32. Fine della superstizione secondo cui il dottor Montenegro era incapace di…

Lungo il sentiero cintato di pietra crestata di spine, montati su splendidi cavalli, discendevano il dottor Montenegro, donna Pepita, e su bestie meno altezzose il sottoprefetto Valerio, Arutingo, Consejero Chacón, Atala, il capitano Reátegui, il sergente Astocuri e venti guardie. Costeggiarono la laguna, entrarono nei campi coltivati, attraversarono i salici, varcarono il ponte, entrarono nella piazza di Huarautambo.

“Dove sono?”, chiese il sergente Astocuri.

“Nella pampa”, rispose un bambino malamente coperto da un perizoma. Il suo braccio magro reggeva una trota.

In altri tempi la pampa si perdeva alle pendici della cordigliera ma ora il lago Huarautambo occupava l’antica spianata.

Il drappello si fermò. Nulla agitò la selva di bandiere della comunità. Nessuno si mosse. Le guardie continuarono ad avanzare. Il capitano Reátegui suonò tre volte il suo fischietto. Lo squadrone si spiegò. Il Personero Agapito Robles si avvicinò impassibile. Il sottoprefetto Valerio lo guardò.

“Chi sei?”

Aveva l’abitudine di sconcertare una persona conosciuta chiedendo la sua identità. Ma Agapito Robles rispose:

“Mi conosci anche troppo bene, signor Valerio.”

Il sottoprefetto Valerio accusò l’insolenza del tu. Pensò: “È da un bel pezzo che questo coglione deve morire”, ma guardò la spianata annerita dai cappelli e si padroneggiò.

“Nomina dieci persone adatte a parlamentare.”

“Non è necessario. Parla con me!”

Un’altra fitta di collera aggredí il sottoprefetto.

“Robles, tu mi conosci. Sai meglio di tutti che sono un’autorità comprensiva. O no?”

Nessuno rispose.

“Non parlo in quanto prima autorità della provincia ma come amico e vi consiglio: andatevene con le buone! Questa fattoria è proprietà privata. Invadere terre è un crimine che comporta cinque anni di carcere. Ma capisco la miseria: ordina alla tua gente di sloggiare dal latifondo e ti do la mia parola d’onore che dimenticherò tutto. Tu sei un ricercato ma rispetterò anche la tua libertà, se ti ritiri. Non esporti. Non renderti colpevole di violenze e di morti!”

“Signor sottoprefetto, non comando io.”

“Chi comanda?”

“Fra la nostra gente nessuno comanda. Le autorità eseguono quanto deciso dalle nostre assemblee. Yanacocha ha deciso di recuperare la terra. Io eseguisco. Non stiamo invadendo terra altrui: la recuperiamo. Queste terre ci appartengono dal 1705. Se io ordinassi loro di ritirarsi cesserei subito di essere un’autorità.”

“Parlo per esperienza, Robles. Da vent’anni svolgo queste mansioni. Non esponetevi! Una volta iniziate le sparatorie nulla arresta la violenza. Cosa ci ha guadagnato Chinche con le sue bizze? Come voi non hanno badato alle avvertenze delle autorità. La Guardia d’Assalto l’ha spianata da un angolo all’altro. Con me si può ancora accomodarla con le buone. Con i militari è diverso! Cosa decidi?”

“Lo chieda alla massa, signore.”

Il sottoprefetto Valerio gridò loro:

“Se non vi ritirate dalle terre invase i vostri capi saranno i responsabili. Per ogni giorno in cui usurperete questa proprietà, loro dovranno passare un anno in carcere. Pensateci!”

“Se le autorità accettano un accordo, le impiccheremo!”, gridò Wistozorro.

“Come ti chiami?”, chiese il sottoprefetto.

“Primitivo Rodríguez”, informò il Chuto Ildefonso.

Agapito balzò su un cavallo, si drizzò sulla sella e chiese:

“Volete restare o volete andarvene?”

La folla ruggí:

“Vogliamo restare!”

“Se ne vadano!”

“Abbasso Huarautambo!”

“Morte a Montenegro!”

“Sopraffattori! Sanguisughe!”

“Meglio morire piuttosto che ritirarci!”

Allora Agapito Robles impazzí. Smontò, tirò fuori un fazzoletto colorato e prese a ballare. Quasi isocrono al cric-crac dei fucili iniziò un huayno. Cipriano Guadalupe cacciò un grido roco ed entrò nella danza. Estefanía Morales vi si aggregò. In pochi secondi la danza fuse centinaia di uomini. Inaccessibile agli avvertimenti, alle uniformi, alle minacce, l’intera comunità ballava.

“Fermi o sparo!”, gridò il capitano Reátegui.

La danza crebbe. Ora formavano coppie, mutavano ritmo, vorticavano. Il polverone sollevato dallo scalpiccio nascondeva il paesaggio, le greggi vicine, i nevai remoti.

E successe qualcosa che nessuno poteva concepire: donna Pepita Montenegro prese a singhiozzare. Dapprima sembrò che ridesse, poi che avesse il singhiozzo, ma ben presto fu impossibile nasconderlo: piangeva. Le si gonfiava e sgonfiava il petto; le lacrime scorrevano per il suo volto invecchiato. Neppure un’ora prima aveva varcato il ponte altezzosa, e adesso si scatenava quell’acquazzone insopportabile. Singhiozzava biascicando parole incomprensibili, forse parlate speciali, lingue intese soltanto dai padroni, parlata fatta di spine, tutta rochezza. Singhiozzò a lungo, poi esclamò con voce mutata:

“I comuneros di Yanacocha sono malvagi. Sono venuti a togliermi la mia terra. Sono nata qui, voglio morire qui. Ho lavorato con amore questi campi”, si volse verso i contadini: “siete degli ingrati. Io vi ho sempre trattati come figli.”

Gli anziani si emozionarono. Polidoro Leandro si tolse il cappello. Bernardo Chacón e Sebastián Albino si scappellarono pure loro.

“Se ho ecceduto, perdonatemi! Non commetterò mai piú abusi. Non si udranno piú lagnanze a Huarautambo. Lasciatemi la terra. Perdonatemi! Il cuore mi si spezza. Non voglio andarmene. Dove andrei? Forse esistono terre calde, luoghi dall’amoroso clima dove crescono fiori e frutti, ma io non so vivere senza la neve e i venti. Come potrò destarmi senza udire il canto del sicha? Berrò acqua straniera? Che sapore avranno le patate che mangerò? Saranno bianche e nere come le nostre? Non scacciatemi. Cambierà tutto. Lo giuro su San Juan de Yanacocha!”

Baciò il mantello rosso variegato d’argento del santo.

Il capitano Reátegui, il sergente Astocuri e le guardie guardavano le alture; il sottoprefetto Valerio come a una veglia funebre si piazzò il cappello sul petto; Consejero Chacón, Arutingo, Atala abbassarono il capo pallidissimi.

“Signor Robles…”, balbettò il dottor Montenegro. Ma qualcosa doveva aver scoperto negli occhi del Personero perché si volse ai suoi coloni.

“Non ho figli. Dio non mi ha favorito. Non ho eredi! Queste terre non appartengono a Yanacocha. Sono mie e io ve le lascerò… Vi nomino miei eredi. Domani stenderò il testamento. Se volete anche questa sera…”

La fatica o la vecchiaia demolivano la sua superbia.

“Io ho avuto alterchi con voi ma erano alterchi da vicini”, si portò la mano al cuore. “Io vi ho qui. Non lasciatevi ingannare dai comuneros di Yanacocha.”

Lo interruppe il singhiozzo di donna Pepita.

“Non scacciatemi! Lasciatemi morire qui! Resterò in qualità d’invitata, di serva se volete, ma non allontanatemi dalla terra dove sono nata. Se lasciate le spine e i cactus, perché me no?”

“È vero”, balbettò Hilario Román. “Persino la spina esiste!”

“Occuperò un angolo, dormirò in cucina. Lasciatemi finire la mia vecchiaia a Huarautambo!”

“Cara padrona!”

I coloni di Huarautambo cominciarono, anche loro, a piangere. Il giudice Montenegro proseguí:

“Agapito Robles mi scaccia ma poi scaccerà voi. Sarà lui il nuovo padrone, ma vi proteggerà come me? Cosa cela il suo astuto cuore? Come si comporterà quando sarà un proprietario?”

Sollevò il capo.

“Dichiaro libera la gente di Huarautambo!”

“Dottore…”, disse Leandro con gli occhi zeppi di lacrime. “Caro dottore!”

“Quest’uomo mente!”, gridò il Personero Robles.

“Non mento! Vi nomino sull’istante miei eredi! Per iscritto!”

La gente di Huarautambo esitò.

“Io non vivrò a lungo e alla mia morte vi lascerò le mie terre, le mie case, il mio bestiame. Noi resteremo soltanto per quei pochi anni che ci rimangono da vivere.

“No!”, gridò Agapito. “Non accettiamo! Noi non accettiamo questa terra come un regalo. Recuperiamo ciò che ci appartiene! Contadini smemorati: quest’uomo mente. Ora si mostra umile, ma se lo perdonate tornerà con la Guardia d’Assalto. Decidetevi! Volete restare o andarvene?”

“Vogliamo restare!”

“Non ce ne andremo mai!”

“Terra o morte!”

“Cosa succede se vi ordino di ritirarvi?”

“T’impiccheremo!”

“Vi muoverete di qui?”

“Non ci muoveremo mai!”

“Chi è il proprietario di Huarautambo?”

“Yanacocha!”

“Comuneros…”, mormorò il dottor Montenegro.

Lo interruppe la sghignazzata di Wistozorro. Una sghignazzata cosí violenta che spaventò i cavalli! Il giudice impallidí. E qualcosa cedette in quell’istante nel suo petto perché una lacrima gli brillò nell’occhio. La lacrima titillò sul suo ciglio, rotolò lungo lo zigomo. Una ventata la trascinò verso la laguna. E quando quella lacrima, l’unica che il giudice Montenegro avesse mai sparso, la toccò, l’acqua s’increspò.

“Il fiume!”, gridò Isaac Carbajal.

Le assonnate acque della laguna Huarautambo si ritorcevano, si sballottavano, si disperavano come in preda a un’inconcepibile colica. Dapprima con goffaggine, poi con fretta, e poi ancora ribollendo, la nefanda immobilità acquatica ondeggiò in cerca del letto del fiume scomparso. Come un cieco che recupera stupefacentemente la vista, l’acqua palpebrò, inciampò, indietreggiò, si erse e infine – saggiando il dimenticato letto del fiume Huarautambo – s’incanalò verso la gola da dove era appena salito a cavallo lo squadrone del 21° Comando. La corrente travolse tutto quanto si opponeva alla sua fretta. All’orizzonte apparvero tre imbarcazioni cariche di rinforzi della polizia: “Il Prode di Tapuc”, “La Pepita” e “El Huáscar”. L’improvvisa discesa della laguna li sorprese nel mezzo della traversata. Il vortice delle acque che lasciavano vuoto il fondo dell’antica laguna sollevò le lance, le sprofondò, le sollevò di nuovo, le rovesciò. “La Pepita”, a stento, riuscí ad arenarsi contro un versante del monte Pucacaca. Sarebbe stato meglio che l’atterrito squadrone naufragasse. Perché qualche istante dopo le sette ex cataratte che penzolavano defunte da tanto tempo, scricchiolarono, si sgretolarono e piombarono giú rivestendo di schiuma i terrazzi di pietra: nel loro recuperato furore scomparvero i soldati. In pochi secondi, il fiume Huarautambo si gonfiò: passò trascinando tronchi, barche fracassate, animali che non erano riusciti a fuggire in tempo, guardie annegate. Giorni dopo sarebbero passati i cadaveri d’altri tempi.

L’aria strappò via il cappello del dottor Montenegro. Nessuno l’aveva mai visto senza cappello. Sbigottiti contemplarono la sua testa canuta e capirono che il tempo non s’era mai veramente fermato. I fiumi scorrevano e il dottor Montenegro invecchiava!

“Allegria!”, gridò Agapito Robles.

Iniziò un’altra danza.

“Fermi o sparo!”, gridò il capitano Reátegui.

“Allegria!”, ululò Chacancuda ballando un huayno che in pochi istanti assiepò centinaia, migliaia d’uomini in una trottola di luce che girava annullando ogni intimidazione, ogni pericolo, ogni trattativa.

“Sono diventati pazzi!”, gridò il capitano Reátegui ora sconvolto.

Il giudice Montenegro guardò la comunità che avanzava danzando verso le terre scoperte dalla ritirata del lago e si rimpicciolí sulla sua sella. Bruscamente mollò le redini e si lanciò al galoppo seguito da Consejero Chacón, Arutingo e Angel Montenegro.

“Comuneros!”, gridò il capitano Reátegui, “se non vi ritirate sull’istante apro il fuoco.”

Estefanía Morales raccattò una pietra.

“Moriremo qui!”, gridò.