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Il capitano Julio Albarrán si svegliò di malumore dal suo riposo forzato dietro gli isolotti dell’arcipelago di Melchior. Un vivido sogno lo aveva portato per qualche istante a migliaia di miglia di distanza; ma la cruda realtà lo costringeva a riaffacciarsi tra quei dirupi di roccia e ghiaccio in mezzo al mare di Bellingshausen, il più tempestoso tra quelli che bagnano il circolo polare antartico. Più che isole, quelli erano veri e propri iceberg che si innalzavano sui picchi di qualche cratere emerso dalle profondità oceaniche.
Quelle moli di roccia e ghiaccio si confondevano tra loro, lasciando all’interno una riparata baia la cui superficie si sollevava appena, come la respirazione di un petto, quando le ondate della tempesta penetravano dagli stretti canali convertiti in vene gonfie d’acqua. La Leviatán, una baleniera con dodici uomini d’equipaggio più il capitano, dondolava dolcemente tra quelle onde come se si trovasse su un lago, mentre a qualche centinaio di metri la burrasca ruggiva flagellando il cerchio di isole.
Restava alla fonda con una sola ancora, pronta a levarla al momento opportuno che però non arrivava da oltre un giorno e una notte. A un certo punto la furia si era leggermente attenuata, ma uscendo in mare aperto, un’altra tempesta prodotta da quella fabbrica di burrasche che è l’Antartide si era scatenata così improvvisa e violenta che la piccola baleniera aveva dovuto correre nuovamente al riparo come un cane bastonato. I tredici uomini cominciavano ormai a innervosirsi per l’immobilità nel mezzo di quelle bufere a catena; solo Albarrán manteneva la calma, o dava l’impressione di riuscirci, come sempre faceva davanti all’equipaggio. Il giovane pilota Elías Yáñez saliva e scendeva da sottocoperta, dove passava il tempo giocando a carte con i due ingegneri. Ogni tanto sputava fuori una di quelle maledizioni che se si tengono dentro finiscono per avvelenare l’animo di un marinaio, affinché le sentissero di sfuggita il capitano o il nostromo Tomás Bárcena, che aveva appoggiato l’idea del capitano di andare a cacciare balene a ovest delle Shetland del Sud, più facili da raggiungere – secondo lui – restando nelle vicinanze dell’isola Decepción, dove si trovava lo stabilimento della Compagnia Baleniera di Magellano.
Sedendosi sulla brandina, nella cabina che serviva al tempo stesso da sala consultazione mappe, il capitano Albarrán fece battere i tacchi dei suoi grossi stivali da cacciatore di balene come per contrastare il rumore del mare, simile ai passi di un gigante che si avvicina ma non arriva mai. Cercò di ricordare quel piacevole sogno, ma nel rievocarlo le sue parti più gradevoli si smarrivano in un pozzo di oblio e ne riemergevano altre di una realtà vissuta che non armonizzavano affatto con l’atmosfera sognata. Ricordi veri che si mescolavano alle fantasie del sogno, e che gli fecero pensare che non era la stessa cosa ricordare da sveglio ciò che si è vissuto dormendo…
Nella sua lunga vita di cacciatore di balene, seguendo anno dopo anno la corrente di Humboldt che dall’Antartide arriva fino alle isole Galápagos, il cui plancton, nutrito dal limo dei fiumi andini, è il più fertile del pianeta, era andato a letto con molte donne a Guayaquil, Callao, Antofagasta, Valparaíso, eccetera, ma nessuna era paragonabile a quella che sembrava starsene adagiata nel suo sangue, e che riemergeva alla superficie dei suoi sogni come quei delfini che amoreggiano quando il mare è più calmo.
La ricordava quella prima volta su un prato circondato da un bosco accanto a una scogliera. Arrivava come un’apparizione bianca e azzurra, che lo prendeva per mano e insieme passeggiavano costeggiando il dirupo boscoso, finché lei non l’abbandonava svanendo in una bruma profonda quanto i suoi indimenticabili occhi.
Ma adesso, durante il sonno pomeridiano, era venuta a giocherellare con lui come quei due delfini che aveva visto una volta dietro l’isola Tenglo, vicino a Puerto Montt. Uno azzurro e l’altro bianco, saltavano vari metri fuori dall’acqua e ricadevano avvitandosi e lacerando la superficie del mare, liscia come la seta alla luce del mattino.
Al pari di quei due delfini, aveva danzato con la donna del sogno in una casa dalla vita allegra in calle Carampangue, nella città lacustre di Valdivia. Quella strada pavimentata con grosse tavole di larice, e che risuonava come una chitarra al ritmo di una cueca ballata dalla coppia illuminata da un fascio di luce che spuntava dalla porta socchiusa. Dall’interno provenivano suoni di arpa, chitarre, tamburellare di mani sui tavoli e grida di incitamento.
Lui era entrato nella casa attraversando il fascio di luce, un po’ intimidito, come sempre quando si recava in luoghi del genere nei porti. Due uomini si erano avvicinati portando una grossa damigiana di chicha di mele. La damigiana era più grande di loro e l’avevano inclinata perché lui potesse bere. Tentava di farlo mentre il sidro usciva a fiotti; ma non c’era un bicchiere. Aveva dato una boccata al liquido come un cane affamato; ma era riuscito soltanto ad aspirare una spuma bianca, cotonosa, che lo soffocava. I due uomini ridevano della sua disperazione… E inclinavano il recipiente gorgogliante come per dirgli: «Bevi, bevi se ci riesci». Ridevano a bocca aperta burlandosi della sua sete. Allora una donna che se ne stava in piedi tra l’arpa e le chitarre si era avvicinata impietosita, invitandolo a ballare. Al di là del fascio di luce, simile a quello di un faro, si sentiva una musica lontana. Era il valzer Angela mia, che aveva ascoltato con sua madre dalla poppa di un veliero il giorno della sua partenza. Il veliero era diretto in Australia, e il suo patrigno lo aveva portato fuori dal porto di Ancud con il rimorchiatore fino in mare aperto. Le due imbarcazioni si erano separate. Aveva visto piangere sua madre di nascosto, senza capire perché.
Era scivolato attraverso il fascio di luce assieme alla donna, verso quella musica lontana. Camminavano per le strade di Valdivia lastricate di tavole, felici; poi… oh! danzavano sul fiume. Lui la guardava dall’alto in basso e per la prima volta si era reso conto che non aveva i piedi, ma le pinne; le sue gambe erano piccole e sottili pinne simili alla coda di una balena. E lui non riusciva a seguirla con i suoi grossi stivali da cacciatore che tentava di togliersi strofinandoli uno contro l’altro, come aveva fatto nel naufragio della Pinto. Ma, nonostante tutto, l’accompagnava nella danza, pur se goffamente.
Le dolci colline che si affacciavano sul fiume erano ricoperte di meli fioriti. Scivolavano in un abbraccio nuziale, gioioso, lungo le acque, fino a raggiungere la foce, dove le grandi onde del Pacifico si infrangevano producendo un suono di gigantesche corde di contrabbasso. Ma non erano onde, bensì balene azzurre, i cui dorsi si allineavano su due file offrendo loro il passo, mentre i potenti getti d’acqua si innalzavano fino al cielo.
Ma non poteva, non riusciva a seguire la danza della bella donna nuda, con il corpo bianco come la madreperla sul dorso di una balena pilota. Gli stivali si riempivano d’acqua. Affondava, mentre la donna cercava di staccarsi dalle sue braccia. Tentò di dare una bracciata per raggiungere a nuoto la donna; ma questa era fuggita nella bruma azzurrina.
Al risveglio, si ritrovò con le coltri avvinghiate alle gambe, strette sul ventre. Con rabbia, le aveva scaraventate fuori dalla branda. Sul pavimento della cabina le coperte erano rimaste a formare una sorta di grigia onda asciutta.
Arrivando a questo punto dei suoi ricordi, rise di se stesso. Un sapore di grasso, che odorava di pesce, gli risalì dallo stomaco alla bocca, e si ricordò del pinguino adelíe che si era mangiato intero all’ora di pranzo.
Rammentò che al mattino era sceso con alcuni uomini dell’equipaggio sulla piattaforma di ghiaccio che pullulava di pinguini adelíe. Questi, che non conoscevano l’uomo, si erano avvicinati agitando i becchi rossi e guardandoli con quegli occhi vivaci circondati dal caratteristico orlo giallo. Sembravano scolaretti in vacanza. Dopo aver abbattuto i primi a colpi di remi, vedendoli così ingenui, avevano preso a ucciderli a calci, mettendo insieme una buona provvista per la nave. Una volta a bordo, Fabián, il cuciniere, ne aveva arrostito uno intero, che lui si era mangiato quasi fosse un’ottima anatra arrosto, desideroso com’era di carne fresca che non fosse filetto di balena o lombo di foca «granchiaiola», l’unica commestibile nell’Antartide.
Poi si era sdraiato sulla branda aspettando di digerire, addormentandosi all’ululare del vento contro le sartie agganciate al tetto della cabina. Ogni tanto il vento portava il gracidare dei pinguini in lontananza, quasi chiamassero il loro simile pesantemente affondato nel ventre del capitano. Qualcosa si era mosso nella sua coscienza, immaginando i pinguini come una piccola umanità perduta tra i ghiacci, e forse anche per questo la sua coscienza si era librata fugacemente a migliaia di miglia di distanza, verso regioni più accoglienti di quegli inospitali ghiacci polari.
Rise malinconicamente. Era tutta colpa del pinguino. E della burrasca che ruggiva fuori. E del vento che faceva vibrare gli stragli in filo d’acciaio come fossero le corde di una chitarra, e ululava, come un sordo organo spettrale, nell’ampia bocca della ciminiera che rimaneva dietro la cabina.
Tese l’orecchio per misurare la forza del suo eterno nemico. Questo, a volte, sembrava acquietarsi; ma poi tornava con raffiche violente, quasi volesse strappare in un colpo la Leviatán dal suo rifugio tra gli isolotti di Melchior.
Infilandosi la giubba di cuoio foderata di lana, il capitano Albarrán scese nella latrina che divideva con gli ufficiali di coperta e di macchina. Qualcuno aveva disegnato sulla vernice bianca una donna nuda, e forse un altro, con la punta della sigaretta accesa, le aveva marcato il sesso. Dalla fessura nella vernice deteriorata spuntava il ferro arrugginito, come un piccolo occhio opaco e triste.
Dopo due giorni e altrettante notti di tempesta, l’alba del terzo portò quella pace cristallina, che segue a una serie di tormente antartiche, formatesi in quella zona, ma che raggiungono la massima intensità quando attraversano il canale di Drake e spazzano le steppe della Terra del Fuoco e della Patagonia.
Ma il capitano aveva ordinato di mantenere al minimo il fuoco per risparmiare carbone, e la pressione delle caldaie stava salendo lentamente rendendo impossibile uscire subito in mare aperto. Per questo erano tutti di malumore, preoccupati che potesse arrivare una nuova serie di tempeste.
«Il vecchio è mezzo rimbambito!» disse uno dei marinai più anziani, guardando di traverso il ponte di comando.
Albarrán veniva chiamato di nascosto «il vecchio», e a poco più di cinquant’anni aveva già la barba bianca. Tuttavia, lo amavano come un padre o un dio a bordo, poiché oltre al salario ogni uomo dell’equipaggio riceveva una percentuale sul valore delle balene catturate. La mascada, come dicevano loro, andava dai venti pesos per il capitano ai due pesos per il cuciniere, su ogni animale consegnato allo stabilimento sull’isola Decepción. Ecco perché erano di malumore; i sacrifici imposti dall’andare a caccia di balene in Antartide potevano essere ricompensati solo con un buon guadagno, e questo proveniva esclusivamente dalle balene, e, soprattutto, dal fiuto del capitano nell’individuarle e dalla sua mira con l’arpione. Era, dunque, come un padre che dava una mascada a tutti i suoi figli ogni volta che lui centrava il bersaglio, e anche un dio, per la sua capacità di intuire la presenza sott’acqua dei branchi di balene azzurre. Lui aveva, per di più, l’intera responsabilità di qualunque cosa accadesse a bordo della baleniera e di cosa potesse succedere a questa nell’immensità del mare. E da tutto questo scaturiva il malumore: due giorni immobili, senza poter cacciare una sola balena, e in più, da quando il tempo si era rimesso, i fuochi erano quasi spenti per risparmiare il carbone della Compagnia. Da ciò il motivo delle occhiate torve verso il ponte. Tutti sapevano che il capitano riceveva una commissione sul risparmio di combustibile e altri materiali in uso sulla nave; dunque da quel carbone risparmiato anche lui si intascava la sua mascada assieme al primo macchinista.
«Acque celesti, molto fredde!» esclamò il pilota, scrutando intorno al punto dove era ancorata la baleniera.
«Color verde bottiglia, meno fredde!» gli rispose il capitano.
«E più possibilità di trovare balene», ribatté Yáñez, con un’occhiata di traverso.
«A me nessuno deve insegnare dove trovare le balene.»
«Chissà…»
Entrambi gli uomini conoscevano il mare tanto da riuscire a interpretarlo al primo sguardo. Entrambi credevano di conoscersi, anche se una volta Albarrán aveva buttato lì una frase che era rimasta impressa al giovane Yáñez: «Non si arriva mai a conoscere del tutto un uomo», gli aveva detto.
Elias Yáñez era dello stesso paese del capitano, Ancud, la pittoresca capitale dell’arcipelago di Chiloé. L’unico e bellissimo mare interno che vi sia nella lunga costa occidentale del Sudamerica. Il pilota era sui trent’anni, e la sua corporatura, più minuta, asciutta e nervosa, contrastava con quella del corpulento capitano, che aveva spalle più larghe, un collo taurino e due manone che sembravano fatte per annodare cavi d’acciaio. Una peluria nera e ispida gli ricopriva il collo e il volto; sulla faccia paffuta del capitano, invece, i peli diventavano radi sulle guance, e quelli bianchi gli davano un aspetto da foca appena sbucata tra i ghiacci. Uno sembrava un elefante marino e l’altro un leopardo di mare, un tricheco forte e pesante il primo, astuto e agile il secondo. Entrambi usavano l’arpione; ma da quella volta che al pilota e al secondo di bordo era sfuggita una balena alfaguara a trenta metri dalla prua, l’equipaggio aveva chiesto ad Albarrán di non abbandonare più il cannone arpioniere. Questi aveva approfittato dell’occasione per consolidare il suo prestigio di miglior capitano arpioniere della flotta di cinque baleniere dell’isola Decepción, nonostante avesse oltrepassato la soglia dei cinquant’anni.
Tuttavia, in quell’ultima stagione di caccia gli era accaduto un fatto che conservava come un inquietante segreto nel profondo del cuore: gli cominciava a pulsare l’occhio ogni volta che prendeva la mira sulla linea di puntamento del cannone, inquadrando la sfuggente porzione di dorso nero del cetaceo che affiorava tra le onde con un movimento rotatorio. Gli pulsava e lacrimava, e più di una volta aveva colpito il bersaglio solo grazie al grande istinto di cacciatore e non per la precisione della sua mira. In una occasione aveva puntato con l’occhio sinistro anziché con il destro, senza che nessuno, per fortuna, se ne rendesse conto. Dopo aver cacciato dieci o quindici balene durante la lunga giornata antartica, aveva sentito un intenso dolore alla testa, che gli opprimeva il lato destro fino all’orecchio. Tutto questo lo faceva tremare al pensiero di dover consegnare il cannone al suo secondo o a qualcun altro. La Compagnia esigeva, com’era tradizione, che l’arpioniere fosse il capitano. Non voleva neppure immaginare che quello fosse l’inizio della fine dei suoi trentacinque anni da cacciatore di balene.
C’era anche un altro sintomo che cominciava a preoccuparlo. Diventava sempre più scontroso e non sopportava gli errori di qualcuno dell’equipaggio. E una sorta di idea criminale strisciava come un verme nero nella sua mente quando si trovava di fronte a un incapace o un debole: gli avrebbe torto il collo come a una gallina per poi buttarlo a mare come un sacco di spazzatura. Ma non si trattava solo di questo; altre volte aveva paura di trovarsi vicino a un martello o a una sbarra di ferro perché gli faceva venire voglia di assestare una mazzata sulla testa di qualcuno. Tutto questo lo tormentava, e pensava che forse era la conseguenza dell’aver trascorso un’intera vita a uccidere balene. O forse nel fondo di se stesso c’era una sorta di criminale che tentava di nascondersi alla propria coscienza e agli altri ostentando bontà? Non riusciva a trovare una risposta. Pensava occasionalmente a Dio, ma non credeva in lui dai tempi del seminario ad Ancud, quando lo facevano confessare e ricevere la comunione tutti i giorni alle sette del mattino. Poi aveva fatto altre prove rivolgendosi a Dio nei momenti di pericolo o di difficoltà, e siccome non gli aveva risposto, non si era più preoccupato della questione. Poteva esistere o non esistere, per lui contava poco: l’unica cosa che sapeva era che dall’età di quindici anni, quando aveva abbandonato l’internato nel seminario al terzo anno di liceo classico, se l’era dovuta cavare da solo. Ecco perché gli era uscita quella frase dal profondo: «Non si arriva mai a conoscere del tutto un uomo». Dicendolo al suo pilota, si riferiva più che altro a se stesso.
«Lei sta appena cominciando, Yáñez», disse Albarrán al suo pilota dopo aver passeggiato per un po’ sul ponte.
«E lei finendo», rispose quello svelto, dal boccaporto aperto a cui stava affacciato.
«Finendo?…» ruggì il capitano. «Vuole venire con me a imparare qualcosa sulle balene?»
«Dove?»
«Laggiù… dietro quell’isolotto!» sentenziò, indicando una collina di ghiaccio e roccia piazzata in mezzo alla baia.
Yáñez lo guardò senza capire se dicesse sul serio o scherzasse. Lo stava forse sfidando a battersi fuori dalla nave? Per un istante gli tornò in mente quello che gli aveva raccontato il capitano dei suoi tempi da pilota. Una volta, il capitano della baleniera lo aveva lasciato a bordo a fare un turno di guardia che non gli spettava, per fargli un dispetto, e intanto quello se n’era andato in porto a divertirsi. Verso la mezzanotte lui l’aveva richiamato con i fischi regolamentari. Il capitano era arrivato e gli aveva chiesto perché lo stesse chiamando con tanta urgenza. «Per suonartele», aveva risposto, e gli si era gettato addosso prendendolo a pugni. Poi aveva lasciato la nave. Adesso, in quei luoghi solitari, non era possibile sbarcare e andarsene sui moli e in città. Se si fossero presi a pugni, avrebbero dovuto affrontarsi per l’eternità di quella lunga stagione di caccia. Per caso non stava diventando un po’ pazzo, il suo capitano? Ultimamente aveva notato in lui certi strani atteggiamenti, e la sua scontrosità si era aggravata quasi quanto gli attacchi d’ira di Fabián, il cuciniere, un altro che faceva rizzare i peli agli uomini a bordo.
«Cosa andiamo a fare noi due laggiù?» chiese il pilota, con la calma virile di uno che non teme la sfida di nessuno.
«Lo vedrà… se ha il coraggio di seguirmi», rispose il capitano con un tono ambiguo.
«Perché no? Andiamoci pure!»
Quando la scialuppa con i quattro rematori e il pilota come passeggero stava ormai bordeggiando l’isolotto, il capitano, che era al timone, fece fermare i remi e, sfruttando la spinta, avvicinò la barca a una specie di insenatura che si apriva tra il ghiaccio e la roccia.
«Lì legavamo le balene con strisce di tela!» esclamò, indicando un ferro arrugginito incastrato e cementato nella fessura di una roccia.
Era un binario di ferrovia con un foro per far passare una corda a un’estremità; ma quel ferro modellato dalla mano dell’uomo per altri fini, messo lì, in quel luogo desolato ed esposto alle intemperie, in mezzo al mare sicuramente più solitario del pianeta, costituiva una drammatica traccia dell’insolita presenza umana.
«Anziché lavorare con le balene appese alla fiancata della nave, venivamo a farlo qui, al riparo dai temporali.»
«Guardate là sotto!» gridò uno dei marinai, sporgendo la testa fuori bordo.
Tutti guardarono sul fondo marino, e poco a poco ai loro occhi stupefatti apparve uno spettacolo fantastico e macabro: cento, forse mille grandi scheletri bianchi giacevano sparsi sul fondale. Un’altra traccia del passaggio di esseri umani in quella zona deserta. Erano gli innumerevoli cetacei smembrati sul ciglio di una roccia, su quel binario sporgente per legarci la cima di una corda.
I grandi crani assomigliavano a carri romani rovesciati su quelle sponde dopo una catastrofica cavalcata. Benché sconnesse, le vertebre formavano ancora la lunga struttura degli enormi cetacei, ripuliti sul bordo dell’isolotto come se fossero banane. Soltanto le costole erano sparpagliate ovunque, come una flotta di navi spettrali sfasciatesi dopo un naufragio.
C’era qualcosa di inquietante in quell’orrendo ossario. Le acque antartiche, molto trasparenti e limpide, nel loro movimento ondulatorio facevano muovere anche quelle ossa come se riprendessero vita. Di un biancore accecante, i riflessi si mescolavano al celeste delle onde e tutto il branco, in un ondeggiare macabro, sembrava tentare di salire in superficie. Scomparsa la carne da quei mostri, chissà da quanti anni, le ossa calcinate avevano acquisito un’espressione di purezza quasi si trovassero lì per testimoniare qualcosa. Era come se il tempo chiedesse qualcosa all’acqua; come se il più grande mammifero prodotto dal pianeta in tutti i tempi, domandasse all’altro mammifero perché aveva curvato le tavole imitando le sue costole, per poi lanciarsi in mare al suo inseguimento come la più feroce delle belve. Perché nel suo passato remoto la balena era stata anch’essa un mammifero terrestre che, perseguitato da altre fiere, aveva cercato la via del mare per salvarsi. Non lo dimostravano forse i suoi organi così simili a quelli dell’uomo che persino le mani e i piedi conservavano ancora tracce di falangi avvolte nei guanti di grasso delle pinne? Non doveva forse tornare a terra, la sua patria d’origine, quando si sentiva inferma o prossima a morire per la vecchiaia? Il mare era la sua seconda patria, per lui aveva persino adattato un organo misterioso che trasformava l’acqua salata in dolce per poter bere come faceva un tempo sulla terra. Ma l’altro piccolo mammifero aveva invertito l’ordine della natura piegandolo ai suoi disegni. E come un parassita, arrivava per piantargli un pungiglione sul dorso. Tutte queste domande sembravano sorgere dalle ondulazioni delle bianche ossa ripulite, mentre risalendo nella trasparenza di quelle acque la remota risacca lambiva dolcemente le fiancate della scialuppa baleniera. Sì, era il tempo che interrogava l’acqua, essendo impotente quando si trattava di quelle coscienze che galleggiavano sulle quattro tavole ricurve!
In quel momento uno stormo bluastro planò sulla barca e andò a posarsi a ventaglio sull’insenatura dell’isolotto. Gli uomini della scialuppa alzarono per qualche istante gli occhi al cielo per seguire il volo di quegli uccelli blu. Erano petreles Wilson, uccelli delle tempeste, un po’ più grandi delle rondini di mare e con lo stesso piumaggio. Si sostenevano sull’acqua con le loro membrane natatorie e con la vibrazione di un rapido battere d’ali. Sembrava un miracolo vedere quei piccoli volatili sull’acqua intenti a beccare il pulviscolo di plancton, come un’ombra vivace della vita in quei paraggi.
«I baschi sono stati i primi a cacciare le balene su imbarcazioni», disse il capitano, rivolto ai quattro rematori, ma guardando con la coda dell’occhio Yáñez, e continuò a sciorinare opinioni e insegnamenti irrefutabili, come un professore davanti ai suoi piccoli alunni: «Ma, all’inizio, cacciavano solo le balene ammalate che andavano ad arenarsi sulle spiagge. Poi hanno cominciato a cibarsi della loro carne e a usare il grasso per le lampade, e così si sono lanciati sul mare con le loro barche. La parola arpione viene dal basco arpoi. Arrivarono a cacciare le balene fino in Terranova, in Scandinavia, dove lo insegnarono anche ai norvegesi. E quando questi impararono a farlo, li scacciarono con la forza. Come avremmo fatto anche noi, del resto. Poi fu la volta di inglesi e olandesi. E anche loro si battevano per conquistare le zone di pesca. Gli uomini hanno sempre lottato come cani per il cibo. Le navi da guerra scortavano le baleniere, e, come sempre, il più grande o il più furbo si mangiava il più piccolo. Il mare in cui ci troviamo adesso è stato scoperto da un certo Bellingshausen; dicono fosse un esploratore russo, ma secondo me andava dietro alle balene… In un libro sulle sue esplorazioni ho letto che quel piccolo pinguino che abbiamo mangiato ieri si chiama Adélie, un nome che gli ha messo quel russo, ed era il nome di sua moglie, una francese… Chissà come doveva essere, per paragonarla a quel pinguino!» e il capitano fece una strana risata, ricordando il sogno provocato dal pinguino ingurgitato, e i suoi uomini risero, come un’eco, senza sapere perché, tranne il pilota Yáñez, che manteneva un’espressione annoiata.
«Dicono che anche i giapponesi anticamente cacciavano saltando nudi in groppa alle balene. Oppure gettavano davanti all’animale arpionato una rete con dei barili per galleggianti, la balena ci restava impigliata ed era fottuta. La finivano sul posto e poi la smembravano sulla spiaggia, e ognuno si portava via la sua porzione di carne e di grasso. E sempre stato lo stesso; adesso anche noi ci prendiamo la nostra parte, ma in denaro. Certo la Compagnia si prende quasi tutta la balena… ma è lei che mette le navi, il carbone, le attrezzature e i viveri…»
«Quali viveri!» brontolò uno. «Anche quelli li tiriamo fuori dalla balena!»
«Però in fin dei conti tutti mangiamo qualcosa», disse filosoficamente il capitano, e riprese con entusiasmo il suo discorso: «Io sono stato qui quando avevo sedici anni, sulla Justina, una baleniera attrezzata da brigantino da una certa signora Toro, di Talcahuano, vedova di un danese che le aveva lasciato la nave. Quella donna era più accanita di un uomo nel comandarci durante la caccia alle balene… Chissà cosa ne sarà stato della Justina…» esclamò con nostalgia. «Era verniciata di nero, con portelloni bianchi sulle murate per simulare delle batterie. Tre alberi, trinchetto e maestro con vele quadre, e dietro, sull’albero di mezzana, una vela triangolare. Quando avvistavamo le balene partivamo su quattro scialuppe e ognuna puntava su un cetaceo. L’arpioniere doveva essere davvero in gamba per fare centro al primo colpo. Il pilota bloccava la sagola con un piede appoggiato al barile su cui era arrotolata a poppa, e poi si scambiava di posto con l’arpioniere per finire la preda. Tutti dovevano essere molto svelti… A quei tempi per i fannulloni non c’era posto a bordo, bastava che uno della scialuppa commettesse un errore e la sagola si intrecciava, e la balena tirava tutti sott’acqua… E se si trattava di un capodoglio, finivano tra i suoi denti a rimpiazzare i polipi che quegli animali mangiano di solito… Allora la balena azzurra quasi non si cacciava e ancor meno la finback, la più tremenda; fila a venti nodi all’ora… Dopo averle arpionate, si trascinavano su un fianco del veliero, sempre a tribordo, si appendevano per il dorso usando delle strisce di tela. Poi si squartavano sul bordo della nave. I pezzi di carne e grasso venivano issati in coperta con i canestri di ferro e messi su grandi catini di metallo appoggiati sopra fornelli di mattoni. Il fuoco era alimentato con pezzi di cotenna di balena a cui era stato tolto il grasso, perché la poca legna che avevamo si teneva da parte come fosse oro per accendere la prima fiamma. Gli uomini di una volta non erano come quelli di adesso. Dovevano essere molto svelti nel lavoro di squartamento, standosene sul dorso della balena legata a una fiancata della nave, senza cadere in acqua, e quelli addetti al fuoco e ai padelloni dovevano sciogliere il grasso senza incendiare la nave. Quei vascelli andavano e venivano lungo la corrente di Humboldt dall’Antartide fino alle isole Galápagos. Una volta sono stato da quelle parti anche con la vecchia Tinto, un brigantino di José Maritano, pure lui di Talcahuano. Laggiù c’è qualcosa di simile a questo pezzo di binario, che dimostra quanto siano ingegnosi i balenieri. Si trova in un posto di ancoraggio chiamato Post Office Bay, nell’isola Floriana. È un barile in cui tutti i balenieri di passaggio lasciano le loro lettere affinché vengano raccolte dalle navi dirette nei luoghi segnati sulle buste… Trascorrevano mesi e mesi seguendo la scia delle balene senza ricevere notizie da terra. Poi un norvegese ha inventato il cannone arpioniere e tutto questo è finito. Ma in Cile il cannone si è cominciato a usare dal 1910 in avanti, cioè solo da dieci anni. Il mio patrigno è stato il primo a usarlo sulla Yelcho, una baleniera della Compagnia Baleniera di Corral, che più tardi è stata comprata dalla Marina Militare e ha tratto in salvo l’esploratore Shackleton, che si era spinto in quella zona senza riuscire a tornare indietro. Aveva al comando il pilota Pardo. Quella compagnia aveva la base a Punta Calvario, a sud di Corral. Là era davvero un calvario; come lo è adesso Decepción per quelli che se la passano a squartare a terra. È il che sono diventato cacciatore di balene. M’imbarcai perché il mio patrigno mi aveva insegnato a reggere il timone; così non ho cominciato pelando patate, come quasi tutti… E non mi sono più liberato da questa fregatura… Non sono rimasto a terra che il tempo necessario per sperperare tutto il guadagnato sfogando quello che accumulavo dentro… Altri tengono da parte i soldi per farsi una casa, cercarsi una donna e mettere al mondo figli… Io, niente, come quei vecchi capodogli che rimangono a marcire tra i ghiacci… Sono stato un donnaiolo fino a stancarmene, e anche per questo non mi sono voluto sistemare… Credo sia naturale che una donna lasciata da sola a terra per tanto tempo finisca per mettersi con un altro uomo. Altrimenti, fa la muffa.»
Un fischio stridente mise fine alle dissertazioni del capitano. Era il segnale dell’ingegnere di bordo che annunciava di aver raggiunto la pressione necessaria a salpare. I marinai infilarono i remi negli scalmi. Albarrán diede l’ordine di tornare, spingendo da poppa con il grosso remo che fungeva da timone. Sotto l’acqua, alla prima vogata dei quattro rematori, i fantasmi del cimitero sottomarino ripresero a fluttuare.
2
La Leviatán navigava alla velocità ridotta di sette miglia orarie per risparmiare combustibile, a sud dell’isola di Nieve in rotta per Decepción. All’andatura da caccia le sue macchine potevano fornire il doppio della potenza; ma proseguiva così perché non aveva ancora avvistato una sola balena. Sul ponte c’erano soltanto Yáñez e il timoniere. Il primo se ne stava appoggiato con i gomiti al boccaporto, che aveva aperto per poter osservare meglio il mare, freddo e grigiastro come il cielo, ma con un chiarore rilucente che permetteva di scorgere ogni dettaglio. Era la luce australe, insinuatasi tra mare e cielo come tra due specchi opachi, che si estendeva verso l’orizzonte.
A Yáñez piaceva navigare in quel modo. Dal ponte sentiva le vibrazioni della baleniera quasi fosse una vigorosa balena di ferro che attraversava il mare. Piegando il corpo in avanti, sembrava aiutare la nave cacciatrice a prendere velocità, come se lui fosse una prua più sottile o una polena i cui occhi scrutavano attraverso i fori delle ancore. Il suo sguardo scivolava a ventaglio su quegli orizzonti. A volte il mare diventava scuro come un campo arato, solcato da piccole onde in perenne agitazione, e gli occhi si puntavano sul minimo movimento più scuro. Le folte sopracciglia cominciavano a palpitare credendo di distinguere il dorso di una balena; invece niente, era solo un riverbero nero nel vuoto tra due onde. All’improvviso il mare si popolò di innumerevoli punti bianchi, come se qualcuno giocasse sott’acqua spargendo manciate di rose. Si trattava di un branco di pinguini che giocherellavano saltando sulla superficie al pari di piccoli delfini. A distanza, sembravano spilli che perforavano il lenzuolo marino.
Distrattosi, guardò verso il marinaio di guardia sulla coffa. La vedetta percepì lo sguardo del suo pilota, e gli fece un cenno svogliato con la mano, riferendosi ai pinguini.
«Metta la prua verso la punta di quell’isola», disse Yáñez, indicando una sorta di costone di ghiaccio che interrompeva la linea grigia dell’orizzonte.
Il timoniere eseguì subito la manovra.
«Avanti così!» esclamò constatando che la prua seguiva la rotta indicata.
«Avanti così!» ripeté il timoniere.
Per un po’, la baleniera continuò a lasciarsi dietro una scia rettilinea. Di solito navigavano zigzagando, come affidandosi al caso, per coprire la maggior area possibile sulla superficie marina. Seguendo una rotta fissa, lo sguardo di Yáñez rimase immobile, verso l’orizzonte, pervaso da uno scoramento rabbioso. Cosa stava succedendo? Avevano la malasorte appiccicata addosso?
«Non si arrabbi, pilota, siamo in tredici a bordo…» disse il timoniere Barría, un tipo superstizioso che veniva dall’isola Lemuy, passato sulla baleniera dopo aver fatto il cacciatore di foche e lontre.
«Tredici…?» si chiese incredulo il pilota, anche se come secondo a bordo sapeva meglio di chiunque altro il numero dei membri dell’equipaggio.
«Fabián sostiene che la malasorte è dovuta a questo.»
«Malasorte… scemenze! Quello che vuole Fabián è un mozzo di cucina. Me l’ha già chiesto varie volte.»
«E perché non glielo danno?»
«Ne ha già avuti tre, e tutti hanno chiesto di fare qualsiasi lavoro pur di non restare con lui.»
«Ha un brutto carattere, il vecchio.»
«Mantenga la rotta», ordinò Yáñez, tornando a fissare lo sguardo sull’isola di Nieve, simile a una fine balena bianca adagiata sull’orizzonte. Poi si appoggiò con i gomiti al boccaporto, sempre scrutando il mare da babordo a tribordo. La sua mente non si lasciava distrarre da alcun pensiero che non fosse il fine che teneva all’erta tutti i suoi sensi di cacciatore.
E i sensi vibrarono quando echeggiò dalla coffa il grido:
«Balena a prua!»
La voce del marinaio di vedetta risuonò, mentre sporgeva la faccia verso il ponte di comando tenendo la mano sulla bocca a mo’ di megafono.
«Balena a prua!» urlò a sua volta il pilota, muovendo contemporaneamente la leva dello stand-by, il telegrafo a campanella che comunicava alle macchine, e il cui ago si fermò sulla scritta «a tutta forza».
Il grido tradizionale venne raccolto dal nostromo Bárcena, che stava arrotolando una corda ai piedi dell’argano, e continuò a passare di bocca in bocca dalla chiglia al castello e da prua a poppa. Persino la nave sembrò raccogliere quel grido secolare, perché le sue macchine si mossero facendola vibrare e le due eliche la spinsero fino a raggiungere quattordici miglia orarie, la velocità massima. La sottile e alta prua della Leviatán solcava le onde aprendole a ventaglio, e dietro, sotto la poppa, sbocciavano immense rose di spuma.
In un attimo tutti gli uomini dell’equipaggio si trovavano ai loro posti. Il nostromo controllava sul castello di prua la sagola legata all’arpione, e la corda di fibra spessa sette pollici, che saliva fino alla crocetta dell’albero di trinchetto, passava da un paranco e ricadeva verticale nella stiva di prua, dove le sue centinaia di metri si arrotolavano attorno a un immenso rocchetto che un perno ben oliato faceva scorrere rapidamente. Il secondo ingegnere abbassò le leve dell’argano sulla coperta di prua, facendo cigolare cavi e ingranaggi con la fuoriuscita del vapore che lo azionava.
Il capitano Albarrán uscì di corsa dalla cabina, ma poi, quando prese un grembiule nero di tela cerata dal ponte di comando, che una volta legato al collo e alla cintola lo rese simile a un qualsiasi squartatore di macelleria, i suoi gesti divennero pacati. Quando questi fu al suo posto sul ponte di comando, il pilota Yáñez si spostò di corsa all’albero di trinchetto e si arrampicò con l’agilità di un gatto fino alla coffa, dove rimpiazzò il marinaio di vedetta, che scese a occupare un altro posto alle manovre.
Tutti sembravano calmi, ma dentro era come se stessero camminando sui carboni ardenti. C’è un istinto da cacciatore che si risveglia stranamente in ogni uomo a bordo di una baleniera. Tale istinto ha la sua sublimazione nel capitano arpioniere; continua nei piloti e si trasmette al nostromo e agli uomini in coperta per arrivare fino alla tranquillità meccanica degli ingegneri, e persino il cuciniere, a cui spetta tagliare ritualmente le pinne caudali e appendere la coda della balena, sente di partecipare alla caccia in prima persona.
Non è solo il compenso della mascada a produrre quello stato di eccitazione, perché la febbre nasce dal cervello, dal cuore e dallo stomaco di ogni baleniere. Di tredici uomini i cui destini si legano stretti all’interno di una nave baleniera, per formare quell’unico cervello, quell’unico cuore duro e coraggioso, quell’unica macchina di precisione che diventa una nave da caccia quando echeggia il grido: «Balena a prua!»
Il cacciatore ama la balena o la odia, mentre l’insegue e la uccide? Non si svelerà mai il mistero del cuore umano! E soltanto la paga che lo spinge ad affrontare quella vita dura e rischiosa? Perché non si accontenta di lavorare in un allevamento o in un mattatoio abbattendo agnelli, maiali o buoi? I cacciatori di balene disprezzano quelli che lavorano a terra, che siano squartatori o raccoglitori di grasso. Considerano il lavoro a terra come una volgare macelleria e cucina, che non avrebbe ragione d’essere se non fosse per l’audacia di quelli che stanno a bordo.
Ma deve esserci qualcosa di più nell’inspiegabile inquietudine che produce la caccia alla balena: l’uomo, nell’universo, si trova tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. È un mammifero medio, mentre la balena è il più grande conosciuto sul pianeta; forse anche per questo la terra è diventata troppo piccola per lei, e ha cercato la vastità del mare, che occupa i tre quarti del globo terracqueo. E all’uomo piace fare queste cose, dal piantare uno spillo in una farfalla all’arpionare una balena.
Yáñez, sulla coffa, era un fascio di nervi tesi, saldamente legati alla testa che si manteneva fredda. Non scrutava più l’orizzonte, perché le balene si erano immerse, e il cacciatore si stava avvicinando al punto in cui avevano avvistato gli spruzzi di vapore provocati dal respiro caldo, che poi si condensa in una pioggia fine come quella di un sottile getto di fontana capace di arrivare fino a quindici metri. Adesso il pilota, più che la superficie, spiava le profondità avvistabili dalla coffa mano a mano che la baleniera avanzava a tutta velocità. I suoi occhi da gatto in agguato erano allenati a percepire l’ombra fugace che poteva emergere dagli abissi marini.
A un tratto, alzò una mano in direzione della mura di tribordo. Albarrán, attento al gesto di quella mano, ordinò:
«Virata leggera a tribordo».
Forse non era neppure necessario, visto che anche il timoniere stava attento alla mano del pilota.
«Virata leggera a tribordo», ripeté l’ordine in un sussurro, girando la ruota del timone.
La balena azzurra e la finback sono quelle che resistono di più sott’acqua senza respirare. In certi casi anche il doppio di un capodoglio, che può restarci solo una ventina di minuti.
A bordo della baleniera si sentiva soltanto il ronzio delle macchine. Quando niente la inquieta, la balena è solita procedere a una velocità di sei miglia; ma se intuisce il pericolo raddoppia e triplica tale velocità, soprattutto quella azzurra, che è la più grande e rapida. Possiede un udito finissimo; gli occhi, di un color marrone scuro con riflessi bluastri, come quelli di un cavallo baio, sono invece molto piccoli rispetto alla sua taglia; situati ai lati della testa, dietro le commissure dell’enorme bocca, possono vedere solo di lato e non ciò che hanno di fronte. Per giunta, sono abituati alle profondità, e una volta in superficie il cristallino concentra troppo i raggi luminosi, costringendola a chiudere le palpebre.
Sporgendo metà del corpo dal parapetto della coffa, il pilota fece un altro segnale al capitano. Questi avvicinò la bocca all’orecchio del timoniere, e la Leviatán cominciò a virare rapidamente dalla parte opposta, a babordo. A un altro segnale dalla coffa, abbassò la leva del telegrafo e il rumore delle macchine si spense. Al tempo stesso, lasciò il ponte di comando e scese velocemente, nonostante la sua mole, lungo la passerella che collegava il ponte al castello di prua, dove due marinai avevano già caricato silenziosamente il cannone. Afferrando la culatta dell’arma, il capitano subì una trasfigurazione. Tutto l’equipaggio aveva puntato gli occhi su di lui, e insieme agli occhi i loro cuori palpitanti, tutte le loro speranze. L’uomo incurvò il corpo massiccio chinandosi sul sistema di puntamento e fece un movimento circolare quasi a voler spazzare i dintorni con la bocca del cannone. Poi lo mosse verticalmente, come se cercasse qualcosa sotto l’acqua. Guardò verso la coffa, dove una mano si agitava con la maestosità dell’ala di un gabbiano. C’era una coordinazione perfetta tra capitano, pilota e timoniere. La coffa orientava l’arpioniere e questi, a sua volta, con una mano o con lo stesso movimento del cannone, impartiva ordini al timone. Il capitano non era più un uomo, ma un felino, una tigre o una volpe avvinghiata al cannone. I suoi cenni con il capo erano rapidi, secchi, ora verso la coffa, ora verso il mare, come se lo stesse misurando a tratti, di pollice in pollice.
All’improvviso si udì un sibilo dalla mura di babordo; poi, altri due o tre, più potenti, e quattro dorsi scuri, dai riflessi violacei, solcarono le acque come affilate colline nere. I soffi innalzarono i caratteristici getti di acqua che ricaddero come grandi felci e una coda dalle enormi pinne, che sembravano abbracciare l’orizzonte, si immerse nel mare con un guizzo giocoso.
Albarrán non tentò neppure di sparare. Le quattro balene erano emerse a circa settanta metri dalla nave, e la precisione di tiro era garantita solo sino a cinquanta.
«Macchine a tutta forza!» lo si sentì urlare fuori di sé.
L’uomo al timone ripeté l’ordine alle macchine, stavolta attraverso il megafono di bronzo accanto al telegrafo.
La Leviatán tornò a vibrare sotto la spinta delle sue macchine; come un destriero brioso riprese l’impulso e la prua cominciò a tracciare un solco più profondo nelle acque. Di lì a poco risuonarono nuovamente gli ordini di «mezza forza», «adagio» e «macchine ferme». La tensione, che aveva concesso un respiro, tornò a salire lungo il trinchetto, trasmettendosi al cannone e al timoniere. Soltanto l’ingegnere rimaneva imperturbabile accanto al suo argano, e così anche il cuciniere, affacciato alla porta del suo alloggio con una padella in mano.
Di colpo, tutti si tesero allo spasimo, udendo la secca detonazione, e una nube di cordite avvolse il capitano e il cannone, come un dio sul suo trono installato nel castello di prua.
Dal paranco sull’albero di trinchetto, collegato a un altro piantato in coperta, cominciarono a scorrere vertiginosamente la sagola e la cima, che scomparivano in mare da prua alla stessa velocità.
«Macchine a tutta forza, perdio!» ruggì il capitano.
La baleniera si lanciò un’altra volta a tutta velocità, mentre i rocchetti continuavano a srotolare la corda che saliva fino al paranco sul trinchetto, piegato come una canna da pesca, e da lì direttamente nelle profondità del mare, dove la balena ferita tirava con forza nella sua fuga disperata. Cinquecento, mille, millecinquecento metri della spessa corda di fibra scorrevano facendo fischiare i paranchi.
Poco dopo, un fiotto di schiuma sanguinolenta affiorò in lontananza davanti alla prua della Leviatán; due pinne caudali vi si agitarono in mezzo, e tornarono a immergersi per poi riemergere ancora, e così per tre o quattro volte…
I paranchi vibrano, la sagola si tende come una corda elastica. Sono le molle degli ammortizzatori sotto coperta, che sostengono l’estremità della cima quando questa si è completamente srotolata e il cetaceo continua a dare strattoni dalle profondità.
Sul plumbeo specchio del mare torna a sbocciare la rosa di schiuma e sangue in lontananza; ma adesso, dai suoi petali rosei e gorgoglianti si leva un corpo nero che compie un guizzo nell’aria e ricade tendendo le pinne caudali aperte come due braccia al cielo, anch’esso grigio, ma luminoso. Una serie di strattoni, sempre più deboli, annunciano l’inizio dell’agonia.
«Recuperare il tirante!» grida il capitano dal castello, e l’impavido ingegnere muove le sue leve con strepito di vapore e ferraglia e l’argano comincia a raccogliere la sagola e la cima che si avvolgono al rocchetto.
Il cacciatore e la preda accorciano le distanze. La balena non è ancora morta, ma, ormai priva delle sue poderose forze, oscilla orizzontalmente come un pendolo, spuntando a tribordo e a babordo della prua, sospesa al tirante. A ogni emersione protende l’enorme muso fuori dall’acqua, spalanca le gigantesche mandibole e tra i fanoni schizzano fiotti di sangue che poco a poco ricoprono il mare di un manto violaceo, mentre echeggia nell’aria una profonda nota d’organo, come se uscisse dalle porte socchiuse di una chiesa.
Tentando ancora di mordere il suo invisibile nemico tra l’aria e il mare, la balena viene tirata fin sotto la prua della nave, dove il capitano infligge il tradizionale colpo di grazia, rito che si svolge fin da quando sulle scialuppe baleniere il capitano prendeva il posto dell’arpioniere. Il tirante ha disposto il corpo della balena moribonda di fianco alle plance che restano sotto la piattaforma della prua, sulla linea di galleggiamento. Due marinai portano sul castello una lancia d’acciaio con un lunghissimo manico di legno. Albarrán l’afferra con entrambe le mani come se stesse per spiccare un grande salto con l’asta dalla prua all’orizzonte marino. I due marinai si ritirano rispettosi, come due officianti del rituale. Tutto l’equipaggio assiste all’ultimo compito del capitano. Questi alza le braccia e le protende in avanti come se un’onda gli fosse entrata nel petto, e affonda con tutte le sue forze, dall’alto della prua, il ferro che si apre un varco nello strato di grasso, di carne, in cerca dei polmoni e del cuore. Un altro fiotto di sangue sale verso l’alto quasi volesse raggiungere il capitano. Questi prende il fazzoletto e si asciuga il sudore dalla fronte, e alzando la visiera del suo berretto nero e bisunto, si ritira soddisfatto.
L’equipaggio continua il lavoro agli ordini del pilota e del nostromo. Due uomini affondano un’altra lancia tubolare fino alle viscere del cetaceo, e con una pompa per l’aria compressa lo gonfiano come un galleggiante.
La balena, rimorchiata verso poppa per iniettarle l’aria, mostra sul dorso, dalla parte del fianco sinistro e vicino alla testa, un’estremità dell’arpione lungo oltre un metro e mezzo, a forma di forcina e spesso tre pollici, non entrato del tutto. Ma all’altra estremità, la carica avvitata alla punta è esplosa, aprendo la spoletta i cui artigli sono penetrati nella carne dell’animale impedendogli di liberarsene strattonando la sagola. Con l’iniezione d’aria, o anche per questa caratteristica dei pesci che una volta morti si girano con il ventre in alto, l’enorme mole rotea su se stessa mostrando in superficie una grande pancia bianca, di un bianco madreperlaceo e lucente, con striature grigiastre, che si allargano e restringono come il mantice di un’immensa fisarmonica. Questo stomaco elastico serve alla balena per immagazzinare le tonnellate di plancton di cui ha bisogno per alimentarsi, in particolar modo di Euphausia superba, un minuscolo crostaceo.
La preda era uno splendido esemplare di balena finback, veloce quasi quanto l’azzurra e altrettanto difficile da cacciare. I marinai la legarono a una boa di legno dipinta di bianco con la scritta «Leviatán». Il nostromo Bárcena fu l’ultimo a officiare il rito sul corpo dell’enorme animale: portò una bandiera a quadri neri e gialli su un’asta di legno con la punta di ferro, e la piantò nel bianco ventre, che si contraeva e distendeva come una fisarmonica. Era il gagliardetto del cacciatore.
«Fatto!» esclamò, dirigendosi al ponte dove c’era il pilota.
«Mollare!» ordinò Yáñez, e la mole grigia e bianca rimase a galleggiare sull’acqua, con la sua bandierina di segnalazione, mentre la baleniera ripartiva a tutta forza dietro le altre tre finback.
Una mezz’ora più tardi tornò a farsi sentire la voce dalla coffa che gridava:
«Balena a tribordo!»
La caccia alla seconda balena risultò essenzialmente simile a quella precedente; non fu così per la terza, poiché al primo colpo di arpione la granata non esplose all’interno dell’animale, e si dovette compiere una manovra piuttosto difficile: la balena, attaccata al tirante, ma in possesso di tutta la sua vitalità, cominciò a correre parallela alla nave, che fece il possibile per tenere dietro al cetaceo affinché non si staccasse l’arpione. Entrambi, animale e nave, stavano attraversando la vastità marina percorrendo una rotta comune, legati dalla corda di fibra che, tesa dal paranco al cetaceo, formava un’onda che si sfrangiava vicino alla preda. Il cannone venne rapidamente ricaricato con un altro arpione, la cui sagola era attaccata a un tirante che passava per un secondo sistema di paranchi. L’onda si ingrossava mano a mano che la baleniera si avvicinava alla preda. A una trentina di metri, il capitano Albarrán sparò per la seconda volta, colpendo con precisione il dorso della balena. Su queste ultime due balene, invece del gagliardetto venne piantata una luce di segnalazione, e il capitano riprese, come un cane da caccia rabbioso, l’inseguimento della quarta.
Ma la lunga giornata australe di fine gennaio stava giungendo al termine. Un crepuscolo cinereo cominciò a calare e il mare prese a incresparsi con riflessi violacei provenienti da ovest. Restava una sola balena finback del gruppo di quattro avvistato dal marinaio di vedetta. L’inseguimento assunse toni drammatici non solo a causa della balena, ma anche per ravvicinarsi della notte. Il pilota Yáñez dirigeva dalla coffa la persecuzione implacabile dell’animale rimasto solo. Albarrán, che aveva preso personalmente il timone, spostava continuamente lo sguardo dal pilota alle acque sempre più increspate e oscure. Il barometro cominciò a scendere e un vento gelido prese a sferzare gli uomini con raffiche ormai vicine al punto di congelamento. Quasi tutti speravano che il capitano abbandonasse l’inseguimento; ma Albarrán, fuori di sé, più la notte si avvicinava e più si ostinava a cercare il solitario cetaceo in mezzo all’immensità del mare. A un tratto, lui stesso avvistò lo spruzzo oltre il parapetto di babordo, e girò il timone in quella direzione. Quando la nave mise la prua verso il punto da cui era provenuto l’espauto, come lui chiamava in gergo lo spruzzo causato dalla respirazione, lasciò il timone al marinaio e si precipitò sulla passerella per raggiungere il cannone. Da lì riprese a comunicare a cenni con il pilota.
«Non si vede quasi niente dalla coffa», gli gridò Yáñez.
«Scenda sul ponte e badi a manovrare le macchine», ordinò Albarrán, mentre il vento, sempre più forte, gli scuoteva la tela cerata e il berretto impermeabile legato con un sottogola.
All’improvviso, a circa quaranta metri, apparve un dorso rotante, confuso con la luce violacea del crepuscolo. Il capitano sparò; ma un’ondata colpì l’arpione di piatto proprio nel momento in cui stava per centrare la linea di galleggiamento dell’animale e rimbalzò facendo un patito, come dicono i ragazzi quando lanciano un sasso piatto per farlo pattinare sul mare. Ma con il patito, l’arpione saltò al di là del dorso senza causare il minimo danno alla balena.
Albarrán ordinò di recuperare velocemente il tirante con l’arpione e ricaricare il cannone con un altro. E continuò, ossessionato fino alla follia, la caccia. L’occhio destro cominciò a lacrimargli quanto quello di un bambino che piange a dirotto. Sentì un dolore alla testa come se un colpo di machete gli avesse aperto il cranio dal centro fino all’orecchio destro. Di scatto, strinse la culatta contro il petto. Scorse qualcosa a prua con l’occhio socchiuso. Fu sul punto di sparare; ma non riuscì a distinguere se fosse il dorso della balena, un’onda più scura o la notte che gli era entrata dall’occhio scendendo fino al cuore. Una balena in più restava per il momento libera lungo i sentieri del mare.
La Leviatán virò in circolo. Recuperò per prima la balena con il gagliardetto, poi quelle con le luci di posizione accese come navi alla deriva, e agganciandole alle fiancate per la coda, si mise in rotta per la base dell’isola Decepción.
Fabián, il cuciniere, fu quello che portò a termine l’ultimo rito; con un coltello norvegese tagliò le pinne caudali, lunghe vari metri, che caddero come le ali spezzate di un grosso albatro, errante sull’oceano.
3
Con le tre balene al traino la Leviatán non avanzava a più di cinque miglia orarie nello stretto di Bransfield, in rotta per Decepción. Le finback, agganciate per la coda con grosse catene, sollevavano un turbine di onde e spuma che oltrepassava il parapetto della nave, bagnava la coperta e scorreva via dai fori di scolo. La fugace notte antartica estiva era ormai finita, e i moncherini sanguinolenti delle pinne caudali troncate lasciavano allo scoperto il grasso ambrato, con un riflesso freddo quanto quell’alba opaca. Con il movimento della nave e i colpi delle onde contro i fianchi, nonostante fossero trainate per la coda, le balene morte aprivano le grandi fauci dove la spuma ribolliva alla luce del nuovo giorno. Ogni tanto le mandibole si muovevano per la forza della corrente e davano l’impressione che volessero lanciare un grido, inghiottito dal rumore della scia schiumosa.
«Un altro iceberg nei Fuelles de Neptuno!» annunciò il nostromo Bárcena, che montava il suo turno come pilota sul ponte di comando.
«Se vuole mi tuffo in acqua e le sposto un pochino quell’iceberg!» esclamò Téllez, un timoniere piuttosto avanti con gli anni, che ogni tanto stava di guardia.
«Vai a proporlo al vecchio!»
Téllez era nativo di un porto carbonifero del nord, Lebu, e si riteneva in dovere di fare battute sui chilotes, come chiamava con sarcasmo gli abitanti dell’arcipelago di Chiloé, che nella flotta baleniera costituivano la maggioranza degli equipaggi. Bárcena era di Quetalmahue, la penisola che chiude la baia di Ancud sul Pacifico, e fin dalla più tenera infanzia si era temprato con la vista delle onde oceaniche più grandi del pianeta, dato che oltrepassano di due metri d’altezza quelle degli altri mari. Era un uomo alto, che si distingueva dalla media dei suoi conterranei di bassa statura. Il naso grande gli conferiva un aspetto da moais dell’Isola di Pasqua. La sua corporatura era la più imponente di tutto l’equipaggio della baleniera; soprattutto quando camminava a grandi falcate, come se stesse cavalcando le onde, o quando annodava una gomena usando le braccia vigorose quasi fossero due duttili remi. Aveva un carattere tranquillo, parlava poco e senza ricorrere alle volgarità che i nostromi balenieri sono soliti profferire dando ordini ai loro uomini. Forse per questo era l’uomo più rispettato sulla nave, poiché il suo parere e la sua presenza appianavano molti conflitti tra gli ufficiali e l’equipaggio. Era come l’ammortizzatore della fune, che entra in funzione quando la balena strattona, tra il capitano e i suoi uomini. Albarrán riconosceva le capacità del suo nostromo quando diceva: «In certi casi è Bárcena quello che tira avanti la nave», soprattutto per rimproverare indirettamente Yáñez, il secondo di bordo, se qualcosa non andava sul ponte di coperta.
E Bárcena, al tempo stesso, manteneva un onesto rapporto di amicizia con il pilota, e con un sorriso filosofico si destreggiava nelle baruffe tra lui e il capitano. A bordo non c’era che un pilota, destinato a rimpiazzare il capitano in qualsiasi occasione, e a sostituirlo definitivamente nel caso avesse smesso di arpionare. Da lì la dissimulata competitività del vecchio capobranco che addestra il giovane, sapendo che prima o poi dovrà lasciargli il proprio posto. Il nostromo, con il suo carattere solido e assennato, fungeva da ammortizzatore tra i due.
L’isola Decepción è uno dei capricci più straordinari della natura antartica. Tutta la sua area è costituita dall’anello del cratere di un vulcano semispento. Solo in un punto l’anello è aperto da un taglio colossale che ha permesso al mare di entrare per una stretta gola tra alte scogliere, formando la baia dove potrebbe trovare rifugio la flotta più grande del mondo. Sulle spiagge della baia, scavando la sabbia, la temperatura sale fino a raggiungere quaranta gradi a soli ottanta centimetri di profondità. L’esploratore francese Charcot, tra le due esplorazioni in Antartide compiute nel secolo scorso, scoprì che il fondo di quella strana baia si era abbassato di un metro. Al suo interno, lagune di acqua dolce formate dai ghiacci sciolti mantengono un clima temperato. L’anello montagnoso è ricoperto all’esterno da ghiacciai eterni, che sovrastano le vette, ma che all’interno arrivano solo a metà dei pendii, dove la temperatura comincia a scioglierli. Tale contrasto barometrico produce forti correnti d’aria che passano come impetuosi venti costanti tra i picchi della fenditura, e che per questo sono stati chiamati Fuelles de Neptuno, i mantici di Nettuno, cioè i polmoni del dio dei mari.
Qui le correnti polari attraverso lo stretto di Gerlach e quello di Bransfield portavano di continuo carovane di iceberg, e ogni tanto qualche montagna di ghiaccio finiva per ostruire la gola dei Fuelles de Neptuno.
Il capitano Albarrán salì sul ponte e rimase a guardare con impazienza l’iceberg. Se il vento e la corrente l’avessero spinto verso l’interno per la stretta imboccatura della baia, la baleniera poteva prepararsi a restare immobile un’ora o anche più, finché la lenta mole non fosse penetrata.
«Diglielo adesso, al capitano, quello che intendevi fare», disse Bárcena.
«Cosa?»
«Questo gran dritto voleva tuffarsi per andare a spostare l’iceberg a nuoto», rispose il nostromo.
Albarrán avrebbe riso della battuta se non avesse avuto l’umore inacidito dalla vista di quelle tre uniche balene al traino, quando era solito arrivare con cinque o addirittura otto appese alle fiancate.
La grande mole di ghiaccio, con il suo volume sette o otto volte più grande rispetto alla parte emersa, continuò alla deriva fuori dalle scogliere dell’isola lasciando infine libero il passaggio. Lentamente, la Leviatán penetrò attraverso la fenditura tra le montagne. A tribordo si innalzava un complesso di cime rocciose, tagliate a picco, fiere, tetre, dai cui alti crepacci si levarono in volo, come grandi anatre bianche, stormi di petreles delle nevi, e alcune procellarie dal piumaggio bruno, blu e bianco. A babordo scorreva una bianca scarpata meno scoscesa e più bassa, coperta di neve, che tendeva al rosa dove si mescolava con certi licheni cresciuti grazie alla temperatura vulcanica dell’interno. Un fischio stridente annunciò l’arrivo della baleniera alla base incastonata in una spiaggia di sabbia nera, sul margine sudovest della baia, ai cui lati sorgevano un gruppo di casupole e vari capannoni di legno e zinco. La Moloch, la Diana e la Bellerofonte, altre tre baleniere, si rifornivano di acqua e viveri, preparandosi a salpare.
La Leviatán andò a gettare l’ancora di fronte allo scivolo, una piattaforma di grosse assi che si innalzava dalla riva fino alla rampa di squartamento simile, dall’alto, a una pista di atterraggio, pavimentata con la fanghiglia sanguinolenta dei cetacei smembrati.
Pochi istanti dopo, una barca con quattro rematori si avvicinò alla nave. Gli uomini della Leviatán sciolsero le catene che trainavano le balene, e quelli della barca presero la cima di una gomena da rimorchio, la legarono al banco di poppa, e cominciarono a rimorchiare la prima balena verso lo scivolo. Una nube di petreles, di rapaci skúas e fardelas si gettarono giù dalle alture attirati dal banchetto di viscere che li aspettava. Alcuni, più audaci, si posarono sul ventre della balena e cominciarono a beccare la fine epidermide simile a una pelle scamosciata, che ricopre le finback. A causa dell’aria iniettata nel ventre e per gli scossoni delle onde contro le fiancate della nave, la lingua era uscita fuori dalle grandi mandibole. Assomigliava a un pallone rosa sul mare verde nero, come se l’aurora australe, che irrompeva splendente per conferire un po’ di vita a quelle morte regioni di ghiaccio, avesse lasciato cadere uno dei suoi petali.
«Quante balene hanno portato gli altri?» chiese Yáñez a uno degli uomini della barca, quando attraccò alla nave per portarsi via un altro cetaceo.
«La Moloch, cinque alfaguara. La Diana, due seiguales, tre ’nasi di bottiglia’ e una gibbosa. La Bellerofonte, otto capodogli…»
«Accidenti… è la prima volta che mi succede!» esclamò Albarrán, uscendo dalla piccola cabina dove aveva appena fatto colazione.
«Abbiamo la scalogna addosso!» disse un marinaio che stava passando la fune per il traino.
«Ce la siamo spassata a cacciare pinguini a Melchior…» aggiunse ridendo sardonico il pilota.
«Dove rimane?» chiese Pedro Nauto, che stava sulla barca.
«Laggiù… vicino all’Australia!» continuò a scherzare il pilota.
Facendo finta di non aver sentito, Albarrán con tre falcate salì nella sua cabina.
«Il colmo della iella è che siamo tredici a bordo…» disse il cuciniere sporgendo la testa dalla porta dell’alloggio.
«Dovrò gettarne uno in acqua», rispose Yáñez, guardandolo di traverso.
«Tu, non vorresti venire a bordo?» chiese il cuciniere al ragazzo.
«Perché non apre un ufficio di collocamento a terra, non sarebbe meglio?» sbottò Yáñez, un po’ infastidito dal fatto che il cuciniere si immischiava nelle sue mansioni.
La parola «ufficio di collocamento» riportò alla memoria di Pedro Nauto il ricordo della taverna di don Sixto Mansilla, nel lontano porticciolo di Quemchi, dove era avvenuta la rissa che gli aveva permesso di farsi assumere poco più di un anno prima a bordo della baleniera diretta a Caleta Samuel, sull’isola Guafo.
«Era tanto per dire, niente di più!» si scusò Fabián.
«Vorresti venire a bordo, tu?» chiese il pilota.
«Dipende da quel che dice don Roberto o don Carlos…» rispose Pedro Nauto, riferendosi al capo rampa, ai cui ordini lavorava, e all’amministratore dello stabilimento, don Carlos Hansen, e aggiunse, come per suggerire al pilota: «Alla rampa è di turno don Roberto. Quando avremo attraccato le tre balene verrà a dirigere la macellazione».
«Le tre balene…» ripeté Yáñez, e il suo cuore si colmò di rabbia e vergogna sentendo quell’insolito numero. «Tre balene dopo quasi una settimana di caccia!»
Quando la barca finì di agganciare la terza balena al bordo dello scivolo, apparve in alto, tra la piattaforma inclinata e quella della rampa, un uomo corpulento come un capodoglio, sui cinquant’anni. Salì su una pedana da cui dominava la situazione dalla manovella dell’argano alla fine della rampa fino al bordo dello scivolo, dove stavano i cetacei. Tirò su le maniche del grosso giaccone di pelle, e come un direttore d’orchestra che si dispone a cominciare una sinfonia, mosse le braccia e le mani da una e dall’altra parte.
«Siete pronti con la tenaglia?» urlò, proprio mentre l’argano prese a cigolare mandando sbuffi di vapore. Sulla rampa cominciò a scivolare la «tenaglia», un marchingegno di ferro di varie tonnellate dotato di due enormi pinze, simili a quelle di un granchio. Un braccio meccanico inserito nel martinetto di ferro al bordo dello scivolo spostò la tenaglia accanto alle balene. Tutta la manovra veniva diretta da Roberto Aravena, l’addetto alla rampa, che con una mano dava ordini all’argano e con l’altra a quelli della barca che sistemarono il «granchio», come loro chiamavano la tenaglia, sopra la coda di una delle balene, sui cui moncherini si chiusero le pinze della tenaglia.
L’argano cominciò ad avvolgere il grosso cavo d’acciaio e l’enorme mole del cetaceo, con le sue ottanta o più tonnellate, venne trascinata lungo lo scivolo fino alla piattaforma della rampa. Il cavo era teso come la corda di un violino. Al minimo errore, se si fosse staccata la tenaglia, l’impatto di quelle tonnellate di ferro sarebbe stato l’equivalente di un colpo di obice su uomini e strutture. Era questa la responsabilità di Roberto Aravena, e di ognuno degli uomini ai suoi ordini, poiché dall’abilità di ciascuno dipendeva la vita di tutti.
Una volta che il cetaceo venne piazzato come un vagone ferroviario sulla piattaforma della sua stazione, due macellatori cominciarono a fare dei buchi con i coltelli nei fianchi dell’animale, come quelli che si praticano in una roccia a picco per potersi arrampicare. Così salirono aggrappandosi con mani e piedi fin sulla cima della scivolosa collina. I loro stivali avevano dei chiodi acuminati nelle suole per fare presa. Brandendo grossi e affilati coltelli ricurvi con un manico lungo un metro e mezzo, iniziarono a tagliare parallelamente e in contemporanea una striscia di pelle e grasso larga circa cinquanta centimetri dalla testa fino alla coda.
«Spingi più a fondo quel coltello, che il maestro l’ha affilato per quello!» gridò Aravena, vedendo che uno di loro non affondava bene la lama ricurva.
A quel punto si trasformarono in due abili chirurghi che con bisturi giganteschi tracciavano i tagli di un’operazione, o piuttosto sembravano due battitori di grano, visto che la lama ricurva entrava nel grasso con un rumore sordo.
I due coltelli continuarono a tagliare paralleli attraverso lo strato di grasso, spesso quindici centimetri, fino alla coda. Poi incisero nella lunga striscia una sorta di occhiello all’estremità dalla parte della testa, e continuarono nello stesso modo a tagliare altre strisce. Quindi, un sistema di cavi azionati dall’argano portò fin lì un gancio che venne infilato nell’occhiello, il cavo prese ad avvolgersi e la striscia di grasso si staccò dalla testa fino alla coda, come una buccia di banana. La carne viva rimase allo scoperto come una gigantesca piaga esposta alle intemperie. Bolle di grasso si mescolavano al sangue su quella mole dissodata più o meno a metà. Poi, usando altri ganci e funi voltarono l’animale, che venne smembrato allo stesso modo fino alla fine. Le strisce, a loro volta, furono divise in altre strisce di tre metri, e gli addetti al grasso, con i ganci di acciaio lunghi mezzo metro, punta acuminata e manico di legno, raccoglievano quei pezzi e li gettavano nelle bocche delle cucine, sorta di cloache aperte sul livello della rampa, e che erano i paioli dove il grasso veniva sciolto su fornelli di mattoni alimentati a carbone.
Si continuò a macellare la carne della balena, e infine le ossa furono portate alle segherie e tagliate per la cottura e l’estrazione dell’olio. Solo il grosso stomaco e altre viscere vennero gettate in mare, per diventare banchetto di skúas e petreles.
In quel momento, dai Fuelles de Neptuno, entrò qualcosa di simile a due grandi elmetti neri da pompiere, che si tuffavano e riemergevano in superficie allo stesso ritmo, mostrando una pinna lucente in mezzo al dorso ricurvo. Erano due orche, i mammiferi più voraci e crudeli dell’oceano, chiamate anche «balene assassine», lunghe tra gli otto e i dieci metri che, attirate dall’odore del sangue, venivano a partecipare al banchetto. Passarono muovendosi in sincronia, con lo stesso ritmo elegante, sotto la poppa della Leviatán, e si lanciarono sulle viscere che in pochi istanti scomparvero sott’acqua provocando lo stridio degli uccelli, per loro fortuna in salvo nell’aria, giacché le orche, in due, quattro o cinque, sono solite assalire persino grandi gruppi di pinguini per sterminarli.
L’argano continuava a stridere come un grasso maiale ferito per la macellazione della seconda balena finback. Era come se al meccanismo dolesse la maniera in cui venivano staccate le lunghe strisce di carne dai cetacei. Nel relativo tepore della fossa vulcanica, i fuochi accesi dall’uomo tra i ghiacci innalzavano l’atmosfera con i loro vapori oleosi, come se tutto quello fosse un immenso paiolo nella terra, sopravvissuto all’ultima era glaciale del pianeta, migliaia di anni addietro. Il destino dell’uomo, attraverso le epoche, era cambiato da quando, povero infelice primitivo, doveva andare dietro alla tigre dalle zanne a sciabola per mangiarsi la carogna abbandonata dalla belva, e oggi invadeva quei ghiacci millenari a caccia del cetaceo, la cui carogna veniva adesso divorata dalle audaci tigri del mare, le orche, i suoi parenti assassini…
«Com’è andato il lavoro?» chiese il pilota Yáñez, sbarcando sulla rampa.
«Ci mette più una massaia a spennare una gallina che noi a macellare una delle vostre balene!» rispose Aravena, sorridendo maliziosamente, e aggiunse: «Cosa vi è successo?»
«Niente… ad Albarrán è saltato in mente di andare a caccia di pinguini nell’arcipelago di Melchior. Quelle maledette isole laggiù, dove il diavolo ha perso il mantello.»
«Peccato», disse l’addetto alla rampa, e aggiunse: «La Bellerofonte, che è salpata ieri, ha portato quattro balene azzurre che superavano il peso di mezza dozzina di queste. Temo che Albarrán abbia perso il record del tonnellaggio».
«Ma nessuno ci ha ancora tolto quello del numero di balene cacciate», puntualizzò il pilota, difendendo la sua nave.
«Sì, però quello che interessa alla Compagnia è il tonnellaggio… E se continuate così…»
«Senta, Aravena, siamo in tredici a bordo», disse il pilota, affrontando il problema che lo aveva portato a terra.
«Buttatetene uno a mare…»
«Chi?»
«Lei come secondo conosce meglio di me i suoi uomini… Qualcuno che sta diventando vecchio… Sulle baleniere serve solo gente giovane… Anch’io andavo in giro ad arpionare, e mi sono ritirato in tempo per occuparmi di questo.»
«Il brutto carattere di Fabián fa scappare tutti gli aiutanti di cucina.»
«Allora buttate a mare lui.»
«È il miglior cuciniere della flotta. Avesse visto come ha preparato quei pinguini a Melchior; sembravano anatre farcite.»
«Va bene… e allora?»
«Volevamo chiederle un favore.»
«Cosa?» chiese distrattamente l’addetto alla rampa, mentre continuava a seguire con un occhio il lavoro dei suoi uomini.
«Uno dei barcaioli, Pedro Nauto, vuole imbarcarsi.»
«Quel ragazzo è il migliore della barca. È un buon marinaio… E con chi lo rimpiazzerei? Mi dà uno dei suoi?»
«Non si può; la gente è superstiziosa e non sopporta l’idea di essere in tredici a bordo… Tutti non fanno che ricordare il monolite che c’è nel cimitero.»
Il pilota si riferiva a un obelisco di marmo nero nel piccolo cimitero dell’isola, su cui erano incisi i nomi dei tredici uomini d’equipaggio di una baleniera norvegese scomparsa nel 1912.
«Sono solo fesserie… Fate sbarcare qualcuno. Magari Fabián con la vecchiaia ha cambiato gusti, e adesso gli piace farsi i ragazzi e così porta scalogna alla nave.»
«No; lei sa bene che queste cose non succedono a bordo di una baleniera. Fabián è un vecchio macho.»
«Perché le donne, i frati e gli invertiti portano sfortuna alla caccia quando salgono su una baleniera… Questo lo sanno tutti… Si ricorda di quello svedese pazzo che si mise in testa di portare la moglie con tanto di pianoforte a bordo della nave?»
«Johansen.»
«Johansen o Jansen… non so come si chiamava.»
«Dicono che lei fosse una principessa russa scappata con lo svedese da Vladivostok, quando Lenin prese il potere.»
«Ma quale principessa! Per me era una polacca di calle Errázuriz a Punta Arenas! Il fatto è che lo svedese non riusciva più a prendere nessuna balena e la Compagnia è stata costretta a farli sbarcare pianoforte e tutto.»
«Bene… però il nostro caso è che siamo tredici uomini a bordo.»
«Lei, un uomo giovane, che crede a simili fesserie!»
«Io non ci credo, ma lei cosa farebbe con quelli che ci credono?»
«La Compagnia dovrebbe sbarazzarsi di Albarrán, che sta diventando vecchio, e nominare lei capitano della nave.»
«Non si tratta di un capitano, Aravena; si tratta di un semplice mozzo di cucina.»
«Quel ragazzo è qualcosa di più che un mozzo. È venuto fin qui come timoniere su una delle navi comprate alla Compagnia di Caleta Samuel, sull’isola Guafo.»
«Allora, come rimaniamo… Lascia che questo Nauto venga a bordo o no?»
«Va bene, che il ragazzo si imbarchi pure; ma deve parlarne con mister Hansen. È lui che comanda in questo genere di cose; e sempre che ci sia qualcun altro per rimpiazzarlo sulla barca.»
«Qui a terra fate a gomitate da quanti siete; a bordo, invece, manca sempre gente.»
Il pilota si recò subito nell’ufficio dello stabilimento; era una piccola saletta adiacente al magazzino dei viveri e dei materiali.
Lì c’erano Hansen, che fungeva da amministratore, insieme al tipo che teneva i conti delle spese e della produzione, Andrade, e che svolgeva anche le mansioni di magazziniere nello stabilimento.
Hansen era un uomo alto, brizzolato, dal volto abbronzato e gli occhi grigi, nei quali si mescolavano riflessi di bontà e malizia; Andrade, un chiloese di media statura, taciturno, con sufficiente forza d’animo per tenere la contabilità tra gli iceberg. Stavano discutendo della resa di olio delle ultime consegne di balene fatte dai cacciatori. Era in vantaggio la Wollapatuch, con equipaggio interamente norvegese, che aveva consegnato tra le altre un’alfaguara le cui dimensioni avevano attirato l’attenzione di Hansen, al punto da farne pesare i principali organi, più per curiosità che per spirito di ricerca.
«Mostrate al pilota i dati dell’alfaguara», disse il gerente dopo averlo salutato.
«I norvegesi sono passati in vantaggio sul capitano Albarrán», commentò il contabile, rivolto al pilota, mentre gli metteva davanti agli occhi un registro bisunto.
Sul quaderno, sorta di diario di bordo dello stabilimento baleniero, Yáñez lesse i seguenti dati:
Lunghezza | 30 | metri |
Altezza | 3,50 | ” |
Circonferenza | 16 | ” |
Lingua | 3.500 | chilogrammi |
Polmoni | 1.400 | ” |
Cuore | 700 | ” |
Reni | 600 | ” |
Fegato | 1.200 | ” |
Cranio | 5.000 | ” |
Colonna vertebrale | 11.000 | ” |
Costole | 5.000 | ” |
Il peso totale di questa balena azzurra, grasso, carne, viscere, ecc., si calcola in 135.000 chilogrammi.
«Noi all’inizio della stagione abbiamo portato un’alfaguara che superava i trentun metri e a nessuno è venuto in mente di pesare le sue palle», sbottò Yáñez con sarcasmo.
«Sì, era un maschio magnifico. Di quelli che se ne restano solitari tra i ghiacci del polo. Me lo ricordo…» aggiunse Hansen.
«Però non ha preso le misure come con quella che hanno preso dei norvegesi…»
Hansen rimase a fissare il pilota come se non capisse; ma in fondo in fondo capiva perfettamente: forse aveva commesso un errore nel classificare l’esemplare catturato dalla Wollapatuch, dopo aver tralasciato il maschio azzurro della Leviatán. Era successo agli inizi della stagione; lo stabilimento cominciava a organizzarsi e non c’era tempo, solo per questo non l’aveva fatto; non certo per esaltare il lavoro dei norvegesi. Stimava i cileni, e soprattutto quelli di Chiloé, almeno quanto gli uomini della sua razza.
«Lei sa, Yáñez, che io non faccio favoritismi», disse al pilota.
«Sì, lo so; però avrebbe dovuto prendere più in considerazione quel maschio azzurro che abbiamo catturato.»
«Mi è sfuggito, glielo confesso. Per me non ci sono cileni, o norvegesi, ma solo balenieri, e se ho separato due navi dalle altre, la Wollapatuch e la Moloch, fornendole di equipaggi esclusivamente norvegesi, lei sa bene perché l’ho fatto, visto che è stato a bordo di una delle due.»
«Certamente; i gringos non ci capivano quando si trattava di compiere le manovre rapidamente.»
«Era solo per la lingua, Yáñez. Se esistesse un’unica lingua universale, avremmo tutti la stessa anima.»
«Non era solo per la lingua… I gringos si credevano superiori a noi e ci trattavano come trattano gli indios. Me ne sono reso conto fin dall’inizio, quando facevo il pelapatate. Le litigate che scoppiavano a quei tempi: certe volte lasciavamo andare la balena per prenderci tutti a pugni, tra cileni e norvegesi.»
«È per questo che ho dovuto separare i norvegesi mettendoli su quelle navi.»
«Ma io sono venuto qui per un’altra cosa…»
«Quale?»
«Siamo in tredici a bordo, signor Hansen, gli uomini sono superstiziosi e credono che questo numero ci abbia portato sfortuna nella caccia alle balene. Sono tutti nervosi, dal capitano al cuciniere, specialmente quest’ultimo, che continua a chiedere un mozzo di cucina.»
«Ne ha avuti due e se ne sono andati perché li trattava male.»
«Il tipo è vecchio, un po’ andato con la testa, ma è un buon cuciniere. Non possiamo lasciare a terra nessuno.»
«E cosa propone?»
«C’è un ragazzo tra i barcaioli che vuole imbarcarsi.»
«Per questo decide l’addetto alla rampa.»
«Ne abbiamo già parlato, anche con il ragazzo. Dipende solo da lei ordinare l’immediato trasbordo.»
«E perché Albarrán non è sceso a terra?»
«Cosa scende a fare! Se la passa chiuso in cabina con la sua rabbia, soprattutto dopo che ha saputo di essere stato superato nel record di tonnellaggio! Comunque io sono il secondo a bordo, e ho la responsabilità degli uomini.»
«Quando salpate?»
«Domani, appena finito di caricare carbone e viveri.»
«Dica al capitano che venga a mangiare da me stasera… cioè, che venga alle otto e mezzo, perché se aspettiamo che faccia buio dovremmo mangiare dopo mezzanotte… e venga anche lei, pilota; apriremo una scatoletta in più di filástica», disse Hansen, riferendosi alla carne in scatola, chiamata così nel gergo dei balenieri.
Lo stabilimento sull’isola Decepción, l’unico nell’Antartide, era stato installato dalla Compagnia Baleniera di Magellano all’inizio del secolo; ma con la Grande Guerra era stato fatto saltare in aria, presumibilmente dalle navi da guerra tedesche che compivano incursioni sulle isole Malvine. Adesso, nel 1920, era stato ricostruito e attrezzato grazie allo spirito imprenditoriale di Carlos Hansen, che era riuscito a convincere alcuni capitalisti della regione magellanica a investire il loro denaro nell’avventura che quasi sempre rappresenta un’impresa baleniera. Hansen amava qualsiasi lavoro avesse a che fare con il mare. Gli sarebbe piaciuto essere marinaio, pilota o capitano sui velieri; ma il padre, un pescatore di aringhe nella sua terra natale, voleva che diventasse medico, e l’aveva mandato all’Università di Oslo, dove non aveva potuto terminare gli studi per la morte prematura del genitore. Un tentativo di fare il colono allevatore sulla penisola Pasteur, nei pressi di Capo Horn, gli aveva permesso di conoscere quelle regioni come il palmo della mano, e la sua ambizione era sempre stata andare a vedere cosa vi fosse al di là, dietro i tempestosi orizzonti del canale di Drake.
Come l’immenso ossario sui fondali dell’arcipelago di Melchior, del passato baleniere dell’isola Decepción rimaneva un rustico cimitero su una piana di sabbia nera, dove riposavano le ossa di alcuni audaci che avevano perso la vita laggiù. Si trattava di una manciata di tombe le cui croci erano state abbattute dalle raffiche di vento. Una di esse conservava ancora, al posto della lapide funeraria, un oblò di nave, e sotto il vetro si poteva vedere intatta una rosa di stoffa scolorita dalla luce del sole. Al centro dell’insolito camposanto si innalzava una colonna di marmo nero su cui si potevano leggere i nomi di Kristian Walbo, Evensen, Karsten Marka, Alfred Hansen, Albert Johansen, Thorstein Trodsen, Erling Hansen, Karsten Andersen, Ruben Larsen, Haakon Strand, e altri i cui nomi erano stati cancellati dall’impietosa erosione delle intemperie. Ma le loro ossa non riposavano in quel sottosuolo vulcanico, perché, come i cetacei di Melchior, erano andate a decorare le erranti profondità marine: si trattava infatti dell’intero equipaggio di una baleniera della quale non si erano più avute notizie.
4
I quattro uomini si sedettero al tavolo dove l’amministratore e il contabile erano soliti cenare. Era una stanza piccola vicino al capannone in cui mangiavano tutti i balenieri dello stabilimento.
«Oggi non farò l’errore di domandarle come è andata la caccia né che tempo avete trovato nell’ultima battuta», disse Hansen, facendo accomodare gli invitati, e aggiunse: «Non so in quale libro ho letto che nelle navi da esplorazione del Polo Sud si concedeva il permesso di parlare solo un’ora al giorno su argomenti come politica e religione… e generalmente dopo pranzo, perché tali idee provocano meno esaltazione con lo stomaco pieno…»
«A bordo non si parla mai di balene, le cacciamo soltanto», disse Albarrán. «E quando quelli a terra ci fanno domande, rispondiamo una cosa qualsiasi e loro se la bevono…»
«È per questo che Buffon si è sbagliato nel descrivere le vostre abitudini.»
«Chi era questo Buffon?» chiese Yáñez.
«Un naturalista francese, il più grande della sua epoca. Le sue conoscenze riguardo il cetaceo erano basate su racconti di balenieri, e sembra che questi fossero alquanto fantasiosi.»
«Un buon baleniere non deve mai raccontare dove e come caccia le sue balene», disse Albarrán.
«Sempre che non sia sul mare di Bellingshausen», sottolineò maliziosamente Hansen.
«Stavolta ci è andata male; ma se ne accorgerà il giorno che dovrà mandare altre navi per rimorchiare le balene, quando riusciremo a intercettare i branchi che girano dalle parti di Melchior», ribatté il capitano.
«Per ora, abbiamo preso solo tre finback che se ne stavano sulla porta di casa.»
«La quarta si è rivelata un osso duro e mi è scappata grazie al buio.»
«Perché alcune balene viaggiano in coppia e altre in branco?» chiese il contabile.
«Le più piccole vanno sempre in branco e quelle grandi in coppia; soprattutto quando sono in amore o la femmina sta per partorire», spiegò il capitano.
«Le balene si innamorano?»
«Sì, si accoppiano qui nell’Antartide e vanno a partorire al nord, dove le acque sono meno fredde.»
Nonostante l’avvertimento di Hansen, l’argomento dei quattro commensali rimase quello delle balene. La cena veniva servita da un lavorante della mensa, e al posto della carne di bufalo o di maiale, c’era pernice in scatola, vino bianco e pesche come dolce. Ogni tanto, l’amministratore festeggiava i suoi capitani arpionieri, offrendo il meglio della sua dispensa.
«Quel che più mi dispiace di Buffon», disse Hansen, riprendendo l’argomento, «non è il fatto che si sia sbagliato sulle balene, ma che abbia dovuto ritrattare le sue teorie per via dei pregiudizi della sua epoca, benché più tardi siano state confermate dalle scoperte scientifiche. Dovette farlo davanti alle autorità della Chiesa, che non accettavano che gli esseri viventi non avessero origini divine.»
«Se Dio non avesse creato la balena, non ci sarebbero neppure i balenieri», fu il commento di Yáñez.
«Per essere precisi è a Geova che dobbiamo la prima descrizione di una balena, o meglio un mostro marino il cui nome è lo stesso che porta la sua nave», disse Hansen.
«Leviatán?»
«Sì, ho preso quel nome dalla Bibbia, e se voi mi permettete, vi mostrerò perché», disse l’amministratore, alzandosi per andare nella sua camera, attigua alla sala da pranzo.
Tornò con una Bibbia in una mano e una bottiglia di whisky nell’altra.
«Questa Bibbia è quella protestante», disse mentre riempiva i bicchieri, «la religione dei miei genitori e in cui sono stato cresciuto anch’io… Vediamo, vediamo un po’, ecco qui, nell’Antico Testamento, si trova nel libro di Giobbe», aggiunse sfogliandola, per poi mettersi a leggere alcuni versi, mentre tutti bevevano whisky:
Catturerai tu il leviathan con l’amo, o con la corda che gli getterai sulla lingua?
Pianterai tu il rampino nelle sue narici, e perforerai con le spine la sua mandibola?
Faran di lui banchetto i compagni, dividendolo tra i mercanti?
Taglierai tu con il coltello la sua cotenna, o con l’asta da pescatore la sua testa?
Appoggia la tua mano su di lui; ti ricorderai della battaglia, e mai più farai ritorno.
Dalle sue narici esce fumo, come da una pignatta o da un paiolo che ribolle.
Nella sua cervice dimora la forza, e si diffonde lo scoramento davanti a lui.
Il suo cuore è solido come una pietra e forte come la macina.
«È la descrizione del Leviathan fatta da Geova a Giobbe; è più lunga, ma io ho preso solo le frasi che ci ricordano ciò che cacciamo.»
«Assomiglia di più a un capodoglio», commentò Yáñez.
«Chi lo sa… la Bibbia a volte è un poema confuso e bisogna interpretare le verità», replicò Hansen, e sedendosi comodamente nella sua poltrona continuò a parlare senza sosta, come se stesse impartendo una lezione: «La verità è che nessuno sa niente di preciso sull’origine della balena, che si confonde con il passato insondabile del pianeta… Da una parte sono, come le foche, dei mammiferi. Alcuni hanno fissato la loro presenza geologica milioni di anni fa e ritengono che discendano direttamente dai carnivori primitivi del terziario, i cosiddetti creodonti, che si estinsero per l’energica concorrenza di altri animali cerebralmente più dotati. A volte, più un essere è rozzo, più è forte; ma al tempo stesso può perire per mancanza di intelligenza. Ci sono pesci, come la rana pescatrice di scoglio, ai quali si può colpire la testa con una pietra, aprirli, tirar fuori le viscere e ancora continuano a vivere. Voi avrete constatato che muoiono solo quando vengono gettati in una padella con olio bollente. Lo squalo è un animale rozzo, ma dotato di tanta vitalità che divora le sue stesse viscere, come facciamo noi succhiando il nostro sangue quando ci siamo feriti; se lo si butta in mare dopo avergli strappato il cuore, continua a nuotare, e può vivere varie ore anche con la testa mozzata; tuttavia, il suo cervello è piccolissimo, e benché avido e vorace, è straordinariamente stupido, tenuto conto che è solo un pesce e non un mammifero. Non avete visto le foche ’granchiaiole’ quando hanno le mestruazioni come tingono di rosso il ghiaccio su cui riposano? Sono mammiferi che possono respirare aria in superficie; altrimenti, affogano. Le balene hanno la proprietà di trasformare l’acqua di mare in acqua dolce e la bevono come facevano i loro antenati sulla terra ferma. Probabilmente dopo molte generazioni carnivore, alla foce dei fiumi o in riva al mare, hanno prodotto questi discendenti che sono penetrati nell’oceano senza tornare più a terra. Pensate che persino il coccodrillo può nuotare sott’acqua con la bocca aperta, senza che l’acqua entri nei polmoni.»
«I buoi bevono acqua perché hanno la pelle dura, ma noi che abbiamo il whisky…» intervenne il contabile, bevendo un sorso.
«Di tutti gli animali, a eccezione dell’uomo», continuò Hansen, «è l’ordine dei cetacei, che sta molto al di sopra delle scimmie, quello che possiede il cervello più sviluppato, con le ramificazioni più estese. Attualmente abbiamo ancora delle specie anfibie, come il dugongo o bue marino, alla foce del Rio delle Amazzoni e dell’Orinoco, che a volte si trova nel mare dei Caraibi o delle Antille; anche questo discende da animali terrestri. La femmina del bue marino ha le mammelle, e quando allatta tiene la testa dritta e spinge il petto fuori dall’acqua, stringendo la sua creatura con le pinne. Probabilmente è questo ad aver dato origine alla leggenda delle sirene, perché a una certa distanza appare simile a una figura umana e sembra una donna che allatta il figlio.»
«Che proporzioni hanno i piccoli della balena alla nascita?» chiese il contabile.
«Da sei a sette metri. Altri, come i figli della Balaenoptera borealis, quando nascono misurano solo quattro metri; da sei a sette anche quelli della finback, e sui cinque metri quelli della Megaptera longimana. Quello del capodoglio è il più piccolo e misura dai tre ai tre metri e mezzo. La gravidanza dura dodici mesi, e poi devono trascorrere uno o due anni prima che tornino ancora fertili. Le balene azzurre sono monogame, e il maschio accompagna la femmina fino al momento del parto. I capodogli sono poligami, e per questo si muovono in branchi guidati da un solo maschio. Quando questo diventa vecchio, i capodogli più giovani lo attaccano, e il più forte rimane con le femmine.»
«Al nord c’erano periodi in cui cacciavamo solo femmine», sottolineò Albarrán.
«Quando sono in calore, i branchi di femmine vengono dal nord e i maschi dal sud», spiegò l’amministratore.
«E come fanno i figli?» chiese il contabile, con malizia.
«Si accoppiano verticalmente.»
«Io non potrei giurarlo; ma ho visto più di una volta una coppia saltare fuori dall’acqua come due delfini e poi ruotare come una tromba marina tra le onde», aggiunse Albarrán.
«Io ho visto solo come lo fanno le foche femmine sulla spiaggia; si mettono di schiena, praticamente sepolte, che a malapena si vede la testa, mentre il maschio si dà da fare stando sopra», disse il pilota Yáñez.
«Insomma, credo sia più salutare non preoccuparsi troppo di tali aspetti a queste latitudini», avvertì Hansen.
«E cosa mi dice del tanto menzionato plancton, che non sono mai riuscito a capire bene di cosa si tratti?» domandò il pilota.
«Il plancton, amico mio, è costituito da innumerevoli animaletti microscopici che galleggiano sulla superficie delle acque e possono formare uno strato profondo più o meno duecento metri, cioè fin dove arrivano i raggi di luce solare con la loro efficacia creativa. Dunque, la luce e gli elementi minerali fanno sì che crescano le piante e i minuscoli animali del plancton. I sali nutritivi del primo strato di acque subpolari, per esempio, sono continuamente reintegrati da sorgenti che emergono dalle profondità. Fosfati e azoto sono i componenti di maggior importanza nello sviluppo del plancton. L’azoto costituisce la base delle molecole del protoplasma che compone ogni organismo vivente. Solo i composti dell’azoto sono utili nel processo di fotosintesi, l’azione della luce che dà la vita tanto in mare quanto sulla terra. L’insieme di tutte queste sostanze vitali si trova in enormi quantità negli strati di acque subpolari. In quantità analoghe si trova solo nelle zone di acque sorgive delle correnti di Humboldt, in Sudamerica, e del Bengala, in Africa. In primavera le acque fredde scendono e quelle tiepide ricche di sali salgono. Il ferro e la silice, trasportati in mare dagli iceberg e dallo scioglimento dei ghiacci, servono da base anche per lo sviluppo di piante e organismi del plancton. Nella corrente di Humboldt, che costituisce una diramazione della corrente generale antartica, e che percorre i litorali di Cile, Perù ed Ecuador, fino alle Galápagos, questi elementi nutritivi vengono trasportati dai fiumi della cordigliera delle Ande e dalle sorgenti sottomarine di acqua dolce proveniente dall’immensa catena montuosa. Come voi sicuramente saprete, questa corrente nel raggiungere il 20° parallelo si allarga, allontanandosi dalla costa, e arrivando al 5° parallelo, si dirige verso ovest e nordovest formando due correnti secondarie che poi si uniscono con la corrente equatoriale. La larghezza maggiore della corrente di Humboldt è di centocinquanta miglia e avanza a una velocità tra dieci e quindici miglia al giorno. Potremmo definirla il vivaio più lungo e fertile che vi sia in mare.»
«Proprio così» confermò Albarrán. «Dove il mare perde il colore verde bottiglia e diventa interamente blu, non ci sono più balene.»
«Le balene dotate di fanoni seguono gli spostamenti del plancton in quelle zone più fertili», continuò Hansen. «Le acque del mare di Bellingshausen, situate a ovest della Terra di Graham, sono povere di minerali rispetto a quelle del mare di Weddell, che costeggia il lato est.»
Il pilota Yáñez guardò il capitano; ma questi, cogliendo con la coda dell’occhio lo sguardo malintenzionato, fece finta di nulla. Entrambi avevano pensato alla battuta fallimentare nell’arcipelago di Melchior.
«Io ho personalmente rastrellato, a bordo di una baleniera, il mare di Bransfield e nelle vicinanze delle isole Shetland del Sud, ed è così scarsa la vita vegetale e animale, da ricordare i deserti terrestri. Le balene vanno, dunque, dietro alla Limacina antartica e soprattutto alla Euphasia superba, un gamberetto non più lungo di due centimetri, che inghiottono a tonnellate; è questo minuscolo crostaceo a permettere la sopravvivenza della grande balena con i fanoni, e lei passa la vita a cercarlo.»
«Come noi la passiamo dietro alla balena», commentò Yáñez.
«Sì, solo che quella va dietro al più piccolo, secondo le regole sulla terra e in mare, e noi, gli uomini, dietro al più grande.»
«Quanto vive una balena?» chiese il contabile.
«Dai cinquanta ai cento anni.»
«E mi dica una cosa, mister Hansen, perché diamine ha messo quei nomi così astrusi alle navi della flotta?»
«Bellerofonte era figlio di Poseidone, il dio greco del mare, che uccideva i mostri; Diana, la bella dea cacciatrice; Moloch, un dio slavo che esigeva sacrifici umani; Wollapatuch, il dio degli indios del canale Beagle, che ho avuto modo di conoscere a fondo quando ho vissuto vicino a Capo Horn. Quegli indios yagán credevano che il primo uomo fosse sceso dal cielo sulla terra lungo una corda in pelle di foca, e Wollapatuch nella loro lingua significa Grande Assassino, forse perché non era in grado di preservarli dalla morte.»
«Tutti gli dei che lei ha nominato, a quanto pare, avevano qualcosa degli assassini», sottolineò Albarrán.
«Credo che gli uomini abbiano sempre creato gli dei un po’ a loro immagine e somiglianza.»
«E anche i loro mostri», aggiunse il contabile, che aveva continuato a leggere il libro di Giobbe. «Qui dice, per esempio, proseguendo con la descrizione del Leviathan:
Il valore del suo rivestimento sta negli scudi forti, chiusi strettamente tra loro.
L’uno si unisce all’altro, così che il vento non vi passa attraverso.
L’uno sta attaccato all’altro, sono legati tra loro, che non si possono dividere.
Il suo alito incendia i carboni, e dalla sua bocca escono fiamme…
«Manca solo il capitano Albarrán, solo lui, che spara il suo dardo di fuoco contro la più grande ma inoffensiva bestia del creato…» concluse il contabile, mandando giù un altro sorso di whisky.
Hansen fece un’espressione soddisfatta per l’uscita del suo contabile, con cui era solito discutere di tanto in tanto questioni di religione o di politica.
«È per questo che ho messo quel nome alla nave… In quelle righe mi sembra di vedere le plance della Leviatán, attraverso le quali non penetra il vento, chiuse strettamente tra loro dai bulloni, e i fuochisti che accendono i carboni sotto i paioli… È tutto un simbolo il nome di quella nave!» esclamò Hansen, e bevuto anche lui un sorso di whisky, riprese con entusiasmo: «Non siamo forse noi quelli che se ne stanno ben protetti nel ventre del mostro? Siamo il cervello e il suo cuore, e corriamo sicuri sul suo dorso fino al cannone arpioniere per lanciare la nostra fiamma mortale dalla sua bocca! Sì, l’uomo sembra un mostro che prima ha creato il Leviathan nella propria immaginazione, e, poi, costruendolo con le sue mani, lo ha fatto diventare una realtà!»
«Sarebbe bene che un giorno costruisse con le sue mani anche Dio», disse il contabile.
«O il Grande Architetto, come voi liberi pensatori chiamate il vostro Dio», ribatté con ironia Hansen.
«Io non ho altro Dio che le mie mani…» esclamò Albarrán, in disparte.
«Lasciamo in pace Dio», aggiunse il pilota.
«Diteci, mister Hansen, anche le balene dormono?» domandò in tono allusivo il contabile.
«Sì, di notte dormono ogni tre ore, stando in superficie…»
«Allora si potrebbe andare a cacciarle come si fa con i gronghi…»
«Hanno un udito molto fine, e al minimo rumore si svegliano.»
«Dormono quasi quanto noi quando montiamo di guardia in mare», disse Yáñez.
«Anche a terra si è soliti dormire a orari determinati…» aggiunse il contabile, ribadendo l’intenzione di porre fine alla chiacchierata dato che anche la seconda bottiglia di whisky era ormai vuota.
«Sembra che abbiamo infranto il regolamento…!» esclamò Hansen, cogliendo l’allusione.
«E come avete risolto la faccenda del ragazzo da imbarcare per dare una mano in cucina?» chiese a un tratto Albarrán.
«Ho già ordinato il trasbordo, capitano. Domattina presto lo avrà sulla sua nave. Spero che così finisca la vostra sfortuna!» rispose ridendo l’amministratore, mentre i due ufficiali della Leviatán si alzavano per andarsene.
«Io non credo a simili fesserie, ma a volte bisogna dar retta alla gente», ribatté Albarrán.
Fuori, una luna crescente splendeva sulle vette innevate a nordest nell’immenso cerchio montuoso dell’isola Decepción. Una luna che procedeva a passo spedito tra varchi di nubi ovattate, la cui presenza su quella parte del globo terracqueo sarebbe stata anch’essa molto breve.
Arrivando sul bordo dello scivolo per le balene, il capitano Albarrán tirò fuori il suo caratteristico fischietto nichelato, e fischiò, come uno strano uccello notturno, chiamando la scialuppa della baleniera.
«Quel che si dice conoscere le cose… stanotte ho imparato molto di più sulle balene con mister Hansen che in tutta la mia vita di cacciatore!» disse il pilota.
«Sono cose buone per i libri… Se uno desse retta a tutto questo, non riuscirebbe neppure ad arpionare tranquillamente una balena», rispose il capitano.
«Però quell’uomo ne sa, sulle balene…»
«Lui per ciò che ha letto, e io per quello che ho cacciato.»
5
Una ventina di uomini dormivano già profondamente quando Pedro Nauto andò a coricarsi. Il dormitorio era un semplice capannone di lamiera ondulata con letti a castello addossati alle pareti. Qualcuno che russava o respirava pesantemente animava il locale desolato, come se quei corpi non trovassero riposo neppure nel sonno.
Mezzo vestito, il ragazzo raggiunse la sua branda sopraelevata. Erano da poco passate le otto di sera della stagione estiva, che a quelle latitudini cala realmente con il buio verso la mezzanotte. Un chiarore lattiginoso filtrava attraverso le finestrelle che illuminavano debolmente il capannone e da qualche buco nei punti in cui le vecchie lamiere di zinco erano state inchiodate. Sopra la branda le lamiere erano arrugginite e diffondevano una penombra rossastra come se riflettessero un fuoco, ma rendevano più acuti gli spifferi freddi che entravano da tutte le parti. La paglia dei giacigli era umida, e ciò costringeva la maggior parte dei lavoranti dello stabilimento ad andare a letto vestiti.
Non si sentiva stanco, dato che il lavoro di rimorchiaggio non era stato molto. Dopo aver ormeggiato la barca, erano andati a mangiare carne arrostita di finback, la più saporita tra le balene commestibili, a patto che la carne venga tagliata con un coltello che non abbia neppure sfiorato il suo grasso. Una buona tazza di caffè caldo lo aveva rimesso in sesto, tanto che non sentiva alcuna voglia di dormire.
Pensava che sarebbe stata la sua ultima notte a terra, ed era contento. La vita nello stabilimento era molto dura, non riusciva quasi mai ad asciugarsi, con quelle raffiche di vento umido che non portavano il freddo secco del ghiaccio né quello del mare per la temperatura della fossa vulcanica semispenta; l’alloggio era pessimo e spesso anche il mangiare.
A bordo di una baleniera, con un buon capitano che si preoccupasse dei suoi uomini, tutto questo sarebbe cambiato. C’era più cameratismo, solidarietà tra l’equipaggio. Inoltre, cominciava a stancarsi di rimorchiare balene morte, e, poi, di dover gettare le interiora con le feci in mare aperto, per non aumentare il già insopportabile odore prodotto dai lavori di macellazione e dalle emanazioni dei calderoni che scioglievano il grasso.
Come chi si accomiata da una tappa della vita per affrontarne un’altra, cominciò a ricordare alcuni avvenimenti da quel giorno in cui si era imbarcato sulla baleniera di passaggio da Quemchi. Pensò che se non si fosse ritrovato in mezzo a quella rissa davanti all’«ufficio di collocamento» di don Sixto Mansilla, tra quelli della Nelson e quelli della Pingüino, forse sarebbe stato ancora a girare la manovella della pompa d’aria sulla scialuppa del palombaro José Andrade.
Tuttavia, provava ancora nostalgia per la vita sulle isole, così diversa da quella rude dei balenieri. Quei piccoli golfi tranquilli, bracci di mare e canali che si intrecciavano fra le isole serpeggianti, ricoperte di verdi campi di patate, grano e meli. Gli sembrava un paradiso se confrontato con il clima tempestoso dell’arcipelago delle Guaitecas, con la natura selvaggia dei canali magellanici e di quella regione antartica dove non spuntava neppure un filo d’erba.
Per un anno e mezzo aveva lavorato nello stabilimento baleniero di Caleta Samuel, sull’isola Guafo; in certi casi sulla stessa baleniera Pingüino, che lo aveva preso a bordo come mozzo, e in altri a terra, ovunque mancasse un ragazzo per dare una mano agli uomini più esperti nel lavoro. Sapeva ormai maneggiare un coltello norvegese, pericoloso quanto una falce a rovescio, o la pala da carbone per alimentare con pezzi di cotica di balena i fuochi dei calderoni.
Ricordò che l’isola Guafo era il pezzo di terra più desolato che avesse visto in mezzo all’oceano. Era lunga una decina di miglia e larga circa otto, e le sue scogliere alte duecentoquaranta metri cadevano a strapiombo sul mare; sulle alture, si stendeva una piana ricoperta da una fitta cresta di roveri, tiques e cipressi che il vento agitava incessantemente.
A est, tra precipizi rocciosi, c’erano alcuni moli precari per sbarcare, riparati dal mare più tempestoso della terra. In una spiaggia piatta avevano installato i capannoni dello stabilimento; era Caleta Samuel.
Ma nonostante le tempeste, forti quanto o più di quelle dell’Antartide, lì almeno si scorgeva il verde della vita vegetale. Gli unici abitanti erano i tre guardiani del faro che spazzava con il suo fascio di luce la notturna superficie del mare, le cui onde superano spesso i venti metri di altezza nell’infrangersi contro le insenature. Nella boscaglia intricata vivevano anche dei cani selvatici; discendevano da qualche coppia naufragata, o si erano inselvatichiti dopo essere stati lasciati da qualche barca di cacciatori di lontre e foche rifugiatasi per sfuggire alla burrasca. A ovest, si levavano gli alti costoni a perenne baluardo contro la furia del mare, della pioggia e del vento; erosi come le giunture di un pugno ciclopico. Al di là, l’infinita solitudine tempestosa del Pacifico Australe, che a quei paralleli compie il giro del pianeta.
L’anno e mezzo trascorso a Caleta Samuel gli aveva temprato il fisico, i muscoli e persino le ossa, preparandolo a resistere alle intemperie antartiche.
Quando la nuova compagnia baleniera della zona magellanica aveva comprato una delle navi da caccia, precisamente la Pingüino, che poi avrebbe cambiato il nome in Moloch, alcuni uomini dell’equipaggio, che non volevano allontanarsi troppo dalle loro famiglie nella vicina Chiloé, avevano preferito lasciare la nave, e così si era presentata l’occasione di imbarcarsi nuovamente come aiutante di cucina e apprendista timoniere. Apprendistato che aveva ormai svolto anche troppo, poiché, se nel contratto di imbarco non figurava con la qualifica di timoniere, era solo per pagarlo meno.
Ripensò con emozione al giorno che la nave era salpata da Caleta Samuel. Il mare era agitato, e due baleniere ancorate in un punto riparato avevano salutato con le sirene l’ex compagna di flotta che intraprendeva la rotta per l’Antartide. I balenieri di Caleta Samuel si erano accalcati sul bordo della rampa, e quando la nave era sfilata davanti, molti di loro avevano agitato i berretti in segno di saluto.
Anziché attraversare il golfo di Penas e imboccare il canale Messier, la baleniera aveva preso il largo compiendo un lungo tragitto che l’avrebbe portata fino all’entrata del canale Trinidad, a metà della rotta per lo Stretto di Magellano. Durante l’intera navigazione, raffiche di pioggia su un mare increspato avevano chiuso gli orizzonti per tutta la giornata, e la notte, la baleniera sembrava un’ombra appena più densa in quell’oscura immensità.
Verso l’alba la nave aveva diminuito l’andatura avvicinandosi alla costa per trovare l’imboccatura del canale. Il giorno si annunciava con una schiarita, e quando le brume si erano dissipate avevano rivelato un paesaggio di una bellezza sconvolgente. Era come se la cordigliera delle Ande fosse franata in pezzi nell’oceano Pacifico. Un luminoso imbocco si apriva nell’impervio litorale, e lasciava il passo al mare, che si addentrava come una strada scintillante tra grandi pareti rocciose che ricadevano con profili frastagliati sulle sue sponde. Dalle fenditure della roccia emergeva di tanto in tanto una vegetazione irregolare di roveri contorti, muschi, felci e torbiere verde scuro che screziavano il grigio della pietra fino alla metà delle cime, dove la neve risplendeva bianca e azzurrina sulle vette trasformate nel cristallo del ghiacciaio eterno. Era una bellezza fredda, crudele, ma la cui luce apriva la speranza di un possibile aldilà più promettente.
Il passaggio da quella regione dei canali era stata per Pedro Nauto come il transito da un mondo a un altro che si stava rivelando grandioso e sconosciuto. Luci e ombre fra profili e anfratti rocciosi sulle acque mosse appena da qualche turbine che, come un fantasma errante, vagava per quei canali.
Dopo due giorni e mezzo di navigazione, la vasta via dello Stretto di Magellano si era aperta attraverso il tempestoso Capo Tamar, e oltrepassato il Froward, detto anche Santa Águeda prima che Drake chiamasse Sarmiento de Gamboa il picco selvaggio che segnala la fine del continente americano, il clima si era fatto meno tormentoso e le montagne della cordigliera più soavi.
A Punta Arenas, la città più australe del mondo, avevano gettato l’ancora per ridipingere la nave e cambiarle matricola e nome. Da lì aveva intrapreso la lunga rotta fino all’isola Decepción, dove già si trovavano le altre quattro baleniere e una nave con le attrezzature. La stessa che alla fine della stagione sarebbe andata a caricare l’olio estratto.
La navigazione lungo il canale Magdalena, il braccio nordest del Beagle, con le cordigliere sovrastate da ghiacciai, il passaggio da Capo Horn e il canale di Drake, avevano gradualmente accentuato la frammentazione delle propaggini del continente, con il freddo e i ghiacci che aumentavano e la vegetazione che si riduceva. In un mezzogiorno più o meno sereno, si erano stagliate all’orizzonte montagne di una bianchezza abbagliante, con iridescenze dorate, che davano la parvenza di un mondo accogliente e fantastico. Era l’ingannevole benvenuto che la terra antartica inviava da lontano: gelida e morta, come migliaia di anni fa.
Gli si strinse un po’ il cuore ricordando tutto questo. Come un uccello errante, era arrivato senza rendersene conto fino a quei ghiacci alla fine del mondo. Per contrasto, rievocò i frutti succulenti della sua terra, le case di larice con un bel focolare rustico tra le pietre, le barche sempre pronte per uscire a pesca o a raccogliere frutti di mare nelle tranquille insenature, il dolce succo del cauchao, il minuscolo frutto dell’albero di luma, quello delle dorate bromelie e del quiscal, la tenera radice sepolta nella sabbia al riparo delle grandi foglie del pangue. Una frustata di ricordi che lo immalinconì un po’. Avrebbe voluto piangere; ma dalla tragica morte di sua madre non sapeva più cosa fosse una lacrima.
Di colpo pensò che alle prime ore del giorno doveva trovarsi a bordo della Leviatán. Sarebbe stato ancora una volta in mare aperto, e questo lo faceva sentire allegro, un po’ come fanno i gabbiani che giocano sfiorando le onde quando si avvicina la tempesta.
La breve notte australe intensificò all’improvviso le sue ombre. Attraverso i fori delle lamine di zinco gli sembrò di intravedere la luna. Quella luna antartica, che sbuca tra i ghiacci per poi nascondersi rapidamente come se anche lei avesse paura delle intemperie. Voltò il viso verso la parete dove una lastra di zinco conservava ancora qualcosa della vernice antiruggine con cui era stata dipinta. Sentì che un velo d’ombra ricopriva i suoi occhi fino al centro del cranio, spegnendo i ricordi, e si addormentò, accanto a quella sorta di fiamma immobile e morta.«
6
Lasci le sue cose a prua e si presenti in cucina a lavorare», gli disse il pilota Yáñez, quando al mattino presto Pedro Nauto arrivò sulla baleniera con la stessa barca usata per rimorchiare.
Salutando di sfuggita alcuni uomini dell’equipaggio che conosceva, scese lungo il passaggio che portava sottocoperta, dove si trovavano gli alloggi dei marinai.
La sottocoperta, larga nella parte dove scendeva la scaletta dalla coperta, si restringeva seguendo la forma del fasciame della nave verso la prua. Nel piccolo spazio che rimaneva tra le brande addossate alla fiancata, c’era un tavolo della stessa forma, largo da un lato e stretto dall’altro, con panche imbullonate al pavimento e sul ripiano listelle di legno per impedire che i piatti scivolassero via per il rollio. Conosceva già quei dormitori-mensa simili su ogni baleniera, dove tutti se ne stavano ammucchiati, tanto per dormire quanto per mangiare, dato che in coperta si riposava quasi sempre meglio.
Una porta di ferro, bassa e stretta, immetteva nella cambusa dove si trovavano i cilindri della sagola e le molle degli ammortizzatori, a dimostrazione che nessun marinaio avrebbe mai potuto dormire quando risuonava il grido «balena a prua!» Un’altra porta più grande, sotto la scaletta di ferro, conduceva alla cabina del cuciniere, unico uomo dell’equipaggio che aveva diritto a una cabina a bordo, poiché tale incarico veniva considerato quasi alla pari di quello di un ufficiale.
Nel posare il suo sacco di marinaio sulla branda che trovò libera, notò che la serratura del lucchetto non era affatto sicura, e lo forzò aprendolo senza chiave. Rovistando dentro il sacco di tela, si ritrovò tra le mani il piccolo cofanetto di legno pregiato, che non aveva mai abbandonato dal giorno in cui era morta sua madre. Lo aprì, e osservò nella penombra gli unici ricordi che gli erano cari: la piccola fotografia della madre ancora molto giovane, i suoi tratti energici, la ciocca di capelli castano chiaro della sua infanzia, il portamonete con alcuni pesos d’argento e una sterlina, e l’anello d’oro che aveva trovato infilzando ricci nella baia di Puerto Oscuro. Era da tempo che non lo guardava. Lo provò alle dita della mano sinistra, e adesso gli andava giusto al dito medio. Ammirò ancora una volta i due leoni finemente incisi allacciati per la coda, che reggevano tra le fauci lo scudo, con il monogramma della J e della A intrecciate. Richiuse il cofanetto e lo infilò in fondo al sacco; l’anello, invece, lo lasciò al dito per sicurezza; in ogni caso, era l’oggetto di maggior valore che possedeva, dato il suo peso in oro massiccio.
Salì in coperta e si diresse in cucina per assumere i nuovi compiti. Il vecchio cuciniere Fabián Martínez lo accolse con un sorriso svogliato.
«Togliti il cappotto e mettiti una giacca di servizio», disse senza tanti preamboli.
«Non ho altro.»
«Non sapevi cosa venivi a fare a bordo?»
«Ho sempre lavorato così, o con un maglione.»
«Anche se siamo su una baleniera, ognuno deve abbigliarsi come gli corrisponde. Non ti dimenticare che in cucina comando io e sul ponte il capitano.»
Il ragazzo arrossì leggermente per l’accoglienza ricevuta.
«Mettiti a sbucciare le patate, nell’attesa che gli altri vengano a fare colazione.»
La cucina della baleniera condivideva una parte della sovrastruttura con un piccolo locale. Vi si entrava da tribordo e si usciva verso babordo attraverso la porta della cucina. Il locale, in cui mangiavano il capitano, il pilota e i due ingegneri, era più stretto della stanza del cuciniere. C’era un piccolo tavolo con i bordi rialzati per trattenere le stoviglie e alcuni sgabelli addossati alle pareti. Accanto alla porta, la scala che conduceva al ponte di comando, e dal sedile del capitano si dominava il parapetto da tribordo fino a poppa. Una paratia scorrevole separava i compartimenti; ma restava generalmente aperta, per permettere al cuciniere di sbirciare con quale fretta gli ufficiali scendevano a mangiare dopo i turni di guardia, e ascoltare, ovviamente, le loro conversazioni. Di conseguenza, il punto di riferimento per ogni novità o diceria a bordo era Fabián, il cuciniere; un uomo piccolo ma robusto, sui sessant’anni, con la testa un po’ inclinata da una parte, il volto butterato dal vaiolo, e sempre con lo sguardo di traverso tra le palpebre senza ciglia. Sembrava non guardare nulla, ma i suoi occhi, di un indefinibile colore scuro, coglievano al volo ogni minimo particolare. Il gioco era il suo vizio; ma il capitano aveva severamente proibito le carte a bordo, da quella volta che stava per spennare l’intero equipaggio ed erano arrivati al punto di scaraventarlo in mare.
Di lì a poco arrivarono i due ingegneri, Demetrio Díaz e José Rebolledo, che fungeva da secondo. Il primo era un uomo tranquillo, sui cinquant’anni, basso, grasso e canuto, e il secondo, sui quarantacinque, più magro e alto.
«Carne arrosto?»
«Purché sia di vacca!» esclamò Rebolledo.
«La stanno svezzando, secondo…» rispose di rimando il cuciniere alla battuta dell’altro.
Quasi sempre, gli uomini a bordo scherzavano con allusioni alla vita dell’entroterra, del nord, il cui ricordo diventa più caro sui mari antartici.
«A me porti pure la carne arrosto», disse Diaz, il primo ingegnere.
«Anche a me!» urlò Albarrán, che aveva sentito la proposta dalla scala del ponte.
Il cuciniere tagliò due tranci abbondanti di filetto di balena e li passò sulla graticola, per poi porgerli a Pedro Nauto nei piatti perché li servisse.
«Adesso non finiremo più a bere acqua stando in piedi…» disse Rebolledo.
«Cos’è questa storia di bere acqua in piedi?» chiese Diaz.
«Succede quando uno affoga… Non siamo più tredici a bordo… Fabián ce l’ha fatta… Non lo sopportava proprio quel numero.»
«Io ho chiesto solo ciò che mi spetta, un aiutante, ed eccolo lì.»
«Come ti chiami?» gli chiese Rebolledo.
«Pedro Nauto…»
«Che strano cognome!»
«È di Chiloé…»
«Ma qui sono quasi tutti chiloesi, eppure non l’avevo mai sentito…»
«Deve essere indigeno», disse Albarrán.
Il ragazzo avvertì lo sguardo indagatore dei tre uomini, e continuò nel suo lavoro fino a servire il caffè.
«Da che parte di Chiloé vieni, tu?» gli chiese Albarrán.
«Da Puerto Oscuro, vicino a Quemchi.»
«E il tuo secondo cognome?» continuò a indagare Rebolledo.
«Ho solo questo, Nauto; sono un figlio naturale», rispose il ragazzo, guardando per la prima volta in faccia i suoi interlocutori.
A un tratto notò che il capitano sporgeva la testa sul tavolo e aggrottando le sopracciglia fissava lo sguardo sul suo anello.
«E quell’anello?» gli chiese.
«Lo porto al dito, quando mi è possibile.»
«Vediamo un po’, fammelo vedere.»
Pedro Nauto si tolse il grosso anello d’oro e lo porse al capitano. Anche l’ingegnere Rebolledo si avvicinò per osservarlo meglio.
«Come hai detto che ti chiami?» chiese ancora il capitano.
«Pedro Nauto, signore…»
«Ma quelle che si vedono qui sono una J e una A!»
«Julio Albarrán!» esclamò Rebolledo, ridendo.
«È vero… l’anello potrebbe essere suo», aggiunse l’ingegnere Diaz.
Come una brace rilucente, dorata, il capitano girò e rigirò l’anello tra le dita, osservando soprattutto i due leoni lavorati, uniti dalle code attorcigliate. Tornò ad aggrottare le sopracciglia, con un’espressione di stupore e dubbio al tempo stesso.
«Dove l’ha trovato?» chiese con un tono strano, la voce roca che ricordava le note d’organo che emettono alcune balene quando vengono ferite.
«In mare, signore… L’ho trovato davanti a Puerto Oscuro, la spiaggia dove vivevo, un giorno che stavo raccogliendo ricci con la fiocina. A un tratto ho visto brillare qualcosa sott’acqua, mi sono immerso ed era questo anello. Al principio ho creduto che l’avesse perso un mio vicino, il palombaro José Andrade, ma non era suo. Da allora lo porto con me, perché magari un giorno troverò il suo padrone…»
«Facci incidere le tue iniziali, altrimenti chiunque può credere che tu l’abbia rubato», consigliò Rebolledo.
«E può anche darsi che interessi al capitano…» aggiunse Diaz.
«Dov’è situato Puerto Oscuro?» chiese il capitano, come se stesse cercando di ricordare.
«È una baia molto piccola, che rimane tra la rada di Huite e Quemchi. Più che come Puerto Oscuro la gente lo conosce come il posto dove getta le ancore il Caleuche.»
«Cosa sarebbe questo Caleuche?» domandò Rebolledo.
«Si vede che lei non è un chiloese», disse Diaz, e aggiunse: «È il ’galeone stregato’, amico mio, il vascello fantasma delle isole, che ha fatto un patto con il diavolo e commercia con gli stregoni!»
«Lei non ha mai comandato una nave da quelle parti?» rise Rebolledo, rivolto ad Albarrán.
«Bisogna levare le ancore quanto prima», fece serio il capitano, restituendo l’anello a Pedro Nauto, e alzatosi in piedi, uscì frettolosamente.
Una volta sul ponte di comando respirò a pieni polmoni, gonfiando il petto. Poi, la prima cosa che fece fu prendere il suo vecchio portolano dallo scaffale e cominciò a sfogliarlo fino a trovare la seguente descrizione:
DARSENA DI HUITE O PUERTO OSCURO: L’imbarcazione diretta a Puerto Oscuro punterà sul promontorio Lobos e imboccherà il canale Caucahué bordeggiando il citato promontorio e seguirà la costa finché potrà governare sulla punta est della darsena a O-N-O o N-O. Tale punta abbonda di scogliere, mentre la costa occidentale è poco accessibile, rocciosa e affiorante fino a 90 metri da terra. Viene denominata Millahuilo e anche Yauvilú o Culebra. Una cascata regolare in una caverna può offrire un ottimo rifornimento, poiché l’acqua è di sorgente e una scialuppa può attraccare con l’alta marea.
Si tormentò la barba, richiudendo il grosso volume del portolano. Sì, lui stesso aveva sottolineato con una matita rossa il punto in cui rifornirsi d’acqua, il luogo dove tanti anni prima aveva perso il suo anello cercando di rimettere a posto il timone della scialuppa nel dritto di poppa, fuoriuscito a causa del carico d’acqua.
Quale genietto misterioso manipola il meccanismo della memoria affinché questa rimuova per sempre alcune cose e favorisca il ricordo di altre?
Come l’ombra di una balena che dalla coffa si intravede avanzare sotto la superficie, gli torna in mente un piccolo volto sfuocato dal tempo, una camicetta violacea sulla riva del mare, un vestitino leggero e scolorito, i piedi scalzi di quella ragazzina quindicenne e le sue giovani gambe, già tornite, come gli steli della nalca, sotto le cui larghe foglie la possiederà. Quel viso arriva dal tempo e dallo spazio come una goccia d’acqua che va ingrossandosi diventando sempre più nitida. Una goccia d’acqua i cui riflessi, adesso, gli sembra di aver percepito negli occhi di quel ragazzo, quando ha risposto in tono sicuro: «Sono figlio naturale…»
Ma no; forse è soltanto frutto della sua immaginazione… La storia dell’anello l’aveva ricordata altre volte, perché era una perdita che continuava a sentire; ma l’altra faccenda l’aveva dimenticata del tutto, tanto era stato fugace e superficiale quell’atto brutale dei suoi istinti… Vediamo un po’… Ecco… Non è la stessa cosa scorgere l’ombra di una balena sott’acqua desiderando che emerga un istante per arpionarla, e percepire il riflesso di una verità riemersa per ferire la coscienza. C’era un motivo, se la memoria l’aveva custodita nel suo scrigno sigillato. Vediamo… Vediamo un po’… Adesso è lui la balena sfuggente inseguita dal riflesso di un arpione che lo cerca spietatamente sotto le ombre del tempo e delle acque! È il capitano a venire arpionato dalla luce di una verità, dalla verità di un semplice evento della sua vita!
Era successo nella primavera del 1903… Ma quanti anni avrà avuto il ragazzo? Navigavano a nordovest del golfo di Ancud, quando il capitano aveva deciso di rifornirsi d’acqua per le caldaie. Lui era il secondo ufficiale di bordo e doveva trasferirsi a terra con la scialuppa per coordinare il carico d’acqua e i viaggi dalla cascata alla nave fino a completare l’approvvigionamento. Avevano impiegato tutto il pomeriggio a caricare acqua. Una volta svolto il proprio compito, lui se ne era andato a fare un giro su quelle spiagge. Era stato un caso fortuito, senza importanza… come tanti altri avvenuti nei porti e nelle baie dove le baleniere gettavano l’ancora…
Ah, adesso nella sua mente emerge di colpo un colore violaceo tra il verde glauco delle alghe lasciate in secca dalla bassa marea! È una raccoglitrice di molluschi con la sua cesta di vimini e la paletta. Niente di premeditato. Le aveva chiesto dove poteva trovare della chicha di mele da portare a bordo. La ragazzina lo aveva condotto per un sentiero fino a una collina da cui si poteva scorgere la casa dove vendevano chicha di mele. Passando sotto delle felci e dei pangue che formavano una volta sul sentiero, lei andava avanti, fiduciosa, camminando svelta a piedi scalzi. Aveva alzato gli occhi dal fango fino a quei piedi che si muovevano in modo così grazioso e sicuro, mentre lui scivolava con i suoi grossi stivali. Arrivati davanti a una recinzione, la ragazzina l’aveva superata con un salto, di fianco, appoggiandosi solo su una mano.
«Sono come l’aria!» gli aveva detto festosa.
Oh, la memoria… come mantiene vivi i suoi fantasmi!
Nel salto, le aveva visto le gambe… le cosce sotto il vestito che si era sollevato a ventaglio. Si era sforzato di pensare a quello che stava per commettere; ma il sangue gli aveva annebbiato la mente. Lo stesso sangue che avrebbe impedito per sempre al ricordo di raggiungere la coscienza. Dapprima l’aveva presa con la forza. Poi la ragazzina si era arresa all’istinto bestiale dell’uomo come una piccola alga tra le braccia del mare.
Nell’ultimo viaggio della scialuppa carica d’acqua, i marinai vogavano quasi sdraiati sui banchi per non bagnarsi. L’imbarcazione avanzava con cautela. Nell’abbassarsi per il carico, un gancio del timone era uscito dall’alaggio. Anche la sua posizione sul banco di poppa era scomoda. Si era tirato su le maniche per rimettere a posto il timone. Cercando di infilare il ferro nel foro di bronzo, gli si era incastrato il dito con l’anello, e nel tentativo di liberarlo, indolenzito, l’anello era caduto in mare.
Tutto chiaro; ma gli restava sempre un dubbio che poteva assolverlo, come quando l’arpione scivola sull’acqua e l’impulso lo fa rimbalzare senza colpire la balena: quanti anni poteva avere quel ragazzo?
«Pilota Yáñez!» sbraitò rivolto al posto dove il secondo controllava il carico di carbone. «Quanti anni avrà quel ragazzino?» chiese quando l’altro arrivò sul ponte.
«Sui sedici anni… E mi chiama per questo?»
«No; volevo dirle di controllare ancora una volta la nave. Appena la carbonaia è piena faccia levare le ancore.»
Poco dopo, gli anelli delle catene, lucidi o coperti di fanghiglia dei fondali, cominciarono a risuonare passando dai fori di prua con rintocchi di campana rotta, che le acque e i ghiacci facevano riecheggiare nella conca del vulcano semispento. La catena era troppo grossa per quella piccola nave, di solo duecentonovanta tonnellate di stazza, e l’ancora molto pesante, per essere gettata in mare senza fondo e potersi mantenere alla deriva in una notte tempestosa.
«Prepararsi a salpare!» si udì da prua a poppa la voce del nostromo Bàrcena, una volta cessati i rumori dell’ancora.
Il capitano Julio Albarrán, sul ponte di comando, si spostò alla maniglia di bronzo dello stand-by, la campana che comunica con le macchine. Ogni volta che afferrava quella leva per mettere in movimento la nave, provava una sensazione piacevole, come se tagliasse il cordone ombelicale che lo univa alla terra. Una volta che dalle viscere della nave giungeva la scampanata di risposta, cessava di esistere per lui ogni problema e sentiva il suo spirito libero e combattivo, pronto a seguire ancora una volta «la scia della balena»…
Ma, adesso, sentendo la campanella che avviava le macchine della Leviatán, non provò la stessa sensazione, per la prima volta nella sua lunga vita di baleniere. Qualcosa, da terra, si era imbarcato nel suo cuore, aprendosi un varco fino alla sua coscienza di uomo.
7
Quasi che i presentimenti dei superstiziosi avessero obbedito a qualcosa di razionale e logico, le battute di caccia della Leviatán ottennero risultati migliori appena vi fu un uomo in più a bordo, infrangendo la cifra fatidica dei tredici dell’equipaggio, contro la quale alcuni avevano protestato apertamente e altri in maniera meno evidente; ma tutti pervasi da quel timore che spesso risveglia la spietata natura del mare, dove la vita e la morte si rincorrono costantemente, onda dopo onda.
Pedro Nauto venne accolto con soddisfazione a bordo, da ufficiali e marinai. Dopo aver aiutato in cucina, doveva servire i primi, e portare agli altri il vassoio con il pasto sottocoperta. Ogni tanto rimpiazzava un timoniere e anche il cuciniere nel taglio delle pinne caudali al momento di issare la balena. E così imparò a conoscere rapidamente la sua nuova nave, «dalla chiglia al pennone», come si diceva in gergo marinaresco.
Non esiste un marinaio che non ami la sua nave, che ne sia consapevole o meno, persino quando sembra odiarla, a causa della pericolosa e dura vita di bordo, che sulle baleniere è ancora più rude e precaria rispetto a qualsiasi altro tipo di nave. Forse perché, come l’albatro errante che gode nel planare contro la tempesta, quel guscio di ferro o legno permette allo spirito dell’uomo di camminare sicuro sull’agitato dorso della morte.
Quasi un uomo tra uomini, Pedro Nauto poco a poco stava conoscendo frammenti di vita dei suoi nuovi compagni. A bordo quelle vite erano simili a raffiche di vento, gli uomini scendevano soltanto per mangiare o per un breve riposo tra i turni di guardia in coperta o alle macchine. Erano esistenze che, come era successo ai remoti antenati della balena, erano state quasi tutte spinte dalla terra al mare dal vento del bisogno.
Un giorno, pelando patate in cucina, al calore del fuoco, che con quelle temperature costituiva una sorta di privilegio per il cuciniere e l’aiutante, il vecchio Fabián Martínez gli aveva accennato qualcosa della propria vita.
«Sono del nord», gli aveva detto, «di Quillota. Lassù si coltiva tutto il meglio che la terra può dare… Conosci l’avocado?»
«No.»
«È un albero più grande del rovere che si trova dalle tue parti. Dà un bellissimo frutto, dentro è come un burro verde che spalmi sul pane e te lo mangi. Ha anche la consistenza del pane, ed è come se mangiassi una crema degli alberi… e la chirimoya, sapessi, è come una palla in cima alla chioma. Ne rompi una a metà, e la polpa è succosa, dolce e profumata. Non ce la fai neppure a finirla. Se nel vino bianco ci metti una fetta di chirimoya, diventa squisito… Dalle mie parti si coltiva anche l’uva, e si produce vino e chicha. La terra lassù offre di tutto, e d’estate Quillota diventa come un’immensa cesta piena di ogni frutto… Io avevo un podere; l’ho ereditato dai miei genitori, perché sono figlio di un uomo ricco; ma con la testa che mi ritrovo ho perso tutto… L’ho scialacquato con le donne e le scommesse sui cavalli. Mi è sempre piaciuto mangiare bene e per questo ho scelto il lavoro in cucina. Quando ero ricco preparavo io stesso i piatti per i miei invitati. Più tardi mi è tornato utile: ho lavorato come cuoco sulla costa in un albergo per le vacanze. Un cuoco trova lavoro ovunque vada, perché a mangiare sono in tanti, ma pochi quelli che sanno preparare buoni piatti. È il mestiere più richiesto, nelle osterie, nelle trattorie o persino nei bordelli, sui transatlantici o negli alberghi. Ovunque vai te la puoi cavare. Non so perché diavolo sono rimasto tra questi balenieri. Io sono un cuoco per ben altro tipo di gente; non certo per questi… Ho fatto naufragio due volte su queste schifezze di navi, e una terza su una goletta da pesca. I ragazzi se la ridono perché ho avuto tre donne, una per ogni naufragio… E anche loro mi hanno fregato. Un marinaio non dovrebbe mai sposarsi, perché c’è sempre qualcuno che gli soffia la donna… L’ultima me l’ha fregata il mio migliore amico, ma mi sono vendicato. All’inizio volevo ammazzarlo, quel vigliacco… Una cosa del genere non si dovrebbe mai fare a un amico. Io non potrei andare a letto neanche con una puttana che sia stata con un amico; mi farebbe schifo. Sai cosa ho fatto? Mi sono vendicato proprio bene… Li ho costretti a sposarsi, perché se non lo facevano, ho minacciato di ucciderli. A quei tempi ero svelto di coltello, e lui era un gran codardo, aveva paura di me. E si sono sposati… così lui si è messo la corda al collo con la benedizione di Dio. E ho anche assistito alla cerimonia. Quando il prete ha chiesto se qualcuno si opponeva al matrimonio, si sono voltati a guardarmi… Sapevano che mi sarei potuto opporre. «Hanno il mio consenso», ho detto al sacerdote. A testa china, sono stati benedetti dal prete… Io mi sono inginocchiato, ho fatto il segno della croce e sono uscito dalla chiesa, ma li ho aspettati fuori… Lui si è spaventato quando mi ha visto fermo sul portone. Aveva paura che tirassi fuori il coltello, invece dietro la schiena tenevo un mazzo di rose, e le ho lanciate a lei, che ha piegato la testa.»
«Le voleva ancora bene?» chiese Pedro Nauto.
«Come potevo volerle bene con quello che mi aveva fatto! Erano rose bianche… che si gettano a una fanciulla pura e vergine, quando si sposa… L’ho fatto solo per prenderla in giro!»
Ma, qualche giorno dopo, quando Pedro Nauto aveva raccontato sottocoperta la storia del vecchio cuciniere proprietario di un podere nel nord, tutti erano scoppiati a ridere, specialmente Ortega, anche lui del nord, a cui Fabián, una volta che si erano ubriacati insieme, aveva raccontato piangendo la vera storia della sua vita: era figlio illegittimo di un possidente di Quillota, che un giorno aveva spronato il cavallo contro sua madre, travolgendola. La donna era rimasta a letto per un certo tempo, per le conseguenze dei colpi ricevuti, e poi era morta. Lui aveva visto sua madre cadere e sollevarsi sotto gli zoccoli del cavallo. Per non fare la stessa fine era fuggito sulle montagne. Gli inquilini di un altro podere lo avevano accolto e così era cresciuto con loro, aiutandoli nei lavori dei campi, finché non era sceso lungo le sponde del Rio Aconcagua fino a Valparaíso, dove si era imbarcato per non tornare mai più nella sua terra natale.
Pedro Nauto amava la gente in maniera istintiva. La sua sana giovinezza gli impediva di intuire la cattiveria e la menzogna negli altri; a poco a poco la vita lo stava istruendo nel distinguere tra la verità e l’inganno, tra la realtà e l’illusione, tra gli uomini e le cose.
Aveva notato subito che a bordo c’era una certa avversione nei riguardi del cuciniere, e questi si vendicava preparando a volte del pessimo cibo. Con il tempo, imparò a difendersi dai brutti tiri di Fabián e dall’avversione degli altri, che lo credevano complice del primo. Il rancio per l’equipaggio era solitamente un solo ma abbondante piatto a base di cibi secchi o carne di balena, un dolce di pesche sciroppate due o tre volte la settimana, e una tazza di caffè. Nella cabina del capitano venivano serviti due piatti, ma a volte anche gli ufficiali subivano le imprevedibili prepotenze del cuciniere.
Albarrán controllava i viveri di persona, compito che includeva anche tenere a bada le intemperanze del vecchio Fabián. Sapeva per esperienza che mantenere in efficienza gli uomini dipendeva in gran parte dallo stomaco. Era consapevole dell’importanza del cuciniere, e in molti casi era l’unico uomo a bordo che metteva a dura prova la sua pazienza e autorità. E così come gli bastava un’occhiata per riconoscere i venti in alto mare dal baluginare delle stelle, percepiva l’umore e le intenzioni del vecchio Fabián dallo sguardo sotto quelle palpebre senza ciglia. Gli altri uomini poteva muoverli come le dita della sua mano; «con la testa fredda e i piedi caldi, non c’è di che preoccuparsi», era solito dire.
Sul ponte di comando contavano solo lui e il pilota Yáñez. Le faccende in coperta erano affidate al vigore e al senno del nostromo Bárcena. Yáñez era come il prolungamento della sua autorità in tutto ciò che riguardava la navigazione, attraccare e salpare, l’assegnazione dei compiti e la disciplina dei quattro marinai, Mancilla, Vidal, Millaneri e Barrientos. Delle macchine rispondeva il primo ingegnere Diaz. Là sotto se la vedeva con il secondo Rebolledo e i fuochisti Ortega, Alarcón e Bórquez. In certe occasioni tutti quegli uomini si comportavano come grossi bambini, con le loro differenze di carattere, forza d’animo per affrontare tempeste e battute di caccia, o debolezze. Un solo grido li univa tutti: «Balena a prua!» Terminata la caccia al cetaceo, i legami che li univano sembravano sciogliersi. Ma lui li considerava sempre come un insieme organico, il sangue, il cuore, i muscoli e i nervi della nave, e così sapeva dove piazzarli, separatamente, ciascuno con la propria responsabilità, durante la caccia o la navigazione. Si industriava per fare in modo che nel lavoro, pur cooperando, vi fosse sempre una certa competitività e vigilanza reciproca. Era convinto che ogni uomo dell’equipaggio doveva essere sicuro, responsabile, e non doveva mentire, poiché dalla menzogna di uno o dall’errore tenuto nascosto di un altro dipendeva la vita dell’intera nave, la sorte di tutti. Non poteva concepire quegli uomini separatamente dalla loro nave, per lui erano una sola cosa. La disciplina ferrea veniva imposta più dal lavoro in sé che dalla sua autorità. Quello che non si muoveva svelto ostacolava il lavoro degli altri. Il massimo dell’abilità di ognuno si palesava nel momento della caccia. Lì venivano fuori il vigore e la destrezza di tutto l’equipaggio, dal capitano al marinaio, e la vera autorità si conquistava lì, nella capacità di ciascuno nel compiere le manovre; e questa autorità poi rimaneva nell’aria, non palpabile, ma pur sempre presente nella vita quotidiana della nave. Se comandava, era perché soltanto lui sapeva arpionare bene la balena, e con il suo intuito e la mira nell’inseguire e uccidere il cetaceo, dava di che vivere a tutti.
Riceveva venti pesos per ogni balena consegnata allo stabilimento, mentre all’ultimo uomo dell’equipaggio ne spettavano due. Era per quei pesos che tutti si trovavano a bordo e sopportavano la dura vita tra i ghiacci del circolo polare. Non importava da dove venisse, come e chi fosse il marinaio; l’importante era il suo contributo nel dare la caccia alla balena. Molti dell’entroterra pensavano che lo facessero per spirito d’avventura, per vedere terre sconosciute; e invece no, andavano dietro alla balena per lo stesso motivo dell’orca, «la balena assassina», per quel morso in più che non avevano potuto dare a terra e per il quale rischiavano le loro vite in alto mare. Poi, certo, non esiste uomo che non nobiliti il proprio lavoro, e la rude vita del baleniere era come la sintesi di ciò per cui ha sempre vissuto l’umanità: cercare di che sfamarsi.
Solo durante le grandi burrasche il capitano Albarrán trovava rifugio in qualche insenatura tra i ghiacci, o mettendosi sottovento di un iceberg alla deriva, la cosa più sicura per ripararsi da una tempesta in alto mare. Per il resto del tempo era sempre all’inseguimento delle balene. In altre occasioni, quando si scatenava una tempesta e non c’erano in vista un litorale né un iceberg, faceva sprangare i boccaporti, avvitare gli oblò e affrontare di prua le mareggiate per tutta la notte, con la nave chiusa come una boa galleggiante. Se i marosi e il vento non erano troppo forti, calava le ancore a una certa profondità per mantenersi alla deriva e tutti se ne andavano a dormire come nel migliore dei mondi. Solo quando gli scossoni erano troppo violenti, o le onde spazzavano il tetto della sua cabina con fragore, si alzava, infilava la mantella impermeabile e saliva sul ponte ad affrontare la tempesta.
Nei giorni di maltempo, quando si riparavano dalla burrasca in qualche baia, o quando la Leviatán alla deriva nella notte sembrava anch’essa un cetaceo morto, segnalando la sua presenza con le luci di estremità e di posizione in mezzo all’immensità, quegli uomini ricordavano, chiacchierando tra loro oppure ognuno per conto proprio, eventi e aneddoti che alleviavano la monotona vita di bordo. Fatti semplici, di esistenze genuine, che avevano cominciato ad aprirsi il passo lungo la costa o nell’entroterra, e che a volte per un caso fortuito si erano avventurate in mare. Alcuni nei propri racconti cercavano di distinguersi dalla vita mediocre degli altri, e in certe occasioni esageravano sicuramente la realtà, o semplicemente inventavano o mentivano, come aveva fatto il cuciniere con Pedro Nauto, scambiando nelle sue fantasie la povertà con la ricchezza. C’era un motivo se una volta il vecchio gli aveva citato un detto volgare: «La povertà è come la merda: più la rigiri e più puzza». Così era: tutti cercavano di evitare la povertà, e persino nei loro racconti la tenevano nascosta come un motivo di vergogna.
Ma che cos’è la fantasia, l’illusione, se non un modo di fuggire una dura realtà, l’anelito del cuore umano verso una vita migliore? Esisterebbe forse nell’immaginazione religiosa dell’uomo una felice vita ultraterrena, se anche questa lo fosse? L’uomo può tessere la sua esistenza con fili di luce o di ombra, in una trama reale, salda, o sfilacciata e slegata, ma tutti i suoi fili finiranno per confluire, come i rami di un rampicante, alla radice terrestre, da dove nasce ogni vita verso la luce!
Queste radici, come il cordone ombelicale invisibile e ancestrale che spinge l’altro mammifero, la balena, ad avvicinarsi alla terraferma quando sente giungere l’ora della sua morte, non smettevano mai di salire lungo i fili del sangue o di riflettersi nella mente di quei balenieri. Lì restava a brillare, simile a una goccia di rugiada, la linfa umana, unica e vera, con le sue più alte o più basse categorie terrestri.
Per esperienza personale, il capitano Albarrán conosceva il pericolo che ogni tanto incombeva sulle teste di quegli uomini i cui piedi erano stati strappati alla terra. Soprattutto quando si avvicinava la fine della stagione di caccia, e allora il prolungato isolamento antartico diventava quasi insopportabile. Sapeva che era una specie di malattia della lontananza o nostalgia delle cose terrestri, che faceva chiudere in se stessi i suoi uomini, li rendeva tristi, suscettibili e irritabili. C’era chi smetteva di parlare e si sdraiava sulla branda con la faccia rivolta alla parete. Cosa aveva? A che pensava? Per esperienza immaginava che quella mente assorta stesse pensando soprattutto a una donna. Alcuni, forse, al grembo materno, da cui erano stati strappati in tenera età; altri, alla tremante innocenza di un amore giovanile; ma la maggioranza vedeva e rivedeva nell’immaginazione fattezze e tratti femminili rimasti avvinghiati alla memoria dei sensi, durante un passaggio fugace per i bordelli. Immagini di un volto, di una chioma di capelli, di labbra e occhi, di un paio di cosce o delle sfuggenti forme del sesso. Sempre il sesso, con la sua sferza angosciosa ed essenziale, l’istinto cosciente o incosciente della propagazione della specie, che strattonava come un puledro oscuro le fulgide ma deboli redini della responsabilità biologica, mordeva il freno della virilità trattenuta fino a spezzarlo, per poi abbandonare le mani e intontirsi come un povero animale con i propri organi.
Per questo il capitano preferiva affrontare le burrasche piuttosto che rimanere fermo al primo accenno di maltempo. Come il petrel o l’albatro, gli piaceva tenere sempre le ali distese planando sull’infinità dell’orizzonte marino, e non ripiegate o intorpidite nell’oscura fessura di una roccia o sotto la parete di un iceberg.
Juan Alarcón, uno dei fuochisti, aveva quasi sempre gli occhi acquosi e tristi salendo in coperta, e si asciugava il sudore con lo straccio che si annodava al collo come una sciarpa. Aveva gli occhi chiari come quelli di un gatto, in contrasto con la pelle scura e rovinata. La testa rotonda, una barba rada e slavata e lunghi peli ispidi al posto dei baffi riconfermavano tale similitudine con il felino.
«Il mio destino sarà quello di spalare carbone tutta la vita!» era solito dire, riferendosi al suo passato di minatore a Coronel.
Il porto in questione è come una carbonaia sotto il mare, e i minatori non vedono quasi mai la luce del sole, dovendo lavorare in oscure gallerie che si spingono per chilometri sotto il letto dell’oceano. Quegli uomini escono dalla miniera simili a pallidi fantasmi, solo per dormire qualche ora sulla branda lasciata ancora calda da un altro compagno di turno, nelle baracche che si ammassano sulla riva del mare. La vita senza sole, assieme alla cattiva alimentazione imposta dal magro salario, fanno sì che generalmente si ammalino di tubercolosi e muoiano giovani.
Alarcón aveva intuito ben presto il destino che lo aspettava assieme ai suoi spettrali compagni, e appena gli era stato possibile aveva lasciato la miniera per lavorare come scaricatore delle navi carboniere. Da questo all’imbarcarsi, per continuare a spalare carbone nelle caldaie di una baleniera, c’era solo un passo. Ma Juan Alarcón non era di lì, del porto di Coronel, bensì di una zona molto più interna, poiché era nato oltre i primi contrafforti della cordigliera di Nahuelbuta.
Socchiudendo gli occhi acquosi risaliva la foce del Rio Lebu, tornava con la memoria a Coronel, il piccolo villaggio di Contulmo, alla città di Angol, per arrivare al lontano angolo cordiglierano di Rucapillán, che in lingua mapuche, quella degli araucani, voleva dire «capanna del diavolo». In effetti, quel luogo poteva essere abitato solo dallo spirito malefico. Incastonato tra montagne inospitali, durante i brutti inverni non restava un filo d’erba per nutrire un animale, mentre i terreni migliori, in grandi estensioni, appartenevano a milionari della capitale, generalmente i politici che governavano il paese. Ricordava i giorni dell’infanzia quando lui e i suoi fratellini spesso non avevano altro alimento che qualche pugno di farina tostata mescolata con l’acqua, e per vestiario un logoro sacco di tela infilato come un poncho e legato alla cintura con una cordicella di vimini.
Gli tornava spesso in mente l’immagine di sua madre: la rivedeva camminare davanti a lui, sotto i rami grigiastri dei roveri che l’inverno spogliava di ogni foglia, reggendo sul petto l’ultimo gallo da vendere nella città di Angol per comprare farina tostata con cui avrebbero potuto prolungare la resistenza alla fame. La rivedeva con il suo scialle nero, che il tempo aveva reso verdastro come il muschio, mentre teneva con un braccio il gallo, l’ultimo del pollaio, dal piumaggio brillante come un arcobaleno, appoggiato al suo seno. Anche i roveri erano belli, con quei rami adunchi rivolti al cielo, e laggiù, sulle vette innevate delle Ande lontane, una zona di luce celeste, come se al di là della grande cordigliera si annunciasse una vita migliore. Da quando aveva preso il mare su quella baleniera, pensava di non tornare mai più a soffrire la fame come a Rucapillán.
Quasi nessuno avrebbe creduto al marinaio Luis Mancilla quando raccontò perché aveva lasciato la sua terra per il mare. Anche la sua era una storia di fame, ma non potevano credere alla faccenda del cane.
«Vivevamo a Hualaihué, e da lì andavamo a tagliare larici all’interno della cordigliera», aveva raccontato. «Mio padre e i miei fratelli maggiori facevano i boscaioli. Quando anch’io ho cominciato a lavorare con il legname di larice, mi sono spaventato. Sapete cosa significa? Non avete idea di che cos’è. Per trovare una macchia di larici bisogna arrampicarsi sulle montagne alte della cordigliera. Lassù si tagliano gli alberi. Non c’è bisogno della sega per dividere il tronco in assi. Basta piantare un cuneo di ferro, seguendo le venature del legno, e con un colpo ben assestato la tavola si spacca da sola, venendo fuori dritta e sottile. Poi si tagliano di circa tre metri, e ognuno scende a valle con sette tavole legate. Il bello viene durante la discesa. Bisogna tenere il fascio di tavole contro il petto, dritto, afferrandolo da sotto, e scendere con la schiena attaccata alla parete rocciosa del precipizio, infilando i piedi nei buchi scavati per salire. Ci sono monti che cadono quasi a picco, e uno riesce a malapena a infilare i talloni in quei buchi. Se si scivola… infatti, è quello che è successo a nostro padre; camminava davanti a noi, è scivolato e caduto. Lo abbiamo raccolto a valle ridotto a un mucchio di ossa… Dopo la morte di mio padre, ce ne siamo andati in un posto più a sud, chiamato Rio Negro, alle falde del vulcano Hornopirén; ma anche da lì ce ne siamo dovuti andare via tutti, dopo quella volta che il vulcano ha vomitato pietre e lava per una settimana intera, spazzando via il campo di patate e l’orto che avevamo coltivato a valle. Per poco non siamo morti di fame. Eravamo da soli con nostra madre, fratelli e sorelle. Ci siamo dovuti mangiare persino i cani, lasciandone solo uno che era molto bravo a cacciare i cervi; ma un giorno è sparito. Credevamo che fosse scappato perché aveva capito cos’era successo ai suoi compagni; ma dopo tre giorni è tornato portandoci un piccolo cerbiatto tra i denti. Gli avevamo insegnato a non mangiarsi la preda catturata, e infatti la stava portando ai suoi padroni. Così abbiamo potuto resistere, con i cerbiatti che ci portava il cane ogni tanto, finché da Rio Negro non è passata una lancia e ci ha portati via da quel maledetto buco sotto il vulcano Hornopirén. Ricordo anche che bisognava trasportare su zattere il legname lungo il Rio Hualaihué… zattere fatte con tavole di larice messe di taglio, e uno stava a prua e l’altro a poppa, con delle pertiche per spingerle e dirigerle perché non si schiantassero contro le pareti delle gole del fiume. Così si navigava su quel fiume, che scorre incassato e pieno di rapide. A volte scendevano trenta e addirittura quaranta zattere in una sola giornata… La notte, quando c’è tempesta, sogno ancora di scendere con un carico di larici stando in equilibrio accanto alla parete di un precipizio, o di correre pericolosamente tra i vortici del Rio Hualaihué. Ecco perché quel lavoro ha cominciato a farmi paura, e mi sono imbarcato.»
8
Cascajal è una spiaggia precaria dietro l’isola Llancahué, sulla sponda cordiglierana del golfo di Ancud. Dalle rupi scoscese di questa isola, cascate di acqua calda si gettano direttamente in mare.
Francisco Millaneri era di lì, un chiloese di stirpe indigena, i cui occhi scuri, dallo sguardo fermo e diretto, rendevano più umana la testa da castoro in agguato, incassata su un corto collo nelle spalle troppo robuste per la sua statura.
«Uno può avere la faccia da tonto, ma è preferibile così!» disse una sera a Pedro Nauto, mentre riposavano sottocoperta dopo una battuta di caccia, e aggiunse: «Il pilota Yáñez mi ha preso in giro perché credeva che non sapessi piantare la lancia nel punto giusto per gonfiare d’aria la balena! Se sapesse! Io che sono nato inseguendo i delfini con l’arpione! E una volta, con mio fratello più piccolo, abbiamo arpionato persino un capodoglio!»
«Non ti credo!»
«Adesso so che era un capodoglio; ma allora non lo potevamo sapere. Avrò avuto diciassette anni e mio fratello nove.»
«Com’è andata? Racconta!»
I due erano distesi nelle loro brande a castello. Quella di Pedro Nauto sfiorava il soffitto, il piano della coperta di ferro verniciato di minio antiruggine sembrava una vecchia ferita. Quella di Millaneri rimaneva sotto le assi che sostenevano il pagliericcio e il corpo del compagno. Socchiudendo gli occhi, come evocando il passato, cominciò a raccontare. Pedro Nauto ascoltava in silenzio, e solo ogni tanto si lasciava sfuggire qualche esclamazione di stupore o di incredulità.
«Avevamo gettato le reti nel canale Llancahué e con il mio fratellino ce ne stavamo sulla barca a guardare la luna che passava tra grandi macchie di nubi bianche. Era così bella quella luna, e così alta. Non come da queste parti, dove sembra passare a testa bassa. A volte illuminava tutto il canale, e in lontananza non si distingueva più il cielo dal mare. Mi ricordo che era verso la fine dell’anno e in quel periodo laggiù c’è un mucchio di pesce. Conosci i chancharros?»
«No.»
«Sono simili ai branzini; più larghi, spinosi e rosati. E il colde, lo conosci?»
«Neanche.»
«È più grande di un re di triglie; anch’esso rosato. Dunque stavamo lì, lasciandoci portare dal riflusso della marea. In barca tenevamo la vela avvolta all’albero, infilata sotto i banchi, e un arpione, con cui a volte cacciavamo qualche delfino, che faceva scappare i re di triglie e i branzini, allontanandoli dalla rete. A un certo punto il mare ribollì di calamari. Era un banco di migliaia e migliaia di calamari, che a tratti cambiavano colore. A volte bianchi come la luna, altre verdastri o azzurri, o marroni come il sargasso. Sbattevano contro la barca come se la chiglia stesse strisciando su una secca. Con il gancio del mezzo marinaio ne abbiamo tirati fuori due o tre da usare come esca. Alla luce della luna sul pagliolo diventavano di tutti i colori.»
«Dicono che i calamari vengano su quando passa il Caleuche», commentò Pedro Nauto.
«Da quelle parti il Caleuche non si fa vedere. E neppure ci sono stregoni. Il vento soffia così forte e il mare del golfo è così aperto che non resisterebbero. Queste cose succedono dell’altra parte del golfo, dove ci sono le isole. All’improvviso, dall’imboccatura del canale Llancahué è comparsa sulla superficie dell’acqua una cosa nera, dietro al banco di calamari. Abbiamo pensato subito alla nostra rete. Se il banco o quella cosa nera ci finiva dentro, potevamo dirle addio. Non era nemmeno possibile tirarla su, perché i calamari andavano troppo veloci. Ho ordinato a mio fratello Gumercindo di mettersi al remo. Per la paura era più bianco di un calamaro. Anch’io avevo paura, ma nella vita bisogna farsi animo sennò si resta fregati. Dovevo fare coraggio al ragazzino, e non mettergli ancora più paura! Abbiamo remato verso la cosa nera, e quando eravamo vicini sono salito sul pagliolo di prua con l’arpione in mano. Ho visto un dorso che sembrava quello di un tremendo toro nero. E senza pensarci tanto, ho preso la mira con l’arpione per i delfini e l’ho piantato. Non so se la paura mi avesse aumentato la forza, comunque la carne di quella bestia era così tenera che è entrato fino al manico. Ha spalancato una bocca terribile, sembrava un secchio pieno di calamari. Se li stava mangiando. E ha virato alzando due enormi pinne e provocando un’ondata che ci ha fatto imbarcare acqua. La sagola dell’arpione era legata alla prua, e lì è arrivato il bello. La cosa nera ha cominciato a tirarci e la barca filava come il diavolo. Ho preso il coltello senza perdere di vista la corda tesa. Ero pronto a tagliarla se vedevo che poteva capovolgerci e spedirci in acqua. Non volevo perdere l’arpione né la sagola, gli unici che avevamo. Per di più ci provavamo quasi gusto a vedere filare la barca alzando un’onda di spuma a prua. La notte di luna era così gradevole! Il mare calmo come una tazza di latte! Un mare strano, e l’acqua sembrava calda. Andavamo a tutta velocità, più di una lancia a motore. Ho ordinato a mio fratello di sdraiarsi sul pagliolo, a poppa. Tremava di paura. Anch’io cominciavo a sentirla, ma mi controllavo per fare coraggio al ragazzo. A un tratto siamo entrati in un banco di nebbia. La luna era sparita, e quella nebbia fitta e bassa, come grossi batuffoli di lana, stava diventando così spessa che ci sembrava di non essere sul mare ma di volare. Mio fratello ha cominciato a piangere e a gridarmi di tagliare la sagola. L’ho tagliata con rabbia, perdendo molti metri di corda e l’arpione. Siamo rimasti lì, in mezzo alla nebbia, senza poter capire se l’animale ci aveva trascinati a sud, a nord o a ovest. Non c’era un alito di vento. Ci siamo messi a remare nella direzione opposta a quella in cui ci aveva trainati l’animale sotto la superficie; ma ben presto ci è sembrato di girare attorno allo stesso punto. Quando era ormai buio, ho detto a mio fratello Gumercindo: ’Passiamo la notte qui aspettando che faccia chiaro o si alzi il vento’. Ho sistemato il ragazzino sul pagliolo coprendolo con la vela maestra, e io mi sono seduto a prua avvolto in quella del fiocco. Gumercindo si è addormentato quasi subito, mentre io non riuscivo a chiudere occhio. Dicono che le lepri dormano con gli occhi aperti, e così sono rimasto anch’io in mezzo alla nebbia. Quando ha cominciato a fare giorno, non si capiva da dove spuntasse il sole. E niente vento, e la nebbia sempre più fitta. A un certo punto mi è parso di sentire una campana. Ho svegliato il ragazzo. La sentiva anche lui. Ci siamo messi ai remi andando nella direzione da cui proveniva il suono; ma non riuscivamo a vedere niente. Ogni tanto il suono si allontanava e poi si avvicinava. Sembrava di giocare a mosca cieca con quella campana in mare. Ma abbiamo continuato a remare in cerca del suo tocco. Dopo aver trascorso molto tempo a girare in quel modo, una terribile ombra nera è apparsa in mezzo alla nebbia. Era una nave molto grande, ma doveva avere più paura di noi, perché era ferma, non si azzardava a proseguire. L’abbiamo abbordata. Era una nave passeggeri diretta a nord, e aveva la scaletta calata. Abbiamo ormeggiato la barca a quella e siamo saliti. Il pilota ci ha portati in cucina ordinando di darci da mangiare. Abbiamo mangiato cose buonissime, come non ci era mai capitato di assaggiarne, e bevuto caffè. Poi ci siamo messi a esplorare la nave. Si chiamava Magallanes. Andava da Punta Arenas a Valparaíso. Siamo rimasti a bordo tutta la mattina. Quando si è finalmente alzato il vento e la nebbia ha cominciato a diradarsi, il pilota ci ha offerto di condurci in un porto; ma io gli ho detto di no, che ci lasciasse pure lì, con la nostra vela potevamo arrivare da qualsiasi parte. E così è stato. Gli ufficiali ci hanno dato qualche scatola di sardine e pane. Quando siamo scesi nella barca e ho ordinato a Gumercindo di infilare il timone, lui si è messo a piangere. Ho alzato l’albero e preparato la vela mentre la nave metteva in moto le macchine. Tutti i passeggeri ci guardavano dal parapetto della coperta, e alcuni dicevano agli ufficiali di accompagnarci in un porto. Io mi sentivo determinato e contento mentre preparavo la barca a compiere la traversata, approfittando del vento che cominciava a soffiare forte per portarsi via la nebbia. L’unica cosa che mi dava fastidio era che il ragazzo stesse piangendo; a denti stretti, per non farmi sentire da quelli lassù, ho detto: ’Piantala, stronzo!’ e lui si è inghiottito le lacrime. Mi ha aiutato a issare la maestra, e quando ho spiegato il fiocco, tutti quelli a bordo mi hanno salutato agitando le mani. Ci trovavamo vicino all’isola grande di Chiloé, dall’altra parte del golfo. Il capodoglio ci aveva trascinato fin lì. Navigando tutto il giorno senza sosta, siamo tornati a Cascajal a notte fonda. I nostri genitori erano morti di paura. Credevano che fossimo affogati. Sembra che quell’esperienza abbia fatto bene a Gumercindo. Dopo quel viaggio è diventato più maturo. Con tre adulti abbiamo allestito una grande barca e preso il largo d’estate dall’altra parte del golfo di Penas, a cacciare lontre e foche. Siamo arrivati fino alle gole del Rio Baker. Accidenti quante lontre abbiamo preso! Ma spesso non avevamo niente da mangiare. Hai mai mangiato stufato di tiuque?»*
«No.»
«C’erano giorni che era l’unica cosa da mettere in pentola. È stata dura, ma abbiamo guadagnato una bella cifra. Poi mi sono imbarcato e non ho più fatto ritorno a Cascajal, il posto dove sono nato. I miei vecchi e i miei fratelli più piccoli li hanno mandati via da lì. È arrivato un tizio dalla capitale, da Santiago, e ha detto che l’isola era sua, e che dovevano pagargli l’affitto. Mio padre aveva vissuto tutta la vita laggiù, e se n’è dovuto andare a Pichicolo, più a nord; è un posto dove a malapena riescono a viverci i castori. Preferisco la vita sulle baleniere…»
9
Un sole debole, soffuso, cominciò ad aprirsi un varco dietro la linea brumosa dell’orizzonte, e una leggera luce autunnale giunse dal mare fino ai pennoni.
«Soltanto due gradi sotto zero!» esclamò il nostromo Bárcena, guardando il barometro sul ponte di comando, e sfregandosi le mani aggiunse: «Presto lasceremo queste lande di ghiaccio!»
«Quando pensa che succederà?» chiese Pedro Nauto dal timone.
«Nella prima quindicina di aprile vireremo a nord.»
«Siamo già al ventitré di marzo» ricordò il timoniere, guardando un piccolo calendario alla parete, e i suoi occhi si soffermarono un momento sull’anno: 1920. Il pezzo di legno di mogano che sosteneva il barometro era di un rosso caldo. Nella parte di sopra era incastonato il barometro, e in cima spiccava un’aquila di bronzo con le ali spiegate in bassorilievo. Sotto, due covoni di messi brunite simboleggiavano l’azione del tempo sulle sementi.
La Leviatán aveva navigato tutta la notte lungo il quadrante nordest della zona dove si congiungono i mari di Drake e di Weddell. «Mantenga la rotta», aveva ordinato il pilota Yáñez a Bárcena, al cambio di turno. Ma durante la breve notte australe il vento si era messo a soffiare da quello stesso quadrante, cosa che preoccupava il nostromo, poiché sapeva meglio di chiunque altro che le balene sono solite avanzare nelle prime ore mattutine contro vento, cioè nella stessa direzione della nave. Tale inquietudine trovò giustificazione sul ponte quando, simile a un fantasma dell’alba, apparve Albarrán.
«Così dà gusto navigare… contro il vento e la marea e facendo le corse con le balene», disse con ironia.
«È l’ordine che mi ha lasciato il pilota, capitano.»
«Ma quale ordine e ordine. Lei di queste cose ne sa tanto o più di lui.»
«Lei ha detto che bisogna rispettare l’ufficiale navigatore, capitano.»
«Quando lei vede commettere una sciocchezza è capace di farlo notare persino a me!»
«Il vento è cambiato da poco. Quando lei è arrivato stavo per andarmi a consultare», e aggiunse in tono secco al timoniere: «Barra tutta a tribordo!»
La Leviatán cominciò a virare in circolo, come spinta dal vento dell’aurora, che spirava cesellando il mare.
«Avanti così!» ordinò Bárcena, fissando la rotta.
«Avanti così!» ripeté Pedro Nauto in tono più basso.
«Svegli un uomo perché salga sulla coffa, e mi lasci solo sul ponte», ordinò Albarrán.
La respirazione e il calore dei corpi avevano appannato lievemente i vetri. Il capitano pulì con la manica del giaccone quello di fronte al timoniere e si scostò per lasciargli visibilità. La luce del mattino entrò con i suoi riflessi attraverso le vetrate. A un tratto, l’uomo vide il volto del ragazzo riflesso, ed ebbe un tremito quando percepì, appena più sfumato, anche il suo. Per due o tre volte, con occhiate rapide come quelle che era solito rivolgere alla superficie del mare cercando il dorso di una balena, tentò di cogliere ciò che non avrebbe voluto vedere nei riflessi che il mattino antartico produceva sulle vetrate.
Di colpo, gli parve di riconoscere in quei tratti qualcosa di simile a un suo vecchio ritratto della lontana giovinezza; ma dovette chiudere gli occhi, perché in quel preciso istante un forte dolore di testa, come a volte gli accadeva nel prendere la mira sul cannone arpioniere, gli fece corrugare la fronte. Dentro di lui, per un attimo fugace, sotto quelle sopracciglia aggrottate, rimasero a fluttuare tenui, tremuli arabeschi luminosi prodotti dalla luce dell’aurora, ma che poco a poco assunsero una tonalità violacea, come un drappo o un gagliardetto in balìa delle onde in un orizzonte acquoso e lontano.
«Le fa male la testa, capitano?»
«No, ragazzo; ho i piedi freddi, e questo è molto peggio.»
Al pari del riflesso di quel volto sui vetri, le parole gli risuonarono nelle orecchie con un’eco leggermente incrinata, che lo fece nuovamente rabbrividire percependo in quell’incrinatura della voce adolescente qualcosa della sua stessa voce. Si voltò a guardarlo, come chi non regge più la minaccia di un pericolo e si decide ad affrontarlo.
Il ragazzo, con innocente sicurezza, resse lo sguardo del capitano. Il mattino, con eguale luminosità, rischiarava entrambi i volti; ma il tempo aveva scavato molte più ombre in uno che nell’altro. Inaspettatamente – mistero trattenuto da gocce di rugiada sulle fibre della memoria! – come chi sogna un paesaggio dimenticato, un volto scivolato via come un sasso sott’acqua, dalla luce di quegli occhi, simile a un arpione che attraversa il tempo e lo spazio, nella mente del capitano Albarrán si delinearono i tratti, il naso, la bocca, gli occhi della giovinetta che aveva preso tra le braccia come un’alga morta in quella spiaggia lontana.
«Altri quindici gradi a babordo!» ordinò, giusto per dire qualcosa.
«Altri quindici gradi a babordo!» replicò il timoniere come un’eco.
La bussola era situata di fronte alla ruota del timone, e nel guardare il giro dell’ago magnetico, i suoi occhi si posarono sulle mani che facevano ruotare le caviglie.
«Be’, non ce l’hai più quell’anello?»
«Lo tengo da parte nel mio sacco da marinaio.»
«Potresti fargli cambiare le iniziali.»
«Non so. In un primo momento ho pensato di farlo; ma poi mi sono messo in testa di ritrovare il suo proprietario.»
«Tutto quello che si trova abbandonato in mare appartiene a chi lo prende. Che si tratti di una nave o di un anello.»
«E di chi potrebbe essere? Magari di qualcuno che non era neppure delle mie isole! A lei non interesserebbe? Ha pur sempre le sue iniziali!»
«L’idea non mi dispiace. Quanto può valere?»
«Non si preoccupi di questo. Ci metteremo d’accordo. Credo che pesi circa venti grammi.»
«Quello è il valore dell’oro; ma il lavoro di oreficeria vale molto di più.»
«Ecco, se è per questo, anche per me ha un altro valore.»
«Quale?»
«Averlo trovato in fondo al mare!»
«Insomma, se preferisci non vendermelo…»
«No, capitano; glielo porto non appena lascio il timone.»
«Però devi dirmi il prezzo.»
«Quello lo tratteremo dopo; nelle sue mani è più sicuro che nel mio sacco sotto coperta.»
«Sì, non bisogna fidarsi troppo degli altri.»
Quando Julio Albarrán si ritrovò solo con il suo anello, cominciò a rigirarlo tra le dita quasi fosse una brace ardente; ma poi tentò di spegnerla infilandoselo al dito come un oggetto che gli apparteneva.
Tuttavia, nella sua coscienza quella brace continuò a riaccendersi di tanto in tanto, come un faro che illuminava le ombrose e lontane correnti del suo sangue.
Alzò più volte il dorso della mano sinistra per contemplare l’anello lucente, e tentare di non dargli troppa importanza. Ma ciò che non cessava di inquietarlo era lo strano modo in cui era tornato in suo possesso. Era perduto e dimenticato come ogni altro oggetto finito in fondo al mare, ma per uno strano caso era tornato nelle sue mani. Gli sembrò il significato della sua vita. Come se quell’oggetto brillante fosse appartenuto a un altro uomo, e mai a lui. Un uomo anch’esso dimenticato nel tempo, e che per un caso del destino era tornato a incontrare. Ma, in quell’istante, risuonò dalla coffa il grido della vedetta:
«Balena a prua!»
«Che avevo detto? Se non avessimo virato, adesso saremmo ancora sopra di loro! Barra a tribordo! Macchine a tutta forza!»
Gli ordini risuonarono sul ponte della baleniera mentre la prua puntava sul tratto di mare in cui erano stati avvistati gli spruzzi. Tutto l’equipaggio era saltato via dalle brande salendo in coperta e ciascuno si trovava al proprio posto. L’ultimo ad arrivare fu il pilota Yáñez, che stirandosi e sbadigliando, esclamò:
«Facciamo colazione con le balene?»
«Chi vuole bere un po’ di caffè passi dalla cucina.»
«Dagli spruzzi sembrerebbero capodogli», disse Yáñez, vedendo che le esalazioni di vapore salivano di lato anziché verticali, come accade con le altre balene.
Quasi che la natura tentasse di proteggere le sue creature, il sole mattutino si nascose in un cielo minaccioso e si fecero sentire le prime raffiche di vento, mentre all’orizzonte il mare cominciava ad agitarsi. Spinta alla massima velocità, la Leviatán arrivò ben presto nella zona dove erano stati avvistati gli spruzzi dei cetacei.
«Vuole mettersi ad ammazzare qualche maiale?» chiese Albarrán al pilota, alludendo alla facilità con cui si possono catturare i capodogli in confronto alle veloci alfaguara.
«Se lei non ha voglia di arpionare…» rispose il pilota, sorpreso dall’inaspettata offerta di Albarrán.
«Bisogna pur imparare in qualche modo, e questa è una buona occasione.»
Il capitano ordinò di fermare le macchine quando ritenne di essere sopra i capodogli, poiché questi hanno un udito così fine che fuggono al sentire il ronzio delle pale di un’elica. Il nostromo Bárcena, esperto quanto Yáñez e Albarrán nell’avvistare balene, salì sulla coffa. E tutti rimasero stupiti vedendo il pilota attraversare la passerella dal ponte di comando e togliere la fodera al cannone arpioniere.
La coordinazione fra i tre uomini nell’iniziare la caccia era perfetta. In realtà il migliore di loro si trovava sulla coffa; il pilota al cannone sembrava una giovane volpe, il secondo ingegnere stava all’argano e il resto dell’equipaggio aspettava concentrato al proprio posto. Solo sul ponte di comando, per la prima volta in vita sua, il capitano Julio Albarrán passeggiava silenzioso come se fosse profondamente interessato all’azione che da un momento all’altro sarebbe iniziata.
A un tratto, numerosi getti di vapore emersero quasi davanti alla prua, e il colpo secco del cannone risuonò all’istante, avvolgendo il pilota in una nube di fumo.
«Macchine a tutta forza!» gridò Albarrán, e la Leviatán, spinta dall’elica e trainata dalla corda che scorreva a strattoni dal cilindro dell’argano, raggiunse la massima velocità.
Ma riuscirono a srotolare soltanto cinquecento metri dalla mura di tribordo, dopodiché sulla superficie marina emerse il dorso nero di un animale che si rivoltava in una macchia sanguinolenta. La coda si alzò in aria due o tre volte, come grandi braccia che chiedevano clemenza al cielo, basso e cupo. Poi si dibatté con le ultime forze dell’agonia e infine il ventre biancastro dell’animale rimase a galleggiare inerte tra le onde. Il capodoglio era morto. Non fu necessario il colpo di grazia. L’arpione era penetrato in profondità nel fianco sinistro dietro la testa, che costituisce una terza parte del corpo. La granata era esplosa tra i polmoni e il cuore, perché la respirazione si era convertita in un fiotto di sangue che si levava dalla nera testa come una ciminiera in fiamme in mezzo al mare.
Usando la stessa sagola legata all’arpione, la preda venne recuperata e issata accanto alla fiancata, le iniettarono l’aria e, piantata un’asta con il gagliardetto della nave, la lasciarono alla deriva, dopo che Pedro Nauto, al posto del cuciniere, le aveva mozzato le enormi pinne caudali.
Quel taglio rituale veniva fatto non solo per facilitare più tardi il traino del cetaceo agganciandolo per i moncherini, ma anche per una vecchia superstizione secondo la quale se a una balena non venivano tagliate le pinne della coda si sarebbe persa in mare…
Il branco di capodogli tornò nelle profondità, ma la Leviatán continuò a inseguirlo sperando che dopo venti o trenta minuti i cetacei sarebbero stati costretti a riemergere per respirare. La cosa importante, data la profondità e la velocità che possono raggiungere, era manovrare verso il punto della prossima emersione.
Esattamente mezz’ora dopo tornò a risuonare il grido del nostromo dalla coffa, che questa volta indicava i capodogli a babordo. Il branco non si era disperso; al contrario, sembrava che emergessero più uniti dalle profondità per rendere omaggio al compagno morto, e anziché fuggire convergevano nella zona dove il mare era insanguinato.
«Che le dicevo, è come ammazzare maiali!» urlò dal ponte Albarrán al pilota.
«Sono dodici o quindici!» gridò dalla coffa il nostromo.
Gli aiutanti del pilota avevano già ricaricato il cannone e sistemato la sagola e la corda recuperata. La battuta di caccia cominciò a entusiasmare Albarrán.
«Vada a prua, perché ci sarà bisogno di più uomini!» ordinò al timoniere, prendendo la ruota del timone.
Sentì l’impulso dei suoi anni giovanili, quando aveva iniziato come timoniere. A volte con una mano manovrava le caviglie e con l’altra azionava le campane delle macchine, o gridava nel megafono di bronzo per facilitare la manovra e offrire al pilota la posizione migliore per sparare. Solo di tanto in tanto alzava lo sguardo verso le mani del nostromo, che, come quelle di un dio onnipotente piazzato sulla coffa, si levavano decretando la vita o la morte dei cetacei le cui ombre potevano apparire da un momento all’altro sotto la superficie. Ma questi, così stupidi o così eroici, avanzavano stringendosi sempre più attorno al compagno morto.
«Sembra che quello che abbiamo ammazzato fosse il maschio capobranco!» esclamò Bárcena dalla coffa.
Di lì a poco, la Leviatán fu nuovamente su di loro, e a soli venti metri, Yáñez sparò il secondo colpo, efficace quanto il primo. Quasi nello stesso modo del precedente, l’animale ferito si gettò a picco verso le profondità. Poi risalì tre o quattro volte avvolto in un manto di sangue. Alla fine stirò la coda, la pancia emerse e l’argano lo avvicinò alla prua, dove i colpi di lancia del suo carnefice misero fine all’ultimo dei suoi giorni.
La caccia continuò così, con la stessa coordinazione fra i tre uomini. L’equipaggio sembrava contento di vedere il suo capitano svolgere le funzioni di semplice timoniere, il nostromo al posto di vedetta e il pilota che si allenava a diventare in futuro un bravo capitano arpioniere. Spesso le ondate colpivano la nave di traverso e la coffa oscillava sull’alto del trinchetto come un pendolo a rovescio. Allora Bárcena smetteva di dirigere quella sinfonia mortale e, ricordando di aver visto più di un mozzo scaraventato in mare o schiantatosi in coperta, si aggrappava con entrambe le mani ai bordi della coffa.
«Provi a sporgere almeno un dito!» gli gridò ironicamente Albarrán.
«Quando avvisterò delle balene!» gli rispose.
«Ma se stanno lì, praticamente sotto il suo naso! Non le vede?»
In realtà, il mare si era ingrossato e tra i burroni d’acqua comparivano e scomparivano di tanto in tanto i dorsi volteggianti dei cetacei, simili a inquietanti scogli. La Leviatán avanzava a scossoni tra una mareggiata e l’altra, e Yáñez non si sentiva più molto sicuro sul castello di prua, e a volte doveva aggrapparsi al cannone. Nella sua mente era riaffiorato anche il caso di un capitano norvegese che, avvinghiato alla culatta, aveva schiacciato per sbaglio il grilletto e allo sparo del cannone era stato trascinato negli abissi dalla corda come fosse una pagliuzza. Un altro arpioniere era finito con le gambe spezzate perché la corda dell’argano lo aveva scaraventato contro il cannone. Con una certa freddezza, ma senza alcuna crudeltà, il capitano Albarrán continuava a manovrare il timone per facilitare il lavoro ai suoi uomini. «Soltanto così imparerai», diceva dentro di sé, intuendo che il pilota avrebbe desiderato essere sostituito all’arpione.
Quando avevano ormai catturato sei capodogli, Albarrán gli urlò che era disposto a rimpiazzarlo; ma Yáñez gli rivolse un lento gesto di rifiuto con la mano. Così come avevano saltato la colazione, anche il pranzo andò in bianco. Nessuno di quegli uomini indietreggiava; sembrava che si fossero nutriti con il sangue che a volte era arrivato a schizzarli fin sulla coperta con un’ondata sanguinolenta, o con lo spruzzo della respirazione del cetaceo, quando veniva finito con la lancia che gli attraversava i polmoni e il cuore. La manovra di accostamento alla fiancata per iniettare l’aria diventava sempre più pericolosa. Persino il nostromo scendeva dalla coffa e si sporgeva con metà corpo fuori coperta, mentre due marinai distesi bocconi lo tenevano per i piedi affinché non cadesse in mare.
A metà pomeriggio c’erano otto capodogli sparsi nella zona di caccia. L’orgia di sangue sembrava giungere al termine.
«Laggiù si vede qualcosa, però non soffia!» gridò il nostromo dalla coffa, mentre con la mano tesa indicava l’orizzonte, a babordo.
La Leviatán prese la rotta segnalata.
«Questo è l’ultimo, pilota; poi cominciamo a raccoglierli!» urlò Albarrán, sporgendo mezzo corpo oltre la passerella.
«Io non vedo niente», ribatté Yáñez, facendo un cenno svogliato con la mano.
«Laggiù, pilota, a circa mezzo miglio! Non spruzza, però sale e scende tra le onde!»
«Eccolo!» gridò Yáñez.
«Siamo pronti?» ruggì Albarrán.
«Pronti!»
La baleniera puntò dritta su un’onda più scura che saliva e scendeva tra le altre. L’intero equipaggio era in attesa, stanco, ma ancora assetato di sangue. Albarrán, sul ponte, si tolse il berretto per grattarsi la testa.
«Fermare le macchine!» ordinò nel megafono evitando di urlare.
La Leviatán ancora una volta si ritrovò a cavalcare le grandi mareggiate sfruttando soltanto la spinta d’inerzia. All’improvviso, l’onda nera emerse vicino alla prua e subito dopo risuonò lo sparo. Per un attimo sembrò che il cetaceo fosse riuscito a ingannare tutti. L’equipaggio credette che il pilota non avesse centrato il bersaglio, ma pochi istanti dopo la massa nera andò a perdersi nelle profondità trascinando sagola e corda.
«Sembra che l’abbia fottuto al primo colpo!» esclamò Yáñez.
«Per me non era un capodoglio, ma un’alfaguara!» disse Bárcena, scendendo dalla coffa.
La corda continuava a scorrere a tutta velocità, cinquecento, ottocento, mille, millecinquecento metri di sette pollici di spessore, che si srotolavano fumando dal cilindro dell’argano.
«Anche a me è sembrata un’alfaguara», confermò il capitano.
«Il pilota l’ha centrata bene», commentò Pedro Nauto, dalla scaletta che portava in cabina.
Albarrán gli fece un fischio e lo lasciò di nuovo al timone.
La corda continuava a srotolarsi per tutta la sua lunghezza, e alla fine rimase attaccata solo alle molle degli ammortizzatori in fondo alla stiva. La nave, con le macchine a tutta forza, cominciò ad aumentare la velocità trainata dalla preda nelle profondità.
«È dura a morire, però sta cominciando a risalire!» disse il capitano, constatando che l’angolazione della corda tesa dal trinchetto al mare stava aumentando.
Poco dopo, effettivamente, un gigantesco dorso blu emerse in lontananza, e si incurvò tenendo sempre tesa la corda. Quando gli strattoni diminuirono e l’argano iniziò a recuperare la grande preda che si agitava tra le onde increspate, il caratteristico sciabordio sanguinolento divenne formidabile. Era un enorme animale che si dibatteva tra gli ultimi spasmi della morte; ma, a un tratto, tutti, con gli occhi spalancati per lo stupore, scorsero un altro cetaceo più piccolo che gli girava intorno assistendo all’agonia. Ormai vicino alla prua videro il bell’esemplare di balena azzurra scosso dagli ultimi tremiti, e, al suo fianco, come un riflesso della sua ombra, il figlio, un balenottere appena nato, lungo circa sette metri.
Dalla madre morta e dal piccolo che nuotava nel suo sangue, gli sguardi di tutto l’equipaggio si spostarono sul pilota. Albarrán si tolse di nuovo il berretto e si grattò la testa. Bárcena abbassò lo sguardo come se stesse cercando una fune sulla fiancata.
«Non sono riuscito a vederlo; doveva essere dall’altra parte che prendeva il latte!» disse il pilota, quando gli portarono la lancia per dare il colpo di grazia al cetaceo.
Afferrò la tradizionale arma dell’arpioniere con un gesto di stizza, e quando gli piazzarono l’animale nella posizione giusta per ricevere il colpo, accostato alla prua che saliva e scendeva tra le onde, la scagliò approfittando di un beccheggio. Ma poi, sentendo il sordo lamento lanciato dalla balena nel suo ultimo spasmo e vedendo il balenottera sporgere il muso per attaccarsi al petto della madre morta, il pilota Yáñez si inginocchiò sul castello di prua, si tolse il berretto e si fece il segno della croce al cospetto di tutti: per la prima volta vedevano un balenottero comportarsi in quel modo.
«Che gli succede al pilota?» chiese Pedro Nauto dal timone.
«Ha ucciso una balena madre, che aveva appena partorito», disse il capitano, e aggiunse: «Un baleniere che si rispetti non deve mai fare una cosa simile!»
La notte, mentre tornavano ad andatura ridotta per il branco di capodogli e l’alfaguara al traino, intorno a quest’ultima sembrava che qualcosa continuasse a gironzolare sott’acqua, e quell’ombra offuscava le coscienze dei balenieri.