale al Bar per informarlo che ci avrebbe pensato Sarah. «Viene Sarah?», esclamò lui.
«L’ho vista il mese scorso a Los Angeles, e abbiamo pensato che sarebbe stato divertente se avesse dato una mano con lo spettacolo», mentì goffamente Karen. David sedeva con la schiena un po’ troppo dritta, lo sguardo fisso avanti a sé e la sigaretta di lato. Quando David si sentiva offeso, ti tornava in mente com’era bello e pericoloso a diciott’anni. Mandava lampi dagli occhi come a ricordarti che avevi fatto male a dimenticartene.
«Sarah non ha mai visto nessun mio spettacolo».
«Appunto. Questo si è sentita in dovere di vederlo, e perfino di dare una mano», continuò a imbastire Karen, davvero irritata da quella situazione che aveva creato lei e in cui doveva inventarsi una scusa per Sarah in modo da rabbonire David. Ancora una volta le tornò in mente l’opprimente pienezza di sé di Sarah e David, che ancora si credevano protagonisti di un qualche straordinario dramma malgrado non si sentissero da quasi tredici anni.
«Perché proprio questo? Perché ci sei tu?»
«No, solo perché si è resa conto che era ora che vedesse un tuo spettacolo. Il fatto che ci sono anch’io è solo un motivo d’interesse in più».
«Quand’è che ti sei rimessa in contatto con lei? A quanto ricordo io, verso la fine delle superiori non vi parlavate neanche più».
«Eravamo alle superiori», disse Karen con nonchalance.
Forse da parte di Karen era ingiusto vedere Sarah e David come una coppia di narcisisti, ciascuno fissato sull’antica immagine dell’altro e convinto di scorgere in quel disgraziato amore adolescenziale una qualche perduta componente di sé che ancora rivoleva indietro. Forse da parte di Karen era ingeneroso vedere Sarah e David in quel modo perché lo stato emotivo che ne derivava era fatto di insofferenza, rancore e disprezzo. In Karen non c’era posto per le emozioni irrisolte altrui perché non c’era posto per la sua stessa mancanza di generosità. Karen soffre, lei per prima, perché vorrebbe provare empatia e non ci riesce. Il massimo che può fare è mantenere un sano distacco, e spesso nemmeno quello le riesce. Quanto a empatia, le lacune di Karen sono talmente profonde che lei neanche riesce a guardarli, David e Sarah, quando lui, che scende dalla sua macchina di merda, e lei, che scende dalla macchina di Karen, si affrontano sul tratto crepato di marciapiede davanti al bar/spazio eventi dove finalmente stasera si terrà la prima prova generale. Quando era andata a prenderla all’aeroporto, Karen aveva lasciato fare tutto a Sarah – gli strenui sorrisi euforici, gli abbracci senza esitazione, le chiacchiere, gli uuh e gli aah – mentre lei, nel privato del suo distacco, sviscerava freddamente ogni palpito e scoppiettio degli instancabili sforzi di Sarah. Ma quando Sarah si trovò davanti David sulla distesa di cemento fracassato, Karen si sorprese a guardare altrove. Ciò che in un attimo passò tra loro fu il suo castigo. E assistendovi si vergognò.
Poi l’istante finì e David, la vecchia falcata ancora visibile sotto il peso recente, fece un passo avanti e la strinse in un abbraccio eccessivamente cordiale e cameratesco, e Sarah emise un riso strozzato, esagerando lo strozzamento a fini comici, e disse: «Attento! Non stringere troppo, sono incinta», e David balzò indietro come se si fosse scottato.
«L’ho scoperto subito dopo che ci siamo viste a Los Angeles», disse poi a Karen. «Poi, la mattina, i postumi sono stati... be’, sono durati più del solito».
«Direi che questo risponde alla domanda su cosa posso offrirti», disse David. «Nel senso, qui dentro c’è un bar».
«Ah! Acqua o succo di frutta vanno benissimo».
«Perfetto! Andiamo», disse David, e girando sui tacchi attraversò la strada ed entrò nel fabbricato come se Sarah avesse preteso che la bevanda le venisse servita lì sul marciapiede.
«Congratulazioni», disse Karen entrando insieme a lei.
«Sono solo all’ottava settimana. Non volevo dire niente ma boh, m’è uscito di bocca. Oddio, con le nausee che ho poteva uscirmi ben di peggio».
«Sono sicura che David ti avrebbe perdonata. Ne ha avuta di gente che gli ha vomitato addosso, in vita sua», disse Karen.
All’interno del capannone David era scomparso. Karen lasciò la raggiante Sarah ai salamelecchi di Martin e si avviò per il labirinto di tendaggi neri, attraversando ampi recessi bui e nascosti, fino alla porta posteriore che dava sul vecchio piano di carico. David era là, seduto sul gradino con le spalle al muro, a fumare e guardarsi le scarpe.
«Ti senti bene?», domandò Karen.
«No», rispose David. «No, non mi sento bene per niente».
Karen si sedette sul piano di carico accanto a lui, cosa che non aveva pensato di fare. Aveva pensato di tornare dentro e lasciare David per conto suo. Dicendosi di non stare a pensarci troppo lo abbracciò, e al sentirsi toccare lui si afflosciò pesante e poi si rianimò di scatto, con il grido straziante di una bestia presa in trappola. Scosso com’era dai singhiozzi, era difficile stargli aggrappata. In pieno senso di colpa Karen avrebbe voluto mollarlo, ma dovette esortarsi solo un paio di volte prima che lui si staccasse spontaneamente da lei, senza rabbia, per prendersi il pacchetto di sigarette dalla tasca. Prima di accendere si asciugò rozzamente la faccia con l’orlo sfilacciato della T-shirt.
«Forza con ’sta cazzo di prova, allora», disse poi alzandosi.
Sarah assistette al primo atto seduta da sola in quarta fila mentre David era preso a dirigere la prova. Ma la tensione c’era ancora tutta, come un cavo teso tra i due che a non starci attenti si rischiava di inciamparci, osservò Karen. Si chiese com’era possibile che ancora le desse fastidio. Perché la escludeva? Perché faceva questa enorme rivendicazione, di essere una condizione umana più importante di qualunque altra? David era in perenne movimento, saliva a passi pesanti sulle tribune per raggiungere il mixer luci o saltava sul palco o si piazzava sulle poltrone più lontane per controllare la visuale, sempre con dietro una scia di fumo di sigaretta e schizzi di schiuma di birra, ma ovunque andasse evitava di guardare Sarah e quindi era chiaro che doveva essergli spuntato un paio d’occhi sulla nuca, o dietro le spalle, o dov’era necessario che fossero per tenere il cavo teso sulla traiettoria più diretta. Il cavo tagliava la sala come una lama e la prova generale fu un disastro di imbeccate perse, battute sbagliate e intoppi tecnici, e nessuno, salvo probabilmente Karen, Sarah e David, capiva perché. Partito il secondo atto, con Sarah nascosta dietro le quinte con il costume di Karen, gli ultimi brandelli di concentrazione si disintegrarono e alla quarta o sesta birra David prese a trascinarsi qua e là come un sonnambulo. «David, David», chiamava il datore luci. «È questo l’ingresso che volevi?» «David, David», chiamava il tecnico del suono. «Che canzone hai detto?» «David, David», chiamava lo scenografo. «La veneziana deve tirarla giù Doc?» Karen si era portata dietro per la prima volta la pistola caricata a salve, e si rese conto che le indicazioni tecniche per lo sparo in controluce andavano rifatte un’altra volta; tenendo la Beretta a canna in giù con le dita ben lontane dal grilletto salì sul palco e socchiuse gli occhi sotto le luci. «David!», gridò, e sentì tutto il caos di persone che ciondolavano qua e là per la sala senza più una guida mettersi di colpo sull’attenti. «Ehi, non sparare», disse qualcuno, e poi scoppiò il tremito di una risata.
«Ci dev’essere più spazio fra la testa di Martin e la pistola. Quando io sono in posizione, da’ un’occhiata dall’estrema sinistra e dall’estrema destra e controlla che le ombre siano allineate come si deve».
«Pensavo fosse caricata a salve».
«Sì, ma c’è comunque dentro una cartuccia e della polvere da sparo. La polvere fa il rumore dello sparo, ma produce anche un’onda d’urto. Quindi non facciamo i cretini, non ve la appoggiate alla testa e non puntatela contro nessuno. Io la punto di lato rispetto alla testa di Martin, per stare sul sicuro, ma in controluce deve sembrare che gliela stia puntando contro. Dicci se le ombre si allineano».
«Perdonami se te lo chiedo», disse Martin, «ma io mi trovo forse in pericolo?» Martin era sbucato sul palco a fare la domanda per scopi umoristici.
«Solo se fai incazzare Karen», rispose qualcuno.
Da persona responsabile e priva di umorismo in fatto di armi da fuoco, Karen ignorò la battuta. «Anche se in quest’arma non c’è il proiettile, il modo migliore di trattare una pistola caricata a salve è fingere che sia vera. Sparerò verso la sinistra del palco, perciò durante la scena lì non ci voglio nessuno. Tanto nessuno deve starci: i costumi sono a destra, gli oggetti di scena pure, e tutti gli attori fanno l’entrata finale da destra. D’accordo? Nessuno si metta a gironzolare a sinistra».
«State bene a sentire!», disse David.
Siccome dalla porta aperta si sarebbe vista una bella porzione del retrobottega, e anche perché David aveva insistito, lo scenografo aveva arredato la stanzetta con uno scaffalino di tascabili ingialliti, un portacenere pieno, una cartelletta sudicia da cui spuntavano le carte trascurate di una piccola attività in crisi, un fornello elettrico con il cavo lacero, qualche zuppa in scatola, un paio di calzini grigi bucati sugli alluci a penzolare dai piedi della branda. E dentro il cassetto del tavolino malfermo, che nemmeno la prima fila avrebbe visto, pacchetti di fiammiferi mezzi vuoti, matite masticate, spiccioli accumulati, una copia logora di Playboy e un mini-kit da cucito. Fu il kit da cucito a pugnalare Karen, quando aprì il cassetto per guardarci dentro. Era come se ci fosse la sua solitaria e disamata competenza, nascosta in quella scatoletta di plastica graffiata.
Martin si sedette sulla sedia di Doc al tavolino di Doc; Karen si piazzò al suo fianco; il riflettore pinzato a una tubatura gli riversò addosso il suo bagliore rovente e gettò le loro ombre sulla veneziana abbassata. Tenendo la Beretta con l’indice lievemente poggiato sulla guardia del grilletto, Karen puntò la pistola. Era in piedi alla destra di Martin. Martin sedeva guardando avanti; al suono dello sparo doveva buttarsi di lato, a sinistra. David si mise a gridare a Karen di fare un passo di qui, poi uno di là, di alzare il braccio, di abbassarlo. A un certo punto il braccio cominciò a tremarle e a bruciarle, per quanto l’aveva tenuto teso. Gridò a David che se continuava così le si sarebbe staccato, e finalmente David disse che andava bene. Un attrezzista sbucò da dietro le quinte e appiccicò dei pezzi di nastro adesivo intorno alle gambe della sedia, ai piedi di Martin e a quelli di Karen, poi fece una croce sul muro interno del set, che non si vedeva, mentre Karen prendeva la mira con la pistola. Se lei, Martin e la seggiola restavano dentro i segni e se lei mirava alla croce, le ombre sarebbero risultate allineate da tutti i posti in sala. «Facciamolo!», gridò allora David, e Karen, dopo aver posato la Beretta sul tavolino ed essersi massaggiata la spalla, tornò in scena, passando davanti a Sarah che le afferrò la mano.
«Sei bravissima», le sussurrò, allo sguardo interrogativo di Karen.
«Stavolta spara veramente», disse David.
«Qualcuno dovrebbe avvisare quelli del bar che stiamo sparando a salve», disse Karen.
Ottima idea, concordarono tutti. Qualcuno andò ad avvisarli.
Nel breve intermezzo che seguì qualcun altro disse: «Meno male che siamo qui a casa del diavolo, dove non ci sente nessuno».
E qualcun altro: «A casa del diavolo... nessuno può sentire la tua pistola a salve».
E qualcun altro: «Nello spazio... nessuno può sentire le tue battute di merda».
A quel punto erano pronti e cominciarono. Per la prima volta, durante la scena, Karen si sentì montare dentro una pressione da panico, come se la gabbia toracica stesse per esploderle. Dalle lontane profondità di una fossa la sua bocca pronunciava le battute ma lei non riusciva a sentire cosa diceva, non sapeva qual era la battuta che seguiva. Aveva avuto degli incubi simili. Ma evidentemente le disse tutte, perché Martin/Doc la «strinse in un abbraccio violento» e per la prima volta, benché lo avessero già fatto innumerevoli volte, lei ne percepì il corpo scheletrico e invecchiato, caldo di fatica e vigoroso, e il suo drizzò il pelo e s’increspò tutto.
Poi erano entrati dalla porta, con Karen che nei panni della Ragazza si fermava sulla soglia in modo che il pubblico, quando ne avessero avuto uno, riuscisse a vedere il fermo proposito che le passava in volto come un fronte di nubi temporalesche. Era stato David a dire quella cosa delle nubi, settimane prima. Aveva detto che voleva far capire al pubblico che la Ragazza aveva preso una decisione, anche se il pubblico non sapeva qual era. Quel commento aveva ricordato a Karen che David pensava per metafore. All’inizio David avrebbe voluto scrivere le sue pièce e dirigerle, non dirigere pièce scritte da altri. Karen avvertì di nuovo la pressione da panico dal di dentro, a tenderle le costole, e non capì se mentre era ferma sulla soglia era riuscita a comunicare il fronte temporalesco decisionale. Non sapeva se aveva chiuso la porta in modo tale che la veneziana sulla finestra fosse al suo posto. Non sapeva se si era messa dentro il suo quadratino di nastro adesivo con il braccio all’altezza e all’angolazione corretta mentre mirava ciecamente alla croce e, da un qualche punto fuori dal suo corpo, premeva il grilletto, rinculando per la forza e il rumore che era tanto più forte e sconcertante di quello di una pistola vera. Martin cadde di lato dalla sedia come un sacco di patate. Le luci si spensero. La pistola sfuggì di mano a Karen e cadde a terra.
«Cristo!», fece Martin dal pavimento. «T’è caduta la pistola?» Karen ebbe la sensazione di essere riatterrata di schianto nel proprio corpo così come la pistola si era schiantata a terra.
«Sì, scusa», disse, raccattando l’arma mentre si riaccendevano le luci.
«Rifacciamola con il cambio in quinta!», gridò David, il che voleva dire: Così è perfetta, andiamo avanti e finiamo, cazzo.
«Per rifarla devo ricaricare la pistola», disse Karen. «Carico solo una cartuccia alla volta, per precauzione».
Si misero tutti intorno al tavolo a guardarla, mentre lei apriva il tamburo per accertarsi che la camera fosse vuota, inseriva un’altra cartuccia, riportava il tamburo in posizione. Nel compiere queste operazioni che aveva già compiuto molte altre volte e compiva con grande sicurezza Karen sentì un tremito indisciplinato alle mani e il fastidio di quegli sguardi vicinissimi. Mica stava facendo un trapianto di cuore. Per distogliere l’attenzione, loro e sua, prese a descrivere i vari passaggi come aveva fatto Richie. «Bisogna sempre controllare che il tamburo sia vuoto dopo ciascun uso. Precauzione di base. Il dito deve stare sempre lontano dal grilletto e sempre lontano dalla guardia finché non si è pronti a far fuoco. Mai puntare l’arma contro nessuno, anche scarica. Mai premere il grilletto, anche con l’arma scarica. Nel nostro caso, il massimo della sicurezza è che nessuno tocchi la pistola tranne me. La porto e la riprendo io a ogni replica, la prendo e la rimetto io sul tavolo dell’attrezzeria, la carico e la pulisco io. Non deve toccarla nessun altro, neanche per dare una mano. Gli incidenti succedono così».
Dopodiché Martin, Karen e la pistola ripresero posizione. Karen nei panni della Ragazza tornò sul palco, sotto le luci abbaglianti, accanto a Martin nei panni di Doc. I due ripeterono le battute. Rifecero l’abbraccio stretto. La porta aperta, le nubi temporalesche, la porta chiusa, ritrova la posizione, riprendi la pistola. Martin si tappò le orecchie con le mani.
«Che fai con le mani?», gridò David dalla sala. «Perché? Guarda che si vede, eh. Doc è in attesa della morte!»
«Fa un baccano tremendo, cazzo vuoi, farmi diventare sordo?»
«Secondo me ha ragione», disse Karen senza pensarci. «Una volta l’abbiamo fatto e adesso so che sensazione dà, quindi per il resto delle prove diciamo solo “bang” se no diventiamo sordi tutti».
David non era d’accordo. Salì sul palco, aprì la porta di scena e li guardò accigliato. «L’esperta di sicurezza sei tu. Ma secondo me devi abituarti a sparare veramente in prova. Perché poi la scena dev’essere perfetta».
«Ci sono abituata e la scena sarà perfetta. Abbiamo capito l’angolazione, ho sentito il rinculo. Far sparare quest’aggeggio a ogni prova è molto meno sicuro».
«Prima non la pensavi così».
«Non ci avevo riflettuto abbastanza».
«E vabbè. Sei tu quella con la pistola in mano».
«Allora facciamo cinque minuti di pausa così la posso scaricare di nuovo».
«Ma porca puttana!», disse David.
Di lì in poi divenne ancora più importante che il cambio in quinta andasse liscio. A Karen tornarono in mente i cambi in quinta che aveva fatto quand’erano ancora tutti a scuola, la fredda intimità dell’aprire la lampo a Melanie, tirarle giù il vestito fino ai piedi, infilarle la ciambella del nuovo costume facendo passare la testa e le braccia mentre lei saltava fuori da quello vecchio, buttarsi carponi per afferrarle i piedi e ficcarglieli nelle scarpe mentre lei si allacciava i bottoni, il tutto al buio e alla velocità della luce. Era tutto mestiere e niente sesso, non c’era da sentirsi strani o eccitati nel maneggiare bruscamente corpo e abiti di un’altra persona come fosse una bambola a cui non si era affezionati. Eppure era un’operazione sexy, eccitante e strana, o forse solo Karen la sentiva così, all’epoca in cui le sue sensazioni erano talmente sotto sorveglianza che passavi un guaio se non ti sentivi in un certo modo a comando e pure se ti sentivi in un altro modo che non ti era stato ordinato. E adesso era Sarah ad afferrarle il corpo nel buio, a tirarle giù i jeans e fermarli a terra in modo che lei potesse saltarne rapidamente fuori, è Sarah che la impacchetta nell’abito attillato e subito le tira su la cerniera facendole scorrere il palmo della mano sulla schiena così la lampo non le pinza la pelle. Scarpe, borsetta, un minuscolo specchietto illuminato che Sarah fa scattare in modo che Karen possa mettersi il rossetto. Il rossetto ha trasformato la Ragazza-efebo in qualcosa di più rigido e aguzzo quando, pochi minuti dopo, rientra in scena. Sessanta secondi e Karen è tornata nel suo quadratino di nastro fosforescente. Ce l’hanno fatta alla prima: Karen ha perfino il tempo di aspettare che il battito le torni normale.
Durante il cambio in quinta è cambiato anche qualcos’altro. È successo con la stessa rapidità e nel medesimo silenzio. Che sia perché si sono divise un compito, o perché l’hanno eseguito bene, o solo perché sono state costrette a toccarsi con troppa efficienza per avere tempo di pensare, per qualche motivo l’elettricità statica tra Karen e Sarah è scomparsa. È come se qualcuno avesse spento una sorgente di rumore bianco che Karen aveva dimenticato fosse accesa. Mentre David dà le indicazioni, Sarah esce da dietro le quinte e si piazza sulla sedia accanto a Karen, e non è seduta davanti a Karen a tormentarla o assediarla, è seduta lì e basta. Ha l’aria stanca e un po’ verdognola sotto l’eterna abbronzatura. Karen cerca di rievocare lo stato emotivo dell’ossessione per Sarah ma non riesce a recuperarlo. Perderlo è come perdere un arto. Prova un senso di leggerezza, non una leggerezza in cuore ma la leggerezza di vedersi tagliare il filo e partire alla deriva nel vuoto. Finalmente, dice l’analista interno di Karen, ben più efficiente ed economico di uno vero. Finalmente hai smesso di strisciare qua e là dentro Sarah, di misurare tutti i modi in cui non è stata una buona amica.
«Sei contenta di aspettare un bambino?», chiede Karen a Sarah quando la prova è finalmente terminata e tutti se ne stanno andando ma nel frattempo chiacchierano, gironzolano, fumano e bevono.
«Non lo so», dice Sarah. «Mi sentivo che dovevo farlo, tipo».
«Ti sentivi che dovevi farlo? O hai pensato che dovevi farlo? I pensieri molte volte sono falsi, mentre le sensazioni sono vere. Non veritiere, solo vere».
«Ho pensato che dovevo farlo», dice Sarah dopo un attimo di riflessione. «Come mi sento in realtà non lo so».
«Ne ho fatto uno anch’io», dice Karen. Adesso sono tornate fuori, stanno salendo in macchina, vanno al Bar dove Sarah fingerà di prestare attenzione a Karen mentre presta attenzione solo a David, e David fingerà di prestare attenzione a tutti mentre presta attenzione solo a Sarah. È per questo che Karen si lascia sfuggire il segreto – perché vuole interrompere il circuito tra David e Sarah e reclamare l’attenzione, finalmente, per sé?
No. Se lo lascia sfuggire perché sì. Non le chiedete: perché ora? Chiedetele: perché non in qualsiasi altro momento prima d’ora?
Sono separate dalla macchina. Sarah guarda Karen da sopra il tettuccio, forse con l’intenzione di far finta di aver capito male, come a volte fa la gente per prendere tempo, quando pensa che ciò che conta sia come reagisce, e non ciò che è stato detto. Come si fa a comunicargli che la reazione non conta, anzi è sgradita? «Fammi un favore, tientelo per te», aggiunge Karen, in un tono che sembra brusco perfino a lei, e in tutta evidenza sconcerta ancora di più Sarah. Be’, pazienza. Karen guarda Sarah che si dibatte in quella sgradita posizione – non ha modo di dimostrare tenerezza e premura, non ha modo di smentire il disagio e il senso di colpa. Restano così a lungo a guardarsi da un lato all’altro della macchina che gli altri attori, Martin, David e i tecnici invadono blaterando il marciapiede, e il momento scompare; più che concludersi, cessa. E Karen lo trova appagante, perché nulla mai si conclude nel senso di «chiudersi del tutto», dal latino cum e claudere. Nulla, mai.
Ho sempre adorato le prime teatrali. Quand’ero piccola, prima che i miei si separassero, io, mia madre e Kevin andavamo alle prime del teatro all’aperto nel parco e ci sistemavamo su una coperta a mangiare panini al burro d’arachidi e a strillare esaltati ogni volta che in scena succedeva qualcosa che aveva fatto papà. Se dalla torre calava un fondale, o dalle quinte entrava una scena fissa su ruote, o al solo apparire di una pozza di luce, se era una cosa a cui aveva lavorato lui noi applaudivamo come per l’ingresso della stella dello spettacolo. Non facevamo la minima attenzione agli attori, né alla trama: l’intero allestimento sembrava un messaggio in codice da papà a noi, a conferma della nostra importanza, del nostro posto speciale sul montarozzo che costituiva la maggior parte dei posti a sedere, con l’erba spiaccicata da tutte le altre coperte e tutti gli altri cestini da picnic disseminati sotto il cielo rosato della sera.
È da allora che cerco lo stesso messaggio segreto, la stessa conferma che io sono la cosa più importante per il mittente del messaggio, chiunque sia. Sono certa che tutti cerchiamo quel messaggio, malgrado alcuni sembrino riceverlo così presto da non riconoscerlo come tale. Da non chiedersi chi gliel’abbia mandato, tanto la loro importanza gli appare già ben definita. Ma io non sono mai stata così e dubito che lo diventerò mai. Quando sei grande abbastanza da riconoscere il buco che hai dentro, è troppo tardi per riempirlo.
Nel bar/spazio eventi il camerino delle donne era solo uno sgabuzzino delle scope con dentro una lampadina nuda, ma benché lo usassi solo io, perché ero l’unica donna del cast, quando aprii la porta, accesi la lampadina nuda e trovai un mazzo di fiori in vaso, non pensai che fosse per me finché non lessi il bigliettino. Non avevo amici in questa città dov’ero nata e cresciuta: le uniche persone che conoscevo erano quelle coinvolte nell’allestimento. Avevo detto a mio padre che per David facevo l’attrezzista, e non che recitavo anche, perché non volevo che venisse a vedere lo spettacolo. Sapere che nel pubblico c’è qualcuno che ti conosce è un inevitabile memento del fatto che stai recitando, e io non volevo sapere che stavo recitando.
Il bigliettino sul mazzo di fiori diceva: «All’adorabile Karen dal suo fortunato primattore. Tanta merda, Martin». Leggendo il bigliettino capii che Martin non aveva mai dimenticato. Nelle ultime settimane mi ero convinta che si fosse scordato tutto quello che era successo tra noi, ma ora sapevo che non era così, e non so come quest’idea era più difficile da digerire dell’idea che avesse dimenticato.
Va detto che i fiori erano stupendi. Karen ci immerse il viso e chiuse gli occhi. Era un gesto molto consapevole, che aveva visto fare alle attrici in tv e al cinema ma non aveva mai avuto occasione di fare a sua volta. Poi indossò il costume, i jeans scoloriti e la felpa da scappata di casa, e si applicò il trucco, un bello strato di cipria grigiastra per farla sembrare malaticcia e affamata. Lei però non si sentiva affamata, si sentiva sazia; stava già recitando. Rimase nello sgabuzzino più che poteva perché non aveva voglia di vedere nessuno. Avrebbe voluto poter fare la pièce da sola.
Bussarono alla porta. Era Sarah. Sgusciò dentro e richiuse. Si era messa in tiro, per la prima di questo spettacolo in cui faceva da sarta in quinta per lo spazio di un minuto; e proprio come da ragazza, si era prodigata con cura certosina per dare l’impressione di non aver fatto il minimo sforzo. Indossava un paio di jeans a tubo con grossi squarci alle ginocchia, stivaletti da motociclista, una maglia di felpa che fra tagli e drappeggi lasciava scoperta una spalla a mostrare la spallina del reggiseno come la Alex di Flashdance, e giganteschi orecchini da zingara. I capelli erano pettinati con la riga molto di lato, sicché una gran quantità le ricadeva sulla faccia. Forse la tenuta era un omaggio agli anni Ottanta: lei aveva lo stesso aspetto che aveva a scuola, però meglio, perché l’ossatura del viso era più definita. Karen sperò che David non l’avesse vista, altrimenti sarebbe collassato sbronzo in cabina luci prima dell’intervallo.
«Sull’elenco dei biglietti omaggio c’è Kingsley!», attaccò Sarah in tono offeso, come se il professore avesse dovuto cessare di esistere una volta che lei aveva finto di scrivere di lui.
«Viene sempre a vedere le cose di David. Sono amici».
«Ma com’è possibile? Come fa David anche solo a parlarci? “Non mi darò pace finché non piangi”, te lo ricordi o no?»
«L’ha detto a David, non a te».
«Ma io sono arrabbiata comunque».
«Cercava di aiutare David a stabilire un contatto autentico con le sue emozioni, e magari ha funzionato. David è diventato un regista, è molto bravo e il lavoro gli piace moltissimo. L’ho sentito dire che Kingsley è stato un mentore per lui».
«Da te proprio non me l’aspettavo, che ti bevessi certe fesserie».
«Di che fesserie stai parlando?», disse Karen, perché se vuole fare la finta tonta è capacissima, specialmente se si parla della persona che qui chiamiamo «professor Kingsley».
Sarah le lanciò un’Occhiata. «Kingsley c’entra con quello che ti è successo», disse quindi, come se Karen meritasse una sgridata per non aver fatto i conti col passato.
«Ma guarda, e io che pensavo c’entrasse con quello che era successo a te».
«Non so a che cosa ti riferisci», disse Sarah dopo una lievissima pausa.
«Davvero ti aspettavi che ti reggessi il gioco delle revisioni? Finché si tratta di David è un conto, tanto lui non aveva capito niente e ancora non ha capito adesso. Ma tu... “Prenditi cinque minuti, tesoro”? Che faccia tosta, tenerti quella parte e infiocchettarla pure».
«Non so veramente a che cosa ti riferisci», ripeté Sarah, che come attrice era sempre stata uno zero assoluto. Di contro, Karen sapeva che sarebbe stata brava. Se lo sentiva. Stasera era la sera della sua prima.
«Cinque minuti!», gridò qualcuno da fuori, bussando seccamente alla porta dello sgabuzzino/camerino.
«Vai a posto». Karen congedò Sarah e distolse lo sguardo.
Niente dà più sicurezza che assistere a uno spettacolo da dietro le quinte. Magari penserete che sia conseguenza dell’educazione ricevuta, dell’infanzia teatrale che Karen menziona tanto spesso, ma chiunque può sentirsi al sicuro nascosto dietro le quinte, a seguire l’azione da un lato, al di fuori del circuito formato da attori e pubblico. Il calore di quel circuito ti scalda ma non ti chiede niente in cambio. Karen adorava il proprio ingresso tardivo nel primo atto perché le dava la possibilità di fare molto a lungo la spettatrice dietro le quinte, ma non si era mai sentita così disincarnata e libera come quella sera, pronta a uscire alla ribalta e fino a quel momento creatura di intatta curiosità che gettava la propria luce sull’abisso sconosciuto. Per tutte quelle settimane di prove aveva cocciutamente ignorato il fatto che l’autore della pièce era Martin, ma adesso la pièce le parlava con la voce dell’autore e lei comprese qualcosa di lui. Perché, chiedevano gli attori in scena, il loro amico si era ucciso? E perché non avrebbe dovuto?, chiedevano gli interlocutori. La vita era la sua, poteva tenersela o distruggerla. Perché mai dovrebbero le usanze, o Dio ce ne scampi le leggi, interferire con il modo in cui disponiamo della nostra vita?
Perché non siamo soli a questo mondo. Feriamo altre persone.
E perché dovrebbero ferire altri, le scelte che io faccio per me?
Perché quando fai una scelta, scegli anche per loro. Ci si sovrappone. Ci si invischia. Non fare del male è impossibile.
Queste sono tutte cazzate! Se uno si ritrova invischiato nella mia vita, è per sua scelta. Se io mi sparo, erano tutti avvisati.
E cosa avrebbe dovuto metterli sull’avviso?
La mera consapevolezza che io non sono loro.
Il mondo è me e non me, diceva l’analista di Karen. Lezione difficilissima da imparare. Ma anche con la voce dell’analista a parlarle dentro, Karen sentì l’imbeccata ed entrò in scena sotto i riflettori. Il suo corpo era un filo scoperto che dava la scossa agli altri attori proprio come al pubblico seduto in sala. Ce l’aveva fatta. Avvertì un crepitio nell’aria, e una curiosità in risposta alla propria. C’era stata quella folgorazione che può verificarsi a teatro quando tutti i me presenti si sovrappongono e scaricano le rispettive scosse nell’aria. L’atto terminò e dietro le quinte come sotto una muta cupola di cristallo Karen caricò la pistola a salve e la posò dove doveva stare. Quindi si presentò Sarah facendo scintille, gesticolando e muovendo la bocca in segno di entusiasmo ed esaltazione, ma, qualunque cosa stesse dicendo, Karen scelse di non sentirla. Karen non aveva alcun bisogno di parlare con la sua sarta. Le luci si spensero per la fine dell’intervallo e si riaccesero per l’inizio dell’atto e via via passarono tutte le scene che portavano alla sua e poi Karen si ritrovò ferma a guardare Martin con gli occhi della Ragazza che stava ferma a guardare Doc, e capì la ferita che li legava e capì che anche Martin l’aveva capita. Martin/Doc «la strinse in un abbraccio violento».
Porta aperta, guardare senza vedere mentre il pubblico sussultava per le nubi temporalesche sul suo viso. Porta chiusa, Martin seduto, Karen sul suo segno, luce rovente che proiettava le ombre dei due sulla veneziana. Gioco di ombre. Karen alzò la pistola, prese la mira e sparò. Con un urlo e un lamento strozzato Martin cadde dalla sedia, mani e cosce serrate contro l’inguine, e anche a terra continuò a urlare e a dimenarsi. Karen aprì la camera di scoppio, guardò nel tamburo, risistemò la camera nel castello, prese la mira e sparò di nuovo. Con loro sul palco nella «stanza» di Doc dietro il fondale adesso c’era pure Sarah che urlava, benché non allo stesso modo di Martin. «Oddio!», urlò Sarah, e poi: «Un medico, ci serve un medico!» Il suo solito mormorio fumoso adesso era stridulo e altissimo, mentre la solita cantilena dissonante di Martin era un gemito basso. Dalla sala, raschiare di sedie e scalpiccio di piedi e alterchi di voci e David, che spalancava per un attimo la porta di scena e li guardava per poi andarsene gridando.
«La cosa che mi ha veramente fatto incazzare, di quello che hai scritto», tentò di dire Karen a Sarah che urlava inginocchiata accanto a Martin come se avesse solo una didascalia ma fosse decisa a metterci tutta sé stessa, «è che hai scritto un sacco di cose esattamente come sono successe, e poi hai lasciato fuori la verità. Perché? Chi pensi di proteggere?»
«Oddio... oddio...» Martin si lamentava, raggomitolato a terra come un feto, un feto che girava come una ruota. Per qualche motivo, la maniera in cui si dimenava per il dolore lo faceva ruotare sul posto.
«Che cosa gli hai fatto?», urlò Sarah. Come al solito, non ascoltava.
«Non morirai», disse Karen a Martin in tono rassicurante. «Solo che non sarai più lo stesso».