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Il capitano Albarrán aveva l’abitudine di evocare gli eventi della sua vita come se nuotasse tra due acque. Vi era un oscuro mondo vitale, subcosciente, attraverso il quale era solito scivolare certe volte a suo piacimento. Come il capodoglio o la balena, che hanno bisogno ogni venti o trenta minuti di risalire in superficie per immettere aria nei polmoni e ossigenare il sangue, lui risaliva ogni tanto alla luce della coscienza, e faceva un breve esame dei suoi ricordi più intimi.

Adesso, soprattutto, dal momento in cui quel ragazzo era salito a bordo e gli aveva inaspettatamente riportato il suo anello, sentiva il bisogno di respirare aria più pura tuffandosi nella vita passata. Che ne aveva fatto lui di quella vita, in fin dei conti, ora che aveva ormai compiuto il mezzo secolo d’esistenza? Cos’era? Un legno alla deriva, un resto umano perduto nel mare o semplicemente un mammifero, come quello che cacciava, in cerca di cibo per la sopravvivenza?

Stava nella sua cabina, pensando a questo, mentre rimorchiava i capodogli e l’alfaguara verso Decepción, a non più di tre o quattro miglia orarie.

«Tutti hanno qualcosa», si disse, «un parente, una donna, dei bambini, una famiglia, un’idea, Dio. Qualcuno a cui dare la colpa delle proprie mancanze, della buona o cattiva sorte. Qualcuno che a volte decreta la salvezza o la perdizione; per lui si compie un viaggio, si lavora, si torna o si naufraga.» Ma lui non aveva nessuno, neppure un lontano parente. Le sue due vecchie zie forse erano già morte; da molto tempo non sapeva niente di loro… Non si sentiva legato nemmeno alla sua terra, a una regione o a un paese. La sua patria, come per la balena, era il mare, e il futuro stava al di là dell’orizzonte marino. Nella sua mente c’era una sola cosa chiara: in quei trenta e più anni da baleniere aveva lavorato per arricchire gli altri; perché il padrone di un brigantino dei vecchi tempi, un armatore o una compagnia baleniera, cioè uomini che non si erano mai allontanati dalla riva, vivessero e si arricchissero grazie al suo lavoro. L’idea era più semplice e chiara che quella di Dio, o del senso della vita. Al centro di tutto, il denaro, l’unico vero Dio, tangibile e poderoso, per comprare un bicchiere di vino o i favori di una donna.

Era un po’ tardi per rendersi conto di tutto questo. Si sentiva rimpicciolito, senza alcuna grandezza personale nell’immenso lavoro di cacciatore di balene. «Forse», pensava, «bisognerebbe unirsi ad altri uomini in un’altra maniera; formare, messi insieme quei pochi, un’impresa, una compagnia per sfruttare gli altri e non farsi sfruttare.»

L’impulso più vitale nella sua vita intima era sempre stato il sesso, in certi casi fonte di piacere e in altri un flagello. Credeva che l’amore in molti casi non fosse altro che questo: l’istinto della procreazione. Come avere fame, sete, e saziarsi. Però in due o tre occasioni aveva sentito qualcosa di magico, un anelito superiore, infinito, in compagnia di una donna, che smentiva l’idea che l’amore fosse puro sesso, anche se in genere, pensandoci bene, tutto era finito con quello. Persino il ricordo incantevole, che spesso allietava la sua mente, di quella ragazzina con cui giocava a undici anni, quando ad Ancud, tra boschi di camelie, correvano insieme al fratellino più o meno della sua stessa età.

Erano alberi di camelie bianche, rosse e screziate, che popolavano anche il patio della casa delle zie estendendosi da una strada all’altra. Ricordava i pomeriggi passati a rincorrersi e le notti di luna piena giocando a nascondino con Susana e Artemio, tutti e tre all’incirca coetanei. Tremava di emozione nascondendosi dietro la bambina, con le mani appoggiate ai suoi fianchi. Gli sembrava di vedere ancora la gonnellina blu plissettata e la camicetta di picchè bianca. A volte l’abbracciava per la vita, ed era come la vertigine di un tuffo in mare.

Respirò l’aria fredda della cabina, e gli sembrò di avvertire un lontano e ombroso odore di terra umida, di percepire il verde cerato delle foglie di camelie e i suoi fiori così carnosi e aperti, ma senza profumo, o tutt’al più una tenue parvenza di quell’aroma ombratile.

Era stata colpa di Artemio ciò che era successo con Susana nel bosco di camelie, e che aveva causato il suo internato nel seminario gesuita di Ancud. Lo ricordava come se fosse appena accaduto: ad Artemio era saltato in mente di mettere Susana di schiena su dei sacchi di fieno, con la gonna alzata, simile a una camelia screziata di blu e bianco. Loro correvano intorno a un rigoglioso albero di camelie bianche sotto la luna e a ogni passaggio si gettavano bocconi sulla bambina, che li lasciava fare fingendosi addormentata. La zia Guacolda, nascosta dietro gli alberi, aveva osservato per un po’ quel gioco, e quindi si era scagliata sui bambini furibonda.

«Dirò a tutti che lei si abbraccia con il frate del seminario quando viene a darle lezioni di piano», aveva gridato lui, quando la zia li aveva fatti rientrare a suon di sberle.

Un disastro totale. Le altre due zie, Fresia e Carmen Rosa, avevano deciso che il demonio era entrato nel corpo di quel bambino, lo avevano fatto confessare, prendere la prima comunione, e internare nel seminario gesuita.

Lì era rimasto tre anni superando il ginnasio. La disciplina dei gesuiti era molto rigida ed esigente negli studi. Il collegio si trovava ai piedi di un dirupo, lontano dai novizi. In classe ginnasiali e novizi stavano divisi e tanto agli uni che agli altri era proibito parlare. Anche i cortili per le ricreazioni erano separati. Così, loro si sentivano un po’ dei piccoli demoni, mentre gli altri, che studiavano da preti, in cammino verso la santità.

Dovevano alzarsi alle sette del mattino, confessarsi e comunicarsi tutti i giorni. La confessione era volontaria, soggetta al proprio esame di coscienza, e di conseguenza i ragazzini prendevano poco sul serio la comunione quotidiana, soprattutto quando vedevano più di un ipocrita che, compunto, si avvicinava al confessionale… Quale tremendo peccato poteva aver commesso nel sonno?

Durante le vacanze scappava spesso di casa e se ne andava all’avventura con i pescatori di ostriche o con i contadini che vivevano dall’altra parte della baia di Ancud, a Quetalmahue o a Lechagua. Tornava carico di gamberi o di ricci perché le zie non lo picchiassero. Quelle fughe gli avevano offerto una precoce conoscenza della vita e la nozione di un mondo più vasto e più libero, dove l’uomo doveva farsi valere.

Un’estate, il patrigno, don Agustín Subiabre, lo aveva portato sul suo rimorchiatore d’alto mare che trainava i velieri in partenza da Ancud carichi di legname e diretti a nord, verso l’Atlantico, o verso l’immenso Pacifico fino all’Australia.

Una volta, sistemata una cassa di paraffina davanti al timone, lo aveva fatto salire sopra permettendogli di afferrare per la prima volta le caviglie della ruota. Gli aveva insegnato a leggere la bussola per usare i riferimenti dei gradi, finché un giorno era stato in grado di condurre da solo fuori dalla baia il rimorchiatore Victoria, passando tra le isole Sebastiana e Cochinos, imboccare il canale di Chacao e mettere la prua su Punta Calvario, dove si trovava lo stabilimento baleniero.

In uno di quei viaggi, dopo aver avvertito il patrigno, si era imbarcato su un brigantino che salpava per la caccia alla balena seguendo la corrente di Humboldt verso l’Ecuador. In quell’occasione aveva conosciuto le isole Galápagos e quel barile di Post Office Bay sull’isola Floriana.

Conservava un buon ricordo del patrigno, morto a cinquantaquattro anni. Lo aveva aiutato economicamente durante gli studi nel seminario, ed era quello che lo capiva di più, mentre le zie lo consideravano «un bambino difficile», da cui «ci si poteva aspettare il peggio», oppure «il meglio», come ribatteva il patrigno. In due occasioni era passato a far loro visita; nell’ultima, la zia Fresia era già morta. Restavano doña Guacolda e Carmen a fare torte e dolci per rispettabili cittadini di Ancud, e a tenere a pensione alcuni studenti del seminario. Poi, non aveva saputo più nulla di quelle uniche parenti rimaste sulla terra dove era nato, perché in quanto a sua madre… Quello era il ricordo più confuso e doloroso che si annidava per sempre nel suo cuore! Dove si trovava?

Nel tentativo di ricordarla, riemergeva confusamente la sua immagine graziosa, dai bei tratti, occhi vivi e carezzevoli, e ciocche ondulate che cadevano vezzosamente sulla fronte.

E così se la ricordava quando l’aveva vista accomiatarsi dal capitano del veliero che il patrigno rimorchiava in mare aperto. Nel momento in cui le imbarcazioni si separavano, il capitano, mentre i piloti e l’equipaggio issavano le vele e la nave prendeva lentamente la sua andatura, aveva portato un grammofono a poppa mettendo su il valzer Angela mia. Qualche tempo dopo aveva lasciato il patrigno, e come una lontana musica portata dal vento, anche lei se n’era andata su un veliero in mare aperto con rotta sconosciuta.

Perché… Dove si trovava?

In una delle visite alle zie, queste gli avevano mostrato la fotografia di una signora bassa, grassa, con le caratteristiche ciocche crespe sulla fronte, che dava da mangiare alle galline in una piccola fattoria di San Francisco in California. Lui aveva guardato di più le galline che quel viso ormai cancellato nella memoria.

Poi la vita di baleniere lo aveva portato da un porto all’altro, sempre di passaggio, senza pensare mai di mettere radici a terra. A volte era riuscito a risparmiare qualche peso pensando alla vecchiaia; ma poi se li era spesi in bagordi. Non avrebbe mai pensato a una donna fissa, finché non fosse rimasto sulla terraferma. Perché? Non lo sapeva; gli sembrava più sicuro…

L’amore? Conservava alcuni ricordi di qualcosa che poteva esserlo stato, ma che in un modo o nell’altro era sempre finito bruscamente.

Era forse amore quello di quei tre giorni di entusiasmante avventura trascorsi in gioventù nella città di Valdivia?

La baleniera si era fermata per effettuare alcune riparazioni nel porto di Corral. Era un tre alberi con lo scafo di legno, vecchio e largo, ma stabile in mare come una chiatta. Lui era molto giovane, ma svolgeva già le funzioni di caposquadra su una delle scialuppe baleniere della Pumalin. Insieme ad altri compagni avevano ottenuto tre giorni di permesso ed erano andati a passarli a Valdivia, la città che rimaneva a qualche ora di rimorchiatore risalendo il fiume.

Ricordava spesso con piacere i particolari di quell’avventura. Tutti e tre erano così giovani! Avevano pranzato nel mercato della città mangiando gallina in umido ed empanadas. Il vino con le fragole aveva contribuito all’allegria dei tre balenieri. A metà pomeriggio si erano messi a passeggiare per la città. Il simpatico Villarroel aveva avuto quell’idea: svoltando un angolo, una bella ragazza era comparsa dietro di loro sullo stesso marciapiede. «Pago un pranzo a chi è capace di rivolgerle la parola e accompagnarla per più di un isolato», aveva esclamato Villarroel vedendo che la giovane procedeva nella loro stessa direzione. Avevano rallentato di proposito l’andatura. Era una donna alta, dalle forme prosperose, la camminata lunga e svelta. Quando era arrivata alla loro altezza le avevano ceduto il passo. I tre erano rimasti indecisi; ma lui aveva preso l’iniziativa staccandosi dal gruppo per raggiungerla.

La donna si era voltata a guardarlo, con una certa fissità nello sguardo, ma con tranquillità. Lui le aveva sorriso, un po’ stupidamente. «Sarà ubriaco», doveva aver pensato la donna. Indossava un impermeabile verde cangiante. Lui portava il suo, blu e ancora nuovo, al braccio.

Umilmente, come chi si inginocchia, aveva balbettato:

«Signorina, non si offenda… guardi… con gli amici abbiamo fatto una scommessa su chi si sarebbe azzardato a parlarle e accompagnarla anche solo per qualche passo… Io ho osato… mi faccia vincere la scommessa… Si tratta di un pranzo… Se vuole, la invitiamo… Mi perdoni, non si arrabbi…»

La donna lo aveva guardato dall’alto in basso, studiandolo.

«Va bene, andiamo pure», aveva acconsentito sorridendo.

Non ricordava bene cosa le avesse detto dopo… Avevano camminato insieme per uno o due isolati… Gli sembrava ancora di sentire il profumo seducente che emanava quel corpo dall’incedere vigoroso. I suoi occhi lanciavano conturbanti scintillii, come se fosse stata una dea che camminava avvolta nella propria aurea.

Il cuore gli balzava in petto. Non si era voltato neppure una volta a guardare gli amici. Gli sembrava di aver dimenticato tutto, persino la sua nave. Gli interessava soltanto camminare per sempre a fianco a quella donna bellissima. Avevano svoltato l’angolo proseguendo per un’altra strada. Solo a quel punto si era girato a vedere se i suoi compagni erano spariti.

«Io vivo qui!» gli aveva detto a un tratto, fermandosi di colpo davanti alla porta di una casa di legno a due piani.

«Allora…» aveva balbettato.

«Ha vinto la scommessa.»

«Sì… grazie, ma non potrei continuare ad accompagnarla?»

«Se vuole… può entrare un momento», gli aveva detto sorprendentemente, infilando la chiave e aprendo.

La porta dava direttamente su una scala che portava al secondo piano. L’aveva seguita. Mentre la guardava salire, l’affascinante figura si era delineata in tutta la sua bellezza, le gambe perfettamente tornite. Era salito quasi senza fiato. Sopra, a metà di un corridoio, lei aveva aperto un’altra porta. La stanza sembrava quella di una pensione.

«Vivo da sola», aveva detto, e poi spostando alcuni indumenti intimi da una sedia: «Si accomodi».

La donna parlava in tono deciso, disinvolto. Lui, invece, era turbato; non sapeva come comportarsi né cosa dire.

«Devo uscire tra poco», aveva detto sedendosi davanti a una toeletta con tre specchi, due dei quali girevoli, che le inquadravano di profilo il volto e il busto.

Nel passare il pettine sulla chioma sciolta, la bellezza della donna aveva acquisito tutto il suo splendore. I capelli erano castani, ondulati, e ricadevano come un’onda incorniciando quel volto dalla carnagione leggermente scura, le labbra piene, soprattutto quello inferiore, che si apriva come un petalo carnoso. I grandi occhi scuri sembravano cogliere ogni particolare con sguardi ondeggianti. C’era un vigore giovanile in quella donna sulla trentina o poco più che saliva dal busto, dalle spalle, e si spandeva in quella chioma e in quegli sguardi.

«Posso restare ancora in sua compagnia?» aveva chiesto tentando di controllare la voce.

«Se vuole… devo andare a fare alcune compere.»

«L’accompagnerò, e poi, se le pare, possiamo mangiare insieme», aveva detto in tono più sicuro.

«Marinaio?» aveva chiesto, a un tratto, come se non si aspettasse una risposta.

«Sì, marinaio.»

«Della marina militare?»

«No, mercantile.»

«Su qualche nave passeggeri?»

«No; su una baleniera che viene dal sud…»

«Ah…! Un baleniere…» aveva commentato la donna con una vaga delusione, per poi aggiungere in tono vivace: «Ufficiale?»

«Sì, ufficiale navigatore.»

La donna aveva continuato a pettinarsi; alzando il braccio, il busto si muoveva in uno slancio che accentuava la floridità della sua bellezza pervasa da qualcosa di animalesco.

Lui la contemplava ormai completamente eccitato. All’improvviso, aveva sentito la spietata sferzata del sesso nel suo sangue; il cuore aveva preso un ritmo leggero e sordo. Socchiudendo gli occhi vedeva davanti a sé qualcosa di simile a un bagliore purpureo; in bocca sentiva uno strano sapore che gli ricordava l’istante in cui si ergeva sulla prua della scialuppa baleniera con l’arpione in alto, in cerca del dorso sfuggente del cetaceo per piantarcelo. Si era inumidito le labbra con la lingua.

«Andiamo?» aveva detto in tono distratto, alzandosi.

«Andiamo!» era stata la risposta di lui, con voce profonda e cavernosa.

L’aveva guardata alzarsi in piedi; forse era stato quello l’istante in cui più aveva amato e odiato al tempo stesso una donna…

«Come si chiama?» le aveva chiesto mentre lasciavano la stanza.

«Elsa…» aveva risposto sussurrando la esse quasi in un sibilo. «E lei?»

«Albarrán, Julio Albarrán, per servirla…» e aggiungendo: «Lei è di queste parti?»

«No, sono di passaggio; vengo dal nord.»

La notte erano saliti come due ombre per quella stessa scala. Avevano mangiato, bevuto e ballato insieme; ma quando aveva posseduto quella bellezza non avevano trovato conferma le sue aspettative del primo incontro. Solo nei successivi amplessi si sarebbero intesi sessualmente, facendo riemergere qualcosa dell’iniziale incanto.

Erano stati insieme tre giorni. A lui sembrava di amarla con tutto l’impeto della sua giovinezza. L’avrebbe sposata, sarebbe stato disposto a restare tutta la vita accanto a lei, ma che lavoro poteva fare a terra? Cosa avrebbe arpionato nelle tranquille acque di quel fiume? Non si era mai sentito così intensamente felice prima; finché non era dovuto partire…

«Bene… e adesso?» aveva chiesto lei al momento di salutarsi.

«Me ne vado…» aveva detto lui, tentando di non fare caso al senso di quel tono.

«E i soldi per me?» era stata la domanda con tanto di cenno inequivocabile delle dita.

«Soldi? Se li ho spesi tutti con te! Mi resta giusto di che pagare il biglietto per Corral!»

«No; non può essere», aveva detto con uno strano tono duro. «Allora, devi lasciarmi qualcosa.»

«Che ti posso lasciare?»

«Quell’impermeabile.»

«Va bene, prendilo.»

Ed era sceso per le scale come una furtiva ombra solitaria.

E così stava ricordando altri fatti della sua vita di passaggio nei diversi porti. Non gli piacevano i postriboli; ma non c’era altro da fare alla fine di un lungo viaggio, quando tutto l’equipaggio scendeva a terra desideroso solo di donne e vino. Poi, quando era già secondo ufficiale sulle navi e come tale responsabile degli uomini, aveva notato che, dopo una prolungata astinenza, l’equipaggio diventava intrattabile; la prima notte a terra finiva quasi sempre in rissa, ma una volta soddisfatto il bisogno di donne, tornavano a essere gli individui più pacifici.

Meditando sul significato dei suoi sentimenti attraverso quegli eventi vissuti, gli sembrava di aver amato tutte le donne con le quali aveva avuto un contatto. Persino la prostituta comprata per una notte, l’avrebbe sposata l’indomani! Che cos’era? Amore, sesso? Non lo sapeva.

Ricordò Josefina, la ragazza di Lima incontrata nel ristorante El Chalaquito, nel porto di Callao. Lei se ne stava seduta da sola a un tavolino, quando lui si era seduto a un tavolo di fronte ordinando un piatto di ceviche, tenero pesce crudo con limone e peperoncino. «È molto piccante», l’aveva avvertito lei, accorgendosi dall’uniforme che non era un marinaio peruviano. I loro sguardi si erano incontrati. Un’occhiata intensa, che ancora ricordava come la più straordinaria forza di attrazione mai vista in un paio di occhi in tutta la sua vita. Uno sguardo che l’aveva fatto appoggiare al bordo del tavolo. Più tardi lei, nell’intimità, avrebbe detto che le era successa la stessa cosa.

Era una donna dalla pelle molto chiara, con i capelli e gli occhi scurissimi. La ricordava anche perché, su proposta di lei, aveva visto per la prima volta una corrida di tori.

Era stato il giorno dopo, nella Plaza de Acho, a Lima. Vi partecipavano tre famosi toreri. Durante la corrida del primo non aveva capito bene di cosa si trattasse. Gli sembrava una crudeltà senza senso pungolare quel bell’animale standosene su un cavallo protetto da imbottiture, e poi quell’accanirsi a piantargli sul groppone le banderillas che gli ricordavano i gagliardetti lasciati come segnalazione sulle balene alla deriva. Ferire per ferire, con il fine di far infuriare un animale, e vedere il suo sangue scorrere come una lunga ferita aperta sul collo nero, rilucente di sangue e sudore. Pensava che avesse molto più senso e dignità arpionare una balena in mezzo alle onde stando su una fragile scialuppa.

Ma nella seconda corrida aveva compreso il coraggio di quell’uomo che si giocava la vita davanti a migliaia di spettatori ruggenti come altrettante bestie. Le sue convinzioni vacillavano. Non aveva mai immaginato che quell’individuo potesse finire come uno straccio al vento. Prima stava dalla parte del toro, in difesa dell’animale e contro il torero, e soprattutto contro gli spettatori… benché tra loro vi fossero anche lui e Josefina, lei estasiata come davanti a un altare… Poi era rimasto colpito dall’audacia e dal coraggio di quell’uomo… E così aveva assistito alla seconda corrida, spostando lo sguardo dal toro all’uomo e dall’uomo al toro, scatenato come una forza della natura. Una cosa che lui conosceva: gli elementi della natura che si scatenano. Solo che in mezzo all’oceano non ci sono spettatori, né un rifugio dove trovare riparo dall’assalto di una tempesta. Soltanto il cuore dell’uomo e la sua resistenza agli spietati elementi che non obbediscono a legge divina né umana. Era come se tutta la natura, al pari di quel toro, odiasse l’uomo per essersi avventurato a sfidarne la forza. Sapeva bene di cosa si trattava, quando né un’imprecazione né una preghiera possono fornire alcun appiglio di fronte alle scariche d’acqua e vento su quattro fragili tavole. C’è solo l’uomo, e il suo piccolo cuore stretto come un pugno. Così vedeva il torero, e per questo alla fine si era sentito dalla sua parte.

Nella terza corrida si era verificato un fatto che avrebbe determinato la definitiva scelta di parteggiare per l’uomo. Nell’arena si esibiva il torero più famoso della giornata; ricordava ancora il cognome, Bienvenido. Era un uomo basso, che rendeva più imponente la mole del toro. Indossava un costume di un verde sgargiante, quasi fosse un grosso protozoo fosforescente intento a giocare con un’onda nera che tentava di inghiottirlo. A un certo punto, tra le rischiose evoluzioni di muleta e spada, il corno affilato lo aveva colpito in fronte scaraventandolo per terra. Gli aiutanti erano accorsi e, mentre alcuni attiravano il toro, altri lo trascinavano via dall’arena in stato di incoscienza. C’era stata una lunga attesa. La belva formata dalle migliaia di teste del pubblico sembrava esalare un sospiro d’angoscia o di soddisfazione. Dopo un quarto d’ora o venti minuti, ruggiva di nuovo vedendo che Bienvenido tornava nell’arena con una vistosa benda: il corno dell’animale gli aveva lacerato un sopracciglio, ma il torero voleva portare a termine il suo compito. E così era stato; aveva affondato la spada dietro la nuca e il toro era caduto inginocchiato ai suoi piedi, ma con le zampe posteriori ancora salde. E si trascinava in avanti cercando di incornarlo, con le anteriori piegate e facendo forza sulle posteriori. Quel temerario si era alzato in punta di piedi davanti al muso della bestia agonizzante, e a ogni cornata faceva un saltello come se danzasse, finché, di colpo, il toro era crollato come una massa inerte affondando la testa nella polvere davanti a lui. Allora il torero si era alzato ancor più sulle punte agitando il berretto per salutare con un gesto di vittoria. Tutta la Plaza de Acho lo acclamava in piedi, e anche lui aveva emesso un ruggito quasi animalesco, per il trionfo della sua specie.

Dopo la corrida, quella notte, Josefina l’aveva portato a un combattimento di galli. Il locale, sordido, aveva qualcosa che ricordava un circo al chiuso; l’atmosfera viziata contrastava con la vasta arena all’aria aperta della Plaza de Acho. Un’alta recinzione di filo di ferro chiudeva il cerchio dove si sarebbero svolti i combattimenti, contenendo anche gli organizzatori dello spettacolo e gli allibratori. Intorno, seduta su panche di legno o in piedi, si accalcava una folla avida e inquieta, che scommetteva sui galli pronti a battersi fino alla morte all’interno del recinto. Attraverso la rete di ferro, gli organizzatori raccoglievano il denaro delle scommesse e consegnavano le ricevute. Su insistenza di Josefina, avrebbe giocato e vinto con una fortuna incredibile.

Ma fin dall’inizio lo spettacolo, così diverso dalla corrida, lo aveva disgustato. Era di una bassezza e meschinità ripugnante, come se tutta la crudeltà dell’uomo fosse passata dal portamento di un toro furioso a quello di un ripugnante topo di fogna. Nella corrida non c’erano scommesse; qui invece veniva allo scoperto l’avidità dell’animo umano nei confronti di quelle banconote bisunte che andavano e venivano da una mano all’altra nelle scommesse. In cinque combattimenti, aveva perso solo una volta.

Al centro del cerchio avevano portato un bell’esemplare di gallo rosso e un altro nero con riflessi bluastri. Erano galli piuttosto piccoli, ma che dimostravano uno straordinario vigore. Prima di lasciarli liberi nell’arena, i due individui che li tenevano tra le mani avevano verificato i legacci dei due piccoli pugnali sistemati come un prolungamento degli speroni. Erano lame affilate di cinque o sette centimetri, il cui acciaio sottile brillava come l’anima di quegli uomini sulle zampe degli animali innocenti.

Due tremanti fasci di nervi irti di piume stavano uno di fronte all’altro, con le zampe fermamente piantate nella sabbia. Gli occhi, iniettati di odio, sembravano due scintille, e i colli, simili a due corde tese, si allungavano tentando di misurare una qualche misteriosa distanza.

All’improvviso, come due elastici, si erano lanciati uno contro l’altro, e in un attimo i colpi di becco e di sperone si erano confusi in un vortice di piume nere e rosse. Ma lo scontro era stato brevissimo, come se si fosse trattato di una manovra tattica per saggiare le forze del nemico. Stavano di nuovo uno di fronte all’altro, con qualche piuma in meno. Al secondo salto, era sembrato che una piuma rossa fosse rimasta attaccata al gallo nero; ma i sostenitori dell’uno e dell’altro avevano notato con allegria o timore alcune gocce di sangue. Al terzo assalto, il rosso era caduto a terra, e il nero aveva tentato di balzargli sopra, ma era stato subito respinto. I suoi balzi sulla sabbia cominciavano a farsi più cauti, e ogni tanto vacillava. Il sangue continuava a sgorgare come rugiada sulle piume del nero. Poi, alcune gocce di sangue erano comparse anche sulle estremità del gallo rosso, fino a quel momento nascoste dal piumaggio. Una parte dei presenti sembrava agitarsi. Tutti quegli uomini e qualche donna stiravano il collo e allungavano sguardi avidi sull’arena, come se fossero altrettanti uccelli più grossi.

Da un altro scontro, il gallo nero era uscito più stordito e, ormai vacillante, aveva mosso qualche passo intorno all’avversario tentando di attaccarlo di lato. I piccoli pugnali adesso brillavano solo in parte, screziati com’erano di sangue. Gli assalti si erano diradati, e di lì a poco entrambi si fronteggiavano come inebetiti, le piume del collo meno ritte, ma con gli occhi sempre scintillanti di odio. Nonostante ciò, avevano ripreso a battersi, finché tutti e due erano caduti malridotti sulla sabbia. Adesso l’intera folla si agitava, in preda al dubbio. Era un’unica bestia dalle mille teste, tormentata dalla possibilità di vincere o perdere, legata alla vita o alla morte di quei poveri animali.

Il sangue aumentava sul piumaggio nero e per un attimo lo scintillio degli occhi era sembrato spegnersi. Il gallo rosso, più integro, all’apparenza si stava riposando, recuperando le forze per un nuovo assalto. Poco dopo, il nero aveva cominciato a piegare la testa di lato, come se entrasse in agonia. C’era stato un battito di ali del rosso, che tentava di volare contro l’avversario, ma senza riuscire a fare altro che trascinarsi per un breve spazio.

L’attesa cresceva, con la maggioranza che tifava per la morte del nero. Josefina si era stretta al braccio di Albarrán, poiché avevano scommesso forte su quello dal piumaggio nero. A un tratto, uno della giuria si era fatto avanti portando una tavola, che aveva poi messo tra i galli come un paravento, e quando tutti ormai aspettavano da un istante all’altro la morte del gallo nero, quello rosso, che sembrava messo meglio, era crollato come un piumino inservibile, dando un’ultima beccata che l’aveva lasciato con il becco piantato nella sabbia e la coda grottescamente sollevata sulle estremità inerti. Con fare solenne, l’uomo aveva alzato la tavola che li separava, e alla vista del cadavere del suo rivale, quello nero aveva tentato di battere le ali per raggiungerlo ancora una volta, ma poi anche lui piegava la testa fino a piantare il becco nella sabbia. Ma ormai una buona parte dei presenti urlava, agitando come bandiere vittoriose le ricevute delle scommesse.

«Hai avuto la fortuna del principiante», gli aveva detto Josefina una volta usciti in strada, contenti della vincita.

Fuori, le luci della città rischiaravano un cielo cotonoso e basso. Albarrán si era riempito i polmoni con l’aria pura della notte; aveva tastato nella tasca dei pantaloni il vecchio portafogli rimpinguato dalle scommesse, e, se non fosse stato per Josefina, si sarebbe diretto immediatamente al Callao per salire sulla sua nave, poiché andando a caccia di balene si sentiva come un angelo, in confronto alla crudeltà e avidità dimostrata da quegli uomini sulla terraferma.

Ma a un certo punto avevano sentito la musica di una marcia lenta e lontana. Giunti in fondo alla strada, il suono di una banda guidava una moltitudine che marciava con un diffuso splendore di torce e lanterne cinesi.

«È la festa del Signore dei Miracoli», gli aveva detto Josefina.

«Che miracoli ha fatto?»

«Dicono che ai tempi del colonialismo uno schiavo nero l’aveva dipinto su un muro dei recinti dove li tenevano prigionieri… Un giorno si sono ribellati e il governo ha mandato i soldati a reprimerli; ma in quel momento si è scatenato un terremoto e gli attaccanti sono fuggiti vedendo che i muri del recinto crollavano. È rimasta in piedi soltanto la parte di muro con il volto del Cristo dipinto.»

Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini sfilavano tra canti e luminarie riempiendo viale dopo viale l’immensa avenida. Il Cristo veniva portato a spalla da vari fedeli. Anche loro si erano uniti alla processione. Sui marciapiedi c’erano bancarelle con bibite e cibarie, addobbate da pittoresche bandierine e lanterne di carta, davanti alle quali la gente si sedeva al passaggio della processione. Lì avevano mangiato il saporito anticucho, spiedini di cuore di manzo arrostiti sulla brace, e bevuto chicha de jora, una fermentazione alcolica a base di mais, e altri liquori, come il famoso pisco di Locumba. La folla sembrava ubriaca sia per la chicha che per il fervore religioso.

Verso la mezzanotte, il Cristo era stato collocato in una delle chiese di Lima, poiché la processione durava vari giorni, e ogni notte l’immagine venerata riposava in una chiesa diversa, finché non tornava nella sua. Anche loro avevano portato al riparo il loro amore in uno di quegli alberghi di passaggio che, come templi del piacere, proteggono le coppie nelle grandi città.

Quando si era dovuto imbarcare, Josefina l’aveva accompagnato fino al porto del Callao. Lì, a El Chalaquito, avevano bevuto l’ultimo bicchiere di commiato. Nella memoria la ricordava appoggiata alla torre del faro, all’estremità del molo, che alzava per l’ultima volta la mano in segno di addio. Era rimasta lì, con le mani sulla borsetta nera stretta sul davanti, di schiena al faro, come se aspettasse qualcuno.

Si erano scritti tre o quattro lettere. Lui non aveva più risalito la corrente di Humboldt fino al Perù; ma si era offerto di inviarle del denaro perché venisse in Cile. Lei non aveva risposto, e lui si era sentito liberato, perché dentro di sé il dubbio dell’infedeltà poneva sempre termine alle tracce di quegli amori.

Così, in due o tre occasioni era stato sul punto di sposarsi con una delle donne incontrate nei porti; ma le sue stesse esperienze lo avevano trattenuto.

In altri casi gli era successo, sbarcando in un porto e mescolandosi alla gente di una strada, di provare la sensazione che a un tratto avrebbe scorto un volto della donna predestinata a diventare il suo amore. Si sentiva come se avesse perso qualcosa tra quella moltitudine, qualcosa che però avrebbe potuto ritrovare di colpo. A Valparaíso, per esempio, passando su un tramvai, aveva visto una giovane seduta su una panchina della strada. Il cuore gli era balzato in petto scorgendo quel volto. Era la donna che cercava! Il tramvai aveva continuato la sua corsa e, sceso all’isolato successivo, era tornato indietro di corsa verso la donna; ma non c’era più. Quella sensazione gli era rimasta per tutta la vita. Pensava che se l’avesse incontrata riuscendo a parlarle, avrebbe avuto la conferma che si trattava proprio della donna destinata a lui. Come sarebbe finita? si chiedeva.

In piena giovinezza era ossessionato dall’idea di avere un figlio. Considerava che l’amore, il sesso, o quello che fosse, avesse quella finalità suprema: riprodursi, dare la vita e proteggerla… La natura non impartiva forse costantemente questa lezione all’uomo?

Il capitano Julio Albarrán, nella solitudine della cabina, sentì a un tratto dei tonfi che lo distolsero dalle sue riflessioni intime. Come sempre, percepiva immediatamente qualsiasi rumore strano che si verificava sulla nave, come se lui e l’imbarcazione fossero un solo corpo vivo. I tonfi si ripeterono con un suono blando e sordo. Erano i corpi degli enormi cetacei che, con le ondate e la corrente prodotta dall’andatura, andavano e venivano sbattendo contro le fiancate della Leviatán.

Socchiuse gli occhi, e per qualche istante gli parve di percepire un colpo più cupo e profondo contro il fianco della nave. Immaginò che provenisse dalla balena azzurra, il cui balenottere forse stava ancora nuotando dietro le ultime tracce di sangue della madre. E il colpo fece rabbrividire anche lui in modo profondo e cupo, quando sentì i passi di un uomo dell’equipaggio che scendeva la scala del ponte. Alzò la mano e osservò per un momento il suo anello ritrovato in quel modo così singolare, come se il fantasma di se stesso lo avesse recuperato in fondo al mare per venire a infilarglielo al dito; ma il fulgore di quel metallo non era più lo stesso nella penombra della cabina.

 

11

«Il risultato che serve non arriva a coprire la spesa di combustibile per arrivare a Bahía Margarita», disse Hansen nel suo ufficio dello stabilimento baleniero.

«Si consuma lo stesso carbone girando intorno a quest’isola», ribatté Albarrán.

«Non è precisamente intorno a quest’isola che state girando… Lei è arrivato nei pressi del mare di Weddel, e, se non ricordo male, addirittura fino al Bellingshausen», intervenne l’amministratore con una certa ironia, e continuò: «Si ricordi che Bahía Margarita è il punto più vicino al Polo Sud a cui si possa arrivare per nave!»

«Infatti è proprio per questo che i maschi di balena azzurra si spingono laggiù in questa stagione», replicò il capitano. «Nei miei programmi prevedo di entrare dal canale Gerlach e uscire verso l’arcipelago di Biscoe. Non dimentichiamoci che anche Biscoe era un baleniere, e c’era un motivo se si aggirava in quei paraggi scoprendo poi le isole alle quali ha dato il nome. Se c’è da cacciare in abbondanza, bene, da lì tornerò indietro. Se no… arrivo fino a Bahía Margarita.»

Hansen guardò la carta nautica attaccata alla parete, e tra i paralleli 65 e 75, al di là del Circolo Polare Antartico, percorse con una matita la rotta di cui parlava Albarrán. Era una carta ingiallita, aggiornata con i dati delle ultime esplorazioni polari; ma isole, baie, golfi e canali erano appena abbozzati, senza ulteriori precisazioni, e, spesso, l’esperienza dei balenieri aveva dimostrato che con i disgeli succedeva di trovarsi un fiordo là dove era indicato un capo. Quando una delle sue baleniere si avventurava su quelle rotte, più che il consumo di combustibile, ciò che preoccupava l’amministratore era il pericolo che si incagliasse in acque sconosciute.

«Il mio piano era un altro…» mormorò Hansen.

«Agli amministratori piace pianificare a terra quello che non si sa come sarà in mare», ribatté Albarrán.

«In fin dei conti, è un problema suo… Io non so dove passerà una volta che si troverà dall’altra parte dei Fuelles de Neptuno… Di sicuro non verrò a fermarla quando sarà in alto mare…»

«Così è, Mister Hansen, e sempre sarà, per tutti quelli che devono bagnarsi il sedere dietro alle balene.»

«Bene, quanti giorni crede che durerà la battuta di caccia?»

«Otto o dieci giorni al massimo; gli stessi che a volte sprechiamo girando a vuoto qui intorno.»

Una volta riempite le stive di carbone e caricato i viveri, la Leviatán levò le ancore, superò le pareti rocciose dei Fuelles de Neptuno, e mise subito la prua a sud.

Il capitano Albarrán si sfregò le mani per la soddisfazione quando si sentì finalmente libero, in pieno stretto di Bransfield, libero di poter perseguire la sua ambizione nascosta!

Arrivare nelle vicinanze di Bahía Margarita non era una delle fissazioni del suo carattere ostinato; ma neppure poteva rivelare all’amministratore o a chiunque altro ciò che lo spingeva a farlo, perché sarebbe stato come confessare il puerile capriccio di un bambino. La sua aspirazione era trovare un esemplare di balena azzurra che battesse il record del capitano norvegese. Aveva sentito dire che i maschi vecchi, con la pelle ricoperta di fossili e madrepore, si aggiravano nelle vicinanze del Polo, come madreperlacei fantasmi ormai isolati dagli altri esemplari della loro specie. Con uno di quei giganteschi maschi di balena azzurra avrebbe degnamente concluso la sua stagione di caccia in Antartide, e sarebbe rimasto, come sempre, in testa a tutti i capitani arpionieri.

Quando a metà pomeriggio si stavano addentrando lungo il canale Gerlach, tutto l’equipaggio rimase in coperta attratto dallo spettacolo dei fantastici iceberg che sono soliti staccarsi dalle pareti di ghiaccio circostanti. Erano abituati a quelle grandi moli di ghiaccio galleggiante, a forma di picchi montuosi o di vaste piattaforme, che usavano spesso per mettersi sottovento quando arrivava loro addosso una burrasca in mare aperto. Ma in quel caso i ghiacci, staccatisi dalle sponde del canale Gerlach o portati fin là dalle correnti provenienti da sud, erano di tutte le forme immaginabili. La diminuzione della parte sommersa, per effetto dell’erosione, faceva sì che si capovolgessero lentamente, mostrando in superficie le ondulate cavità scavate dalle acque dell’oceano, che si combinavano con i cumuli delle recenti nevicate, ed era come se il mare e il cielo si fossero messi a gareggiare in un fantastico lavoro da scultori ciclopici.

Le forme animate della natura erano rappresentate da cigni con i colli ritorti o da elefanti con proboscidi a spirale e con le estremità incastonate in quelle pesanti moli di ghiaccio. Anche il vento aveva contribuito a cesellare fantasmagoriche forme, e le raffiche avevano abbattuto pareti lasciando a volte una o due vele piantate sulla prua, al centro o a poppa di quei velieri contorti e deformi quanto l’immagine di un Caleuche.

Uno degli iceberg richiamò in modo particolare l’attenzione di tutti: ricordava un enorme cetaceo in posizione quasi verticale per un fenomenale colpo di coda e le pinne caudali sembravano fornirgli l’impulso alla navigazione. Quando sfilò lentamente davanti alla Leviatán, Albarrán non poté fare a meno di meravigliarsi per la straordinaria somiglianza con una gigantesca balena, e per un attimo pensò che sarebbe tornato a nord con qualcosa del genere, un grande maschio di balena azzurra legato alla fiancata.

Ogni tanto, sulle piattaforme inclinate di alcuni iceberg, simili a spiagge galleggianti, si scorgevano dei corpi scuri che a distanza sembravano grossi vermi: erano foche «granchiaiole», leopardi, leoni o elefanti marini. In alcuni casi, qualche femmina aveva arrossato di sangue il cristallo azzurrino al suo intorno, forse la conseguenza di un banchetto o di un aborto.

Il canale Gerlach a tratti zigzagava come se fosse un fiordo senza uscita. I lastroni di ghiaccio erano spesso venati di nuda roccia, ma il fondale profondo permetteva una tranquilla navigazione.

Gli uomini sottocoperta cominciavano a rilassarsi, senza la tensione permanente dovuta all’attesa del grido «balena a prua!»

Olegario Vidal, uno dei marinai, si mise a suonare la chitarra e il fuochista Alfonso Ortega la fisarmonica. I due ingaggiavano sfide musicali per divertire i compagni, e spesso suonavano insieme, che era la cosa più richiesta dagli altri, poiché il suono della fisarmonica e della chitarra arrivava alle loro orecchie, in quelle lande solitarie, con un fascino che probabilmente nessuna orchestra avrebbe mai ottenuto in qualsiasi altra parte del mondo.

Soltanto una volta quel duetto si era separato in modo brusco: Vidal e Ortega se ne stavano da soli sulle brande sottocoperta cercando di accompagnarsi a vicenda in una strana canzone d’amore che quest’ultimo aveva imparato sull’isola di Pasqua, e che voleva insegnare all’amico. Questi inciampava nelle corde della chitarra peggio che se stesse salendo sulla scaletta di corda fino alla coffa in piena tempesta. Per la prima volta i due musicanti non riuscivano a intendersi. Scoraggiati, erano rimasti per un po’ a guardarsi, mentre si stemperavano nell’aria le ultime note della chitarra e il miagolio della fisarmonica che si afflosciava sconfitta. Ortega aveva detto qualcosa che a Vidal non era piaciuto; e questo era bastato perché i due lanciassero lontano gli strumenti, e balzati in piedi, si erano presi furiosamente a pugni. Quando altri uomini dell’equipaggio erano accorsi al richiamano della rissa, i due contendenti sembravano ormai sfiniti; ma benché il sangue stesse sgorgando in abbondanza, continuavano a colpirsi, avvinghiati. Ortega aveva sbattuto la testa contro un bullone della parete e, se non fossero arrivati a separarli, probabilmente il chiloese avrebbe avuto la meglio sul settentrionale.

Per un certo periodo non avevano più suonato i loro strumenti, né da soli né insieme; finché, a richiesta di tutto l’equipaggio, erano riusciti a rimarginare quell’assurda ferita.

Il capitano Albarrán non interveniva in dispute che non avessero a che fare con l’andamento della nave o i compiti della caccia; ma in quell’occasione aveva chiamato nella sua cabina i due uomini per riprenderli duramente:

«È roba da smidollati prendersi a pugni per una canzone… Nei bordelli ho visto gente sfasciarsi le chitarre in testa, ma a bordo di una baleniera… Adesso basta, riconciliatevi; tutti abbiamo bisogno di un po’ della vostra musica!…»

«Sembra che le botte abbiano fatto bene a entrambi», era stato il commento del nostromo Bárcena sentendoli suonare di nuovo insieme, e, a suo parere, molto meglio di prima…

Quella notte, dopo che la Leviatán aveva gettato le ancore a Puerto Lockroy, persino il capitano e gli ingegneri scesero sottocoperta per ascoltare il concerto di chitarra e fisarmonica.

Il capitano, entusiasta, ordinò di stappare qualche bottiglia di aguardiente dalla riserva conservata per quando i lavori di carico del carbone o della caccia risultavano troppo faticosi. Fabián preparò un buon caffè, e Pedro Nauto lo servì nelle tazze con la chicha; così chiamavano in gergo marinaresco una buona dose di aguardiente nel caffè.

Puerto Lockroy, al limite della sponda sud del canale Gerlach, è un punto riparato da tutti i venti. Il caffè corretto riscaldò gli animi, e così, in mezzo a tanta solitudine echeggiò la canzone di quegli uomini:

Sulla spiaggia di Calbuco

ho perso la mia barca,

con sette ceste di patate

e cinque chiloesi

Cinque chiloesi, ahi, sì,

bravi marinai

Nel porto dove arriviamo

sbarchiamo

Sulla torre di Huillinco

è caduta la luna,

si è rotta in diecimila pezzi,

ma non è morto nessuno.

Morto nessuno, ah, sì,

sono un marinaio

ogni caletta è un porto,

il mio approdo.

Dalle ballate chiloesi si passò a quelle del nord, nelle quali Ortega era voce solista:

Ho una lancia in mare,

due vascelli e un vapore:

uno carico di salnitro

e l’altro di carbone.

Ho un vascello in mare,

due lance e un vapore:

uno carico di salnitro

e l’altro carico del mio amore.

Alle ballate allegre seguirono valzer romantici e sentimentali:

Domani, quando sarò lontano

dalla donna amata

allora questo valzer

come un addio

Fu il nostromo ad avvertire per primo l’improvviso e strano movimento della nave.

«Cristo!» esclamò, interrompendo le canzoni.

Con quattro salti il pilota Yáñez salì sopracoperta, seguito dal capitano e da alcuni marinai. Un grosso iceberg, tondo come una boa, una sorta di palla di ghiaccio e neve staccatosi rotolando dagli alti picchi che sovrastavano Puerto Lockroy, era emerso sotto la linea di galleggiamento facendo sbandare la baleniera.

Alcuni con i ganci e altri con i remi, cominciarono a spingere la mole di ghiaccio, per fortuna non troppo dura, mentre il nostromo sistemava un paglietto per ammortizzare la pressione dell’iceberg, spinto da una forte corrente contro la fiancata di tribordo della nave.

Passato il pericolo, mentre il blocco di ghiaccio si allontanava alla deriva, capitano e nostromo si guardarono, e, tacitamente, si accordarono sul fatto che uno di loro doveva trascorrere la notte ancora una volta sveglio…

L’indomani, per due volte la vedetta sulla coffa avvistò degli spruzzi in lontananza, in direzione delle isole Biscoe; ma tutti rimasero sorpresi quando Albarrán, anziché dare l’ordine di dirigersi verso le balene, decise di mantenere la rotta a sud.

«Non sono venuto fin qui per vedere qualche capodoglio», dichiarò, dopo aver controllato con il binocolo l’inclinazione di quei deboli zampilli d’acqua.

La baleniera continuò la navigazione in mare aperto, finché, a metà pomeriggio, vennero avvistati dei grandi iceberg. Schivandoli, si diresse verso l’interno di una baia, aperta e vasta quanto un golfo; era Bahía Margarita.

Sulla sua stropicciata carta nautica, il capitano Albarrán aveva disegnato un’ancora con la matita rossa dietro l’isola chiamata Nenny, scoperta dall’esploratore Charcot e battezzata così in omaggio alla moglie. La baleniera gettò l’ancora in quel punto, tra l’isola e un’insenatura, anch’essa chiamata Nenny Fiord, sulle cui alture i blocchi di neve avevano lasciato allo scoperto striature verdastre e color ocra metallifero, simili a quelle che si vedono in altre regioni della cordigliera delle Ande. Per trascorrere la notte, quel posto era più sicuro di Puerto Lockroy, e i picchi di roccia allo scoperto mostravano per la prima volta una traccia del volto della terra, che risultava ospitale a quegli uomini stanchi di vedere soltanto ghiaccio uguale a se stesso da migliaia di anni.

Constatarono che la notte era ancora più breve che sull’isola Decepción, e fu il nostromo, anche in questo caso, il primo a dare l’allarme quando spuntarono i deboli bagliori dell’aurora: l’entrata di Bahía Margarita era coperta da un orizzonte di muraglioni di ghiaccio, e il mare intorno, completamente gelato.

«Vada a svegliare il capitano e il pilota», disse Bárcena a Pedro Nauto, che gli stava servendo una tazza di caffè. Questi scese con due balzi dal ponte di comando dove l’orologio segnava le due del mattino e il mercurio del barometro era sceso di vari gradi sotto lo zero.

«Non c’è da preoccuparsi», disse Albarrán, quando fu sul ponte. «È solo una carovana di grandi iceberg che si è staccata dalla barriera polare.»

Il silenzio e la calma regnavano, un silenzio di cristallo, che pervadeva da millenni la natura di quel luogo. Il sole polare cominciò a riverberare obliquo sulla lastra di ghiaccio che si estendeva fino all’orizzonte; ma quando la baleniera levò le ancore, quello che era solo un anticipo dello spesso pack ice si incrinò, e se non fossero stati in quella stagione dell’anno, li avrebbe imprigionati per sempre.

La Leviatán continuò ad aprirsi un varco con la sua alta prua quasi fosse una rompighiaccio, e raggiunta la zona degli iceberg, navigò tra gli stretti canali, come se stesse aggirando delle isole.

Lo spettacolo era fantastico quanto quello offerto dalle solitarie isole dell’arcipelago di Melchior in pieno mare di Bellingshausen; ma con l’aggravante che laggiù le isole non si muovevano lentamente portate dal vento e dalla corrente, restringendo i canali che da un momento all’altro potevano sbarrare il passo alla nave e persino stritolarla, come era avvenuto anni addietro alla nave Antartico, dell’esploratore Otto Nordenskjold.

All’improvviso, come se quell’immenso silenzio fosse stato allestito per rendere ancor più rumorosa la sua apparizione, una mobile massa bianchiccia e azzurrina emerse dalle acque, simile a un ennesimo iceberg vivo. Irruppe con un fragore di cristalleria in frantumi.

Lo stesso Albarrán accorse un po’ allarmato a vedere quell’apparizione, credendo si trattasse di un’altra mole di ghiaccio flottante sorta dalle profondità a minacciare la nave; ma poi si mise a saltare dall’euforia riconoscendo due poderosi spruzzi che si levavano tra gli iceberg come copiose sorgenti.

Anche il pilota rimase impietrito. Il nostromo corse a prua controllando corde e paranchi; gli uomini dell’equipaggio erano rimasti attoniti per l’improvvisa irruzione di quell’enorme cetaceo.

«Chi è che ha rotto dei piatti?» esclamò Fabián, sbucando dalla porta della cucina seguito da Pedro Nauto.

Ma l’aiutante del cuciniere si bloccò sulla porta con gli occhi sgranati dallo stupore quando dalla mura di tribordo vide innalzarsi due pinne che oltrepassarono la prua della nave e si immersero con un colpo di coda che lasciò la superficie del mare ridotta a un’immensa vetrata di cristallo infranta.

Vi fu un lungo momento di indecisione, dal capitano all’ultimo dei marinai. Albarrán non poteva lanciare il solito grido di «macchine a tutta forza!», perché lo zigzagare tra gli iceberg non permetteva di procedere più veloci. Per la prima volta, neanche dalla postazione sulla coffa era risuonato il fatidico «balena a prua!» Soltanto il pilota era riuscito a correre lungo la passerella per caricare il cannone. Un vento freddo cominciò a spirare dal sud, quasi a voler rasserenare i volti di quegli uomini attoniti.

«Dove diavolo pensa si sia infilata?» domandò il pilota, tornato sul ponte.

«A volte si spingono fino a mille metri di profondità», rispose Albarrán, in tono di sufficienza, e aggiunse: «Non abbia paura, non ci solleverà per aria come se fossimo di paglia!»

Quando riuscì a controllare l’eccitazione, ordinò di aumentare leggermente la velocità.

«Non puoi rimanere altro tempo qui da solo, vecchio mio!» mormorava tra i denti. «Devi venire via con me; sono venuto qui solo per questo, a prenderti, vivo o morto!»

Il suo istinto gli aveva suggerito, per sicurezza, di superare la barriera degli iceberg.

«Avrà trascorso tutta la notte tra i ghiacci, ma alla fine è dovuto venire su in cerca di cibo in mare aperto, poverino!» continuò come se parlasse di nascosto con qualcuno.

«Capitano, capitano!» gridò a un tratto la vedetta, e aggiunse con un tono strano: «Laggiù, laggiù, si sta grattando contro un iceberg come fosse una vacca!»

«Un vacca…!» disse con una lunga risata Albarrán. «Cinquecento, mille vacche, vorrai dire!»

Con il vento polare, il cielo si coprì di nubi dalle forme cangianti. Verso est, banchi cotonosi oscuravano il sole splendente producendo un’ombra madreperlacea; sopra, strati allungati sembravano branchi di delfini in fuga, e in altri punti, carovane di iceberg volanti imitavano le forme dei loro simili di ghiaccio. Tutta la natura del cielo e del mare, ghiaccio e nuvole, sembrava giocare placidamente, come risvegliandosi da un sonno di milioni di anni.

«Prendi tu il timone», ordinò quasi sottovoce il capitano al pilota. E attraversò come un bolide la passerella fino alla prua.

La vedetta comunicava solo con le mani, alzandole al cielo come se si sentisse impotente e pronunciasse una disperata preghiera. La baleniera procedeva con cautela lungo i canali, e il capitano, adesso saldamente aggrappato al cannone, volgeva rapide occhiate dagli iceberg al mare ghiacciato, e alle mani della vedetta che, a volte, sembrava indicare un qualche punto del cielo dove poteva essersi nascosto il cetaceo.

Il capitano avvertì un leggero dolore al petto, e si angustiò ancora di più quando, prendendo la mira sul cannone, l’occhio iniziò a lacrimare. Allora tutta la sua euforia svanì, ma poi, ripresosi, «con la testa fredda e i piedi caldi», come diceva lui, si concentrò sulle difficoltà che potevano presentarsi se dopo lo sparo quel maschio di balena azzurra si fosse immerso portandosi dietro la sagola e la corda sotto gli iceberg, e trascinando la baleniera contro gli spuntoni di ghiaccio.

Non gli fu possibile sparare subito, perché quando la nave sbucò in un tratto di mare sgombro, il cetaceo si trovava ad almeno duecento metri dalla prua, ed era quindi troppo lontano per poterlo centrare. Se ne stava di fronte alla prua della baleniera, e dato che la balena azzurra ha gli occhi molto distanziati e non riesce a vedere davanti, non poteva scorgerla. Allora ordinò alla sala macchine di avanzare molto lentamente. Per un attimo rimpianse i tempi lontani quando era a capo di una scialuppa baleniera, e nell’abbordare un cetaceo in quella stessa posizione, si avvicinavano dopo aver cambiato silenziosamente i remi con altri più piccoli, affinché il debole rumore di questi non fosse avvertito. Ma il ronzio dell’elica fu percepito dal fine udito del maschio azzurro, che si immerse tranquillamente, allontanandosi dai bordi della massa di ghiaccio.

«Vecchia volpe!» ruggì Julio Albarrán.

Come un occhio di bue, il sole si affacciò in un varco tra le nubi, e il capitano, accecato dalla luce improvvisa, trattenne per qualche istante l’immagine del cetaceo negli occhi socchiusi. In effetti, si trattava di un maschio di balena azzurra di dimensioni colossali, la cui pelle, ricoperta di microscopici molluschi, diatomee e madrepore, simile a una scogliera di madreperla, risplendeva a tratti come uno spettrale manto ingioiellato. Nonostante la frustrazione provata vedendolo immergersi, il capitano avvertì un senso di trionfo constatando che non si sarebbe arreso facilmente. Gonfiò il petto, colmo di soddisfazione, come se a un tratto avesse aspirato liberamente tutta l’aria del mare e persino i raggi del sole in quella luminosa mattinata australe.

Poi continuò con maggiore freddezza l’affannosa ricerca tra i ghiacci. A un tratto, riecheggiò l’urlo della vedetta:

«Laggiù, sta soffiando!» e indicava con la mano tesa a babordo.

Ma la nave dovette seguire la sua rotta lungo lo stretto canale in cui si era infilata, finché le fu possibile virare intorno a un iceberg e mettere la prua nella direzione indicata. Albarrán sbuffava per l’agitazione. Il secondo ingegnere, all’argano, ogni tanto faceva un salto per scrollarsi il freddo di dosso. Appena il capitano trovò una via d’uscita tra i ghiacci, urlò:

«Macchine a tutta forza!»

La Leviatán sembrò balzare in avanti come un animale predatore, e si lanciò sul mare libero dagli iceberg; ma il maschio azzurro era già scomparso dal punto segnalato.

L’eccitazione del capitano si era trasmessa a tutto l’equipaggio; persino gli uomini in sala macchine, dove quelli di turno mantenevano le caldaie alla massima pressione, aspettavano impazienti lo sparo dell’arpione.

Superato il pericolo degli iceberg, il pilota consegnò la ruota a un timoniere, e andò a rimpiazzare la vedetta sulla coffa. Lo stesso nostromo, salito a metà scaletta del trinchetto, con la mano a visiera fra gli stragli, concentrava l’attenzione sul mare, che stava increspandosi di piccole onde arricciate. A un tratto, uno stormo di tableros venne giù come una nube, screziando le acque di bianco e nero.

«È buona la zuppa», disse fra sé Albarrán guardando quei piccoli uccelli che becchettavano il plancton, dietro cui andava anche il maschio di balena azzurra, immerso ormai da almeno un quarto d’ora. Il capitano pensò che non avrebbe potuto resistere più di altri cinque o dieci minuti sott’acqua. E così fu; i suoi pensieri si bloccarono vedendo un’enorme bocca salire alla superficie come due grandi scafi sovrapposti. A quanto pareva stava espellendo l’acqua tra i fanoni sollevati, per poi inghiottire tonnellate di gamberetti. Dalle fauci fuoriuscivano a tratti dei getti di saliva schiumosa dai colori cangianti, come se la bestia si stesse mangiando un arcobaleno in mare aperto. Per qualche istante si poté distinguere il poderoso dorso bianco azzurrino, screziato di madreperla, poi tornò a immergersi con il caratteristico e formidabile colpo di coda.

Albarrán sembrava una vecchia volpe barbuta afflitta da una strana inquietudine. A volte si afferrava alla culatta del cannone arpioniere, si piegava all’indietro per guardare le mani del pilota, e pareva chiedere: «Fino a quando?…» Questi e il nostromo sembravano rispondergli con le mani: «Non c’è fretta», «Ce l’ha in pugno…»

E così fu, quasi inaspettatamente, quando il maschio azzurro riemerse lungo la mura di tribordo. Prese la mira e sparò alla distanza giusta. L’animale, ricevuto il colpo, si gettò verso il fondo così vertiginosamente che in pochi istanti srotolò tutta la corda, e da laggiù prese a strattonare, scuotendo la nave dalla chiglia al pennone. Poco dopo, la grossa fune cominciò a risalire in superficie vibrando, e, poi, il mostro splendente riapparve dibattendosi nel proprio sangue. Ma la granata della spoletta non aveva colpito organi vitali, e il cetaceo tornò a immergersi trascinando la baleniera. Tutti erano stupefatti da tanta vitalità e forza. Il capitano ordinò di manovrare con prontezza, mentre ricaricavano il cannone. Con tutta la corda fuori dagli argani, occorreva procedere evitando che questa si impigliasse nell’elica, un rischio fatale. E così avanzavano balena e nave unite ancora per qualche istante, finché il capitano ordinò di dare tutta forza alle macchine lasciando così la fune a tribordo. Questa si incurvò, producendo la caratteristica onda, come la corda con cui salta un bambino. A un’estremità la nave e all’altra il cetaceo, ancora a una profondità media. Ma la ferita e l’indebolimento per la perdita di sangue non gli permisero di rimanere molto tempo immerso, e risalì, adesso abbastanza vicino alla nave. Allora si vide il poderoso dorso brillare al sole come una seconda nave azzurra e madreperlacea e correre parallelamente al suo persecutore. La baleniera accostò sempre di più, finché Albarrán, con tutta comodità e precisione, sparò il secondo arpione, che stavolta penetrò nel quarto superiore del corpo. Il colosso rilucente rimbalzò come un pesce sull’oceano increspato; lottò ancora un po’ sotto il velo dell’acqua, la madreperla divenne rossa, emise fiammate di sangue, finché alzò le pinne caudali nell’ultimo spasimo e vibrò un colpo di coda alzando un’ondata che arrivò fino al parapetto della mura di tribordo. Tutti ripresero fiato, attoniti davanti alla fine di quella lotta titanica.

Cominciarono a recuperare la corda fino a issare la preda tra il castello e il ponte. Quando gli portarono a prua il giavellotto per il tradizionale colpo di grazia, il capitano lo prese come se fosse uno scettro sacro che qualche divinità metteva nelle sue mani, e sputandoci per poi strofinarle, sembrò baciarsele. Sollevò il dardo al di sopra dell’orizzonte e puntò il corpo della balena; ma nell’affondarlo, la punta d’acciaio rimbalzò sulla biancastra crosta calcarea e tutti lo videro barcollare come se stesse per cadere in acqua; si riprese oscillando sul bordo della prua, e con tutta la forza, cercando un punto libero da protozoi e molluschi, affondò il ferro fino al manico, attraversando polmoni e cuore. L’intero equipaggio sembrò tirare un sospiro di sollievo e approvazione; persino la nave fermò l’ansimare delle sue macchine. Molti chinarono il capo come se fossero stanchi, e, quando il cuciniere si fece avanti per tagliare le pinne, per la prima volta il capitano Albarrán non permise che portasse a termine quel compito da chierichetto… Lasciò quell’enorme esemplare, che alcuni calcolarono prossimo ai trentacinque metri, issato alla fiancata in tutto lo splendore delle sue enormi pinne caudali che abbracciavano la nave e l’orizzonte.

«Bisogna portarla intera a mister Hansen, perché le scatti una fotografia e se la metta nel suo ufficio con una bella cornice!» esclamò orgoglioso.

«Lei non ci crederà a queste cose; però, forse…» disse Fabián.

«Cosa?»

«Che le balene alle quali non si taglia la coda tornano al mare e si perdono…»

«Questa non si stacca più da me, la porterò tutta intera… non uscirà da quel cappio finché non la consegneremo all’isola Decepción!»

«Dovremo scioglierla più di una volta per poter continuare la caccia», disse Bárcena.

«Sì!» urlò Albarrán come se non avesse intenzione di catturare una sola balena in più; «la scioglieremo, ma tenendola vicino, ben segnalata da un fanale e andremo a caccia con lei sempre al nostro fianco.»

«E chi le dice che non ne incontreremo un’altra uguale?»

«Un’altra?» riprese a gridare in preda all’eccitazione. «No, come questa non ce ne sarà mai nessun’altra!» E guardò con occhi da invasato l’enorme mole bianca e azzurra, che aveva ormai girato il ventre in superficie, e si contraeva e si afflosciava come un’immensa fisarmonica tra le onde. Il manto di madreperla era rimasto rivolto alle profondità, ma di tanto in tanto emergeva scintillante e sfiorava lo scafo della Leviatán come se tentasse di graffiarlo…

 

12

«Barometro che scende lentamente, gran vento presente!» esclamò il pilota Yáñez, come avvertimento, passando le consegne a Bárcena.

«Nuvole arricciate, vento a carrettate!» rispose il nostromo, guardando verso sud-ovest, dove si scorgeva un orizzonte carico di nuvoloni simili a tori selvaggi con il pelo scosso dal vento.

«Burrasca?» sondò Pedro Nauto, che stava facendo un turno al timone.

«Così pare», disse Bárcena. «E a noi ci toccherà almeno fino a mezzanotte.»

La lenta sera antartica cominciava a calare con una penombra opprimente quando il maltempo li investì in pieno. Dal ponte di comando, lo stesso nostromo ordinò con la sua voce tonante il grido che percorse la nave da prua a poppa e dalla chiglia al pennone.

«Prepararsi al mare grosso!»

Quando scese la notte, il mare aumentò la forza, e le prime grandi ondate cominciarono a spazzare la nave dalla fiancata di babordo. Solo a quel punto comparve sul ponte, come un tricheco lucido d’acqua, il capitano Albarrán con addosso la tenuta impermeabile.

«Ha fatto controllare i boccaporti?» domandò con voce grave.

«Li ho chiusi io stesso a colpi di mazzuolo», rispose il nostromo.

«Mi lasci per un po’ di guardia e vada comunque a dare un’occhiata alle paratie e agli oblò. Rinforzi con un’altra fune il traino della balena.»

Capitano e timoniere si guardarono un istante e poi entrambi riportarono lo sguardo su una delle pinne del cetaceo, issato a babordo, il cui biancore emanava riflessi, come la lama di una falce da fieno, ogni volta che il fanale di punta si inclinava sulla sommità dell’albero di trinchetto, tentando di forare le tenebre cineree sempre più fitte sul mare in tempesta.

«Sai come mettere la prua alle onde per impedire che la nave scarrocci in mezzo a una tempesta?» chiese al ragazzo.

«Ho imparato a farlo fin da piccolo, signore, andando in barca!» rispose.

«Fino a che ora dura il tuo turno?»

«Fino alle dodici, capitano!»

«E il timoniere a cui spettava questo turno?»

«Si è slogato una caviglia saltando dal ponte per lanciare una sagola, quando abbiamo legato la balena.»

«Forse portava i tacchi alti, la signorina…» disse in tono scherzoso, e aggiunse: «Riesci a cavartela quando arriva una sequenza di tre onde alte?»

«Dopo un po’, sì; ci si abitua a calcolare quando arrivano le tre onde.»

Sotto, nella piccola cabina degli ufficiali, l’ingegnere Díaz si informava dal pilota sulle decisioni del capitano.

«Perché non abbiamo cercato un punto riparato dove gettare l’ancora, anziché navigare di notte con questo tempo?»

«Gliel’ho proposto… Mi ha risposto che per niente al mondo si sarebbe infilato di nuovo tra i ghiacci, e secondo me ha ragione; con quell’animale incredibile è difficile manovrare tra gli iceberg.»

«Poteva lasciarlo in mare aperto, con una bandierina di segnalazione, e l’indomani saremmo tornati a prenderlo.»

«Non vuole mollarlo per nessuna ragione… Mi ha detto di non credere a quella superstizione delle pinne, ma io penso che sia proprio per questo che non lo vuole abbandonare; ha paura che la balena si perda in mare.»

«Quell’uomo dev’essere suonato…»

«Un po’, credo… Sembra sia venuto solo per cacciare uno di quei maschi azzurri, e adesso ha fretta di tornare… Con questa andatura, ci vorranno diversi giorni di navigazione in mare aperto.»

«Ma questa è una notte infernale per navigare…»

«La tempesta ci investe da babordo e la nave sta imbarcando già qualche ondata… con il peso dell’animale la poppa non riesce a cavalcarle, e con la velocità che abbiamo, non possiamo certo schivarle.»

«I fuochisti stanno tenendo le caldaie sotto pressione.»

«Lo so; è quella mole al traino che ci toglie perlomeno tre o quattro miglia di velocità.»

Yáñez dormì un poco, e a mezzanotte montò il suo turno, con un altro timoniere. Albarrán, vigile, si trovava ancora sul ponte; ma quando vide il pilota, decise di andare a coricarsi. La notte era diventata un tenebroso e tormentoso caos di acqua e vento; le raffiche scendevano sfrangiando le creste delle onde e non si capiva se i turbini venivano dal mare o dal cielo. Il rollìo della nave e del peso rimorchiato scuotevano tutta la sovrastruttura.

«Sta diventando pericoloso questo traino», disse il pilota al capitano, mentre questi si accingeva a ritirarsi dal ponte.

«Ci servirà da galleggiante…»

«Non dimentichi che lo stiamo trainando dallo stesso lato da cui proviene la tempesta…»

«Ci servirà da ammortizzatore, allora…»

«Qualche onda ha già spazzato le cabine.»

«E con ciò? Che passino pure dall’altra parte!… Quante volte abbiamo affrontato burrasche peggiori di questa, eppure non siamo rimasti a fare da boa!»

«Il fatto è che se continua così, dovrò mettere la prua alle onde, e per farlo bisognerà mollare la balena.»

«Effettuerà la manovra con balena e tutto…»

«Rischiamo di piegarci su un fianco, e con due o tre onde grandi possiamo colare a picco.»

«Va’ avanti così, non avere timore… Con questo vento, che sarà almeno forza dodici, persino le pinne della balena ci servono da vela!» esclamò Albarrán, ritirandosi nella sua cabina.

Sottocoperta, Pedro Nauto si stava togliendo gli stivali per buttarsi sulla branda.

«Sarà meglio dormire con gli stivali, nel caso si debba bere acqua in piedi!» disse il fuochista Bórquez, che aveva finito anche lui il suo turno.

Pedro Nauto pensò fosse soltanto una battuta, ma avvertì una vaga inquietudine quando vide che il fuochista si coricava senza togliersi i grossi stivali da baleniere.

Rimase per qualche istante ad ascoltare i sibili del vento sul sartiame, confusi con il fragore delle onde che spazzavano il ponte e la coperta, defluendo dagli ombrinali di scolo. Ogni tanto avvertiva una scossa più forte sulla nave e un tremito che percorreva l’intera struttura.

Passata la mezzanotte, il nostromo ricomparve sul ponte. Era un uomo che restava sempre di guardia nei momenti di maggior pericolo.

«Non sei andato a riposare?» chiese il pilota.

«Sento dei colpi troppo forti tra la balena e la nave», rispose.

«È da un po’ che mi preoccupo della stessa cosa; dopo quegli urti la nave continua a vibrare.»

«Le cose si mettono male…»

«Male… ma se andiamo a svegliarlo penserà che siamo diventati dei conigli… Lui se la ride di tutto questo!»

«Non c’è niente da ridere!»

«Sì, è andato a dormire come se a letto lo aspettasse la fidanzata!»

«In questi casi bisogna prendere l’iniziativa… L’ingegnere è allarmato per le macchine, dice che a volte lo scafo rimbomba come se si fosse ammaccato; credo che sarebbe meglio avvisarlo.»

«Mi tratterebbe come un poppante… Non lo conosce?»

«Le ondate si infrangono sempre più spesso sull’aletta, e con il peso di quella maledetta balena la nave non può evitarle.»

«Voglio tentare di prenderle di prua.»

«Potrebbe essere peggio; non possiamo attraversarle con la balena.»

«Accidenti a lui! Allora va’ a svegliarlo!»

«Credo sia il caso di avvertire anche gli uomini perché indossino le tenute impermeabili.»

Era l’una e venti della notte; gli spietati elementi della natura antartica si erano scatenati con tutte le forze sulla piccola baleniera e sul suo traino. A tratti il caos imperava, a eccezione di quei tre uomini sul ponte che, per quanto intimoriti, mantenevano con freddezza l’andatura e la rotta della loro nave.

«Lasciatemi solo sul ponte e andatevene a dormire!» ordinò Albarrán, autoritario, quando entrò strofinandosi gli occhi ancora assonnati.

«Abbiamo dato disposizione che gli uomini indossino la tenuta impermeabile, capitano», disse Yáñez.

«E per quale motivo? Per farne che?»

«Per precauzione… signore. Per quello che potrebbe succederci…»

«Cosa potrebbe succederci?»

«Che si debba tutti bere acqua in piedi…»

«Andatevene a dormire, piuttosto; resto io da solo, per mettere la prua alle onde.»

«Prima bisognerebbe mollare la balena, capitano», si intromise il nostromo.

«Questo no!» ruggì Albarrán. «Lasciatemi da solo, so cosa devo fare!»

Una raffica d’acqua e vento sembrò strappargli via la voce e convincere il pilota e il nostromo a obbedire immediatamente ai suoi ordini. I due, prima di andarsene, gli rivolsero un’ultima occhiata, contrariati.

Il capitano, dal canto suo, afferrò la ruota del timone e cominciò a virare lentamente verso la tempesta. La Leviatán, come se obbedisse più docilmente alle sue mani che a quelle di altri, prese cautamente a cavalcare le onde di tre quarti. Gli scossoni si avvertirono ancora più forte, il fanale di punta oscillava da una parte all’altra come un pendolo a rovescio. Dalle vetrate del ponte, Albarrán, come un lupo di mare acquattato nella tana, tentava di scorgere in ogni andirivieni del fanale il dorso della sua preda legata alla mura per la coda; ma riusciva a vedere soltanto una pinna caudale che sporgeva dalle funi e si dibatteva continuamente come una falce impazzita, la cui lama illuminata sembrava cercare qualcuno nel cuore della notte.

Gli uomini, che avevano indossato la tenuta impermeabile, non dormivano più sottocoperta. Anche gli ingegneri e Fabián avevano messo quelle tele cerate, d’emergenza. Sottocoperta si sentiva solo il russare di alcuni che, sfiniti dai turni appena conclusi, dormivano estranei a tutto.

A un tratto, la Leviatán si piegò su un fianco tra due grandi mareggiate e tutta la sovrastruttura sembrò gemere in un possente scricchiolio. Solitario sul suo ponte di comando, assistito soltanto dal silenzioso timoniere, il capitano Albarrán cominciò a mettere la prua decisamente contro la burrasca. Quando sentì lo scricchiolio della nave e la scossa gli ricordò il peso del cetaceo al traino, nella sua mente si materializzarono le famigerate tre grandi onde in sequenza che di tanto in tanto arrivano nel mezzo di ogni tempesta… «Le tre onde… Il sogno, la vita e la morte…» rifletté.

Molte volte aveva affrontato momenti peggiori di quello, con il timone stretto nelle sue mani sicure… Questa non era poi così diversa dalle altre, dannazione! Non avrebbe abbandonato la preda per così poco, dopo quello che gli era costato andarla a prendere in uno sperduto angolo dell’antartico! Per una burrasca qualsiasi non avrebbe mollato la più grande balena azzurra che mai cacciatore al mondo avesse catturato! Ma… Perché gli uomini adesso mettevano in discussione la sua condotta e sembravano non nutrire più in lui la fiducia che prima l’aveva sempre circondato?

Ricordò che in diverse notti come quella, se non peggiori, era rimasto da solo al timone della baleniera, mentre l’equipaggio dormiva tranquillo, fidandosi delle sue mani, del suo infallibile istinto di capitano baleniere… Una di quelle notti – adesso la ricordava con emozione – persino lui, aveva sentito la paura di naufragare. Ma non era andato a svegliare nessuno. A quale scopo? Se fossero colati a picco, i suoi uomini sarebbero andati all’altro mondo dormendo fiduciosi, senza patire le vigliaccherie e l’agonia della catastrofe! E quella volta aveva salvato, lui solo, la nave e l’equipaggio! L’indomani non se l’era sentita di raccontare a nessuno lo spavento passato; ma per averli salvati così, silenziosamente, senza che lo sapessero, si era sentito come un padre per tutti loro. Adesso avrebbe fatto lo stesso. Si sarebbe battuto da solo contro la notte e il mare, e così avrebbe riconquistato, come allora, la sua autorità.

Nell’oscurità vide innalzarsi una muraglia nera più alta delle altre. Era un’onda grande come una montagna rotolante. Girò tutta la ruota a babordo, e, di sbieco, la baleniera prese ad arrampicarsi sulle pendici d’acqua che le stavano arrivando addosso; ma l’onda alzò la nave e la balena fin sulla cresta, e, infrangendosi, ricadde in un fragoroso abisso. Il cetaceo e la nave cozzarono uno contro l’altra come due brandelli di carne morta. Sul fondo del precipizio, sbattendo ancora una volta, si udì un rimbombo sordo. Ma Albarrán manovrò alla disperata, e nave e balena ne uscirono vittoriose.

La cresta della terza onda sfondò i vetri del ponte e l’acqua bagnò il volto del capitano e del timoniere come un poderoso spruzzo di balena, un alito freddo che veniva dalle profondità del mare. Albarrán prese un fazzoletto e si asciugò la fronte; si leccò i baffi e la barba sentendo un gusto salmastro in cui si confondevano il sudore e il sapore salato, freddo e amaro del mare.

Sopraggiunse uno di quegli strani momenti di calma che a volte si creano in mezzo a una tempesta; ma il mare continuò a danzare intorno alla nave, come se la cresta delle onde si fosse trasformata in innumerevoli dita che giocherellavano con la nave e la balena, cullandole come un bambino.

Percepì ancora una volta una strana scarrocciata di babordo, e due o tre rimbombi secchi tra la nave e la balena, uno dei quali arrivò alle sue orecchie con un debole ma inconsueto accento metallico.

«Mantieni il timone così», ordinò al timoniere consegnandogli la ruota, e uscendo dal ponte aggiunse: «Vado a disporre che sciolgano la balena!»

Ma non riuscì a scendere dal ponte. In quello stesso istante il primo ingegnere Díaz correva alla testa di un concitato drappello di uomini che salivano dalla sala macchine dirigendosi alle scialuppe.

«Che succede?» riuscì a gridare.

«Si è aperta una falla nel compartimento macchine!» urlò il primo ingegnere passandogli davanti.

«Tutti gli uomini alle scialuppe!» sentì il pilota urlare da sotto.

Soltanto il nostromo stava salendo la scaletta in modo meno agitato degli altri.

«Capitano, prenda il suo posto sulla scialuppa… Non c’è tempo da perdere; da un momento all’altro la nave può affondare o esplodere…» disse, vedendo che Albarrán tornava ad aggrapparsi alla ruota del timone, abbandonato in un gesto di improvvisa indisciplina del timoniere.

Furono le ultime parole assennate che echeggiarono sulla coperta della Leviatán, prima che il caos degli uomini si aggiungesse a quello della natura.

Il capitano si precipitò nella sua cabina in cerca del giubbotto salvagente che teneva sempre sotto il cuscino. Non c’era il tempo di togliersi l’incerata e se lo legò addosso alla meglio. Ormai tutti gli uomini si erano piazzati sulla scialuppa baleniera e sulla barca d’emergenza. Tutti, meno uno dell’equipaggio: Pedro Nauto, che stava ancora dormendo sottocoperta, sfinito dalla stanchezza e ignaro della catastrofe.

«Mollaaa…!» si udirono urlare varie voci, ordinando di calare al più presto le imbarcazioni in mare.

«In quale scialuppa sta Pedro Nauto?» urlò a un tratto Albarrán, avvicinandosi.

«Qui non c’è!» risposero quelli della scialuppa baleniera.

«Qui nemmeno!» fecero quelli della barca.

Una sferzata di acqua e vento fece scomparire dalla loro vista il capitano, che si era messo a correre come un pazzo in direzione della sottocoperta; ma sul boccaporto si imbatté nel ragazzo che stava correndo fuori spaventato.

«Dov’eri?» gli chiese.

«Ero rimasto addormentato sottocoperta, signore!»

Mentre gli rivolgeva quella domanda, si era già slacciato il giubbotto salvagente e, infilatolo al ragazzo, glielo legò al petto.

Pedro Nauto rimase titubante di fronte al gesto di Albarrán; stava per balbettare qualcosa, ma questi disse in un grido lacerante:

«Figlio mio, ti stavo cercando…! Corri alle scialuppe! Non c’è tempo da perdere!»

«E lei… capitano?»

«Te lo ordino… sono tuo padre, perdio!» e lo spinse verso le scialuppe, dandogli una manata sulla schiena.

Pedro Nauto corse, senza rendersi conto di cosa fosse successo né di quello che faceva, fino al ponte dove c’era la scialuppa, che stavano già calando in mare. Riuscì a malapena ad aggrapparsi a un cavo dei montanti, e, con la spinta, ricadde sul fondo della scialuppa, che si staccò subito, portata via da un’onda.

Non vi fu il tempo per fare nient’altro. Dai boccaporti uscirono violenti getti di vapore bianco e, subito dopo, echeggiò un boato che sembrò spaccare la nave in due.

In mezzo alla tempestosa oscurità, gli uomini dell’equipaggio riuscirono a scorgere una parte del castello che resisteva per qualche istante sulla cresta delle onde, e al suo fianco un’altra prua più chiara, come se il vecchio maschio di balena azzurra si fosse trasformato in una nave fantasma che lottava per trascinare l’altra nelle profondità dell’oceano.

A circa una settimana dal naufragio, le due imbarcazioni vennero ritrovate da una baleniera con tutti gli uomini illesi. Avevano proseguito a forza di remi costeggiando verso nord, riparandosi di notte nel primo pezzo di spiaggia libera dai ghiacci. I pinguini e le foche «granchiaiole», animali così mansueti da poter essere abbattuti a colpi di remo o di coltello, li avevano salvati dal morire di fame, e il grasso delle foche aveva offerto il combustibile necessario a non perire per il freddo.

Nella mensa dello stabilimento, gli equipaggi delle altre baleniere si riunirono per ascoltare il racconto di tali peripezie.

La maggior parte, soprattutto gli addetti alle macchine, sosteneva che una delle estremità degli arpioni aveva aperto la falla nella fiancata a furia di colpi.

Ma il miracoloso salvataggio di Pedro Nauto era il fatto che più li commuoveva.

«Ho pensato che il capitano fosse impazzito quando mi ha urlato: ’Sono tuo padre, perdio!’

«Il capitano è come un padre per tutti, a bordo!» disse sospirando un marinaio.

«Bah…!» sbottò il pilota Yáñez, e di malavoglia, aggiunse: «Una cosa del genere la farebbe qualsiasi capitano!»

Quintero, 1962