Al pari della filosofia, la storiografia greca nacque nelle colonie d’Asia Minore, nel fertile contesto di scambi di esperienze materiali e culturali favoriti da un’estesa rete di rapporti commerciali. I Greci vennero a contatto con forme di narrazione storica del Vicino Oriente: le grandi iscrizioni che narravano le imprese dei re, le narrazioni e le liste genealogiche delle famiglie nobili, le cronache degli Assiri e dei Babilonesi, i documenti d’archivio ittiti, i testi storici dell’Antico Testamento ebraico. Tuttavia, diversamente da quanto si riscontra per queste civiltà orientali, la diffusione del pensiero razionalistico nell’area ionica fece nascere l’esigenza di fondare una ricerca sul passato (historìe, «indagine conoscitiva») che, basandosi sul senso critico, stabilisse una chiara distinzione tra il vero e il falso, fra la dimensione mitica e il tempo storico, lasciando spazio alla riflessione razionale in termini di rapporti causali e di concatenazioni e alla libera elaborazione intellettuale dei singoli. Non deve sfuggire come all’emergere di questa esigenza non fosse estraneo lo sviluppo delle istituzioni democratiche nelle pòleis asiatiche, che acuirono la sensibilità critica delle popolazioni greche nella formazione del giudizio sulla realtà presente e passata. Un altro aspetto peculiare della storiografia greca fin dalle origini è il carattere non riservato delle opere in cui si espresse, destinate e accessibili a un pubblico vasto, interessato al racconto dei fatti e delle imprese degli uomini. Questa maggiore diffusione della conoscenza degli avvenimenti e delle loro interpretazioni, favorita anche da una pubblicazione orale che allargava la cerchia dei destinatari e la circolazione delle idee e dei contenuti, va considerata come un fattore notevole di sviluppo culturale e di stimolo alla riflessione critica. Anche per queste ragioni rimpiangiamo la perdita di moltissime opere della storiografia greca, giunte per lo più in frammenti: un calcolo approssimativo stima che quanto rimane sia circa un quarantesimo della produzione totale.
I primi storici originari dell’area ionica furono definiti da Tucidide logògrafi, «scrittori di racconti», perché il loro intento, a suo modo di vedere, era intrattenere il pubblico con racconti non esenti da contenuti mitici e favolosi, piuttosto che perseguire con rigorosa razionalità la verità storica. In questa produzione si possono distinguere alcuni generi. Le genealogie avevano per oggetto la storia delle famiglie aristocratiche, allo scopo di provare il rapporto con una divinità e conferire legittimazione a potere e privilegi. Le fondazioni di città (ktìseis) ricostruivano le tradizioni sulla fondazione di singole pòleis; i primi autori utilizzavano il verso, ispirandosi alla poesia esametrica o elegiaca. L’interesse per l’insieme delle vicende delle città coloniali sviluppò una storiografia locale di tipo annalistico o orografia (da òros, «anno»). Gli interessi per i popoli stranieri si espressero in opere di tipo geografico ed etnografico: il primo tipo è rappresentato dalla periegesi o pèriplo, descrizione di itinerari di viaggio, soprattutto per mare lungo costa (famosa nell’antichità la Circumnavigazione dei luoghi al di là delle Colonne d’Ercole di Scilace di Carianda); il secondo da opere su popolazioni non greche, basate su informazioni acquisite con la colonizzazione, i viaggi di esplorazione e la frequentazione di rotte commerciali. Questi generi sono in relazione con la cartografia, la rappresentazione topografica delle terre emerse.
Nel panorama articolato e in parte per noi nebuloso della logografia ionica occupa un posto di spicco Ecateo di Mileto, vissuto tra la fine del VI e l’inizio del V sec. a.C., all’epoca dell’espansione persiana in Asia Minore. Restano frammenti delle Genealogie, una sistemazione delle tradizioni greche sulle discendenze divine ed eroiche ampiamente fissate nella produzione poetica, rispetto alle quali però Ecateo operava un ridimensionamento razionalistico e sostituiva il lessico comune all’espressione elevata. Il logografo apre l’opera con il “sigillo” del suo nome (fr. 1a): «Ecateo di Mileto dice così: scrivo queste cose, nel modo in cui mi sembrano essere vere: i racconti dei Greci, infatti, sono molti e ridicoli, come mi appaiono». L’incipit richiama l’inizio formulare delle iscrizioni regali delle civiltà orientali, ma al punto di vista del re, che pretende di fornire un resoconto “oggettivo” degli eventi, Ecateo contrappone il vaglio critico e la soggettività d’opinione dello storico, fondata su un libero criterio di ricerca e di giudizio. L’esposizione di un mito era seguita da una considerazione sulle cause che lo avevano generato (eziologìa). Ecateo fu autore anche di una Carta geografica accompagnata da una descrizione o Periegesi della terra, in 2 libri dedicati all’Europa e all’Asia, con notizie su popolazioni, territori, flora e fauna, usi e costumi, leggende su fondazioni di città, migrazioni. Il dialetto ionico di Ecateo era ammirato dagli antichi per la sua purezza. Lo stile, irregolare ed espressivo, risponde alla nuova consapevolezza di contrapporre alla tradizione mitica i risultati del vaglio critico personale.
La varietà di approcci dell’indagine logografica arcaica trova continuità nella fioritura di opere che si ebbe all’inizio dell’età classica, all’indomani delle guerre persiane. Alcune erano incentrate su aspetti geografici, etnografici e storici delle vicine civiltà orientali: all’impero persiano erano dedicati i Persikà, fra i cui autori si ricordano Carone di Lampsaco e Dionisio di Mileto; i Lydiakà, come quelli composti da Xanto di Lidia, rispondevano agli interessi etnografici frutto delle intense relazioni che avevano avvicinato, prima della conquista persiana, le colonie greche d’Asia al regno di Lidia. Il genere genealogico ebbe i suoi autori principali in Acusilao di Argo, nelle cui Genealogie non mancavano spunti di spiegazione razionale del mito, e Ferecide di Atene, autore di un’opera genealogica che in qualche caso giungeva fino alla piena età storica, dedicando particolare spazio alle famiglie attiche, e accoglieva piacevoli e dettagliati inserti narrativi. La storiografia locale conosce in quest’epoca le prime opere sulla grecità d’Occidente: dopo Ippi di Reggio, nella seconda metà del V secolo Antioco di Siracusa compose una Storia della Sicilia, ritenuta la più importante del genere. La narrazione partiva dal tempo mitico e arrivava fino al 424 a.C.; nonostante l’origine dorica dell’autore, era scritta in dialetto ionico in ossequio ai canoni del genere storiografico. Nel campo della storia regionale ed etnografica fa il suo esordio anche una popolazione greca, quella di Atene, oggetto delle ricerche esposte da Ellanico di Mitilene (circa 480-dopo il 406 a.C.) nell’Atthìs («monografia sull’Attica»). L’opera seguiva un criterio annalistico ed elencava notizie varie di carattere religioso, storico, antiquario legate all’Attica, dai tempi mitici all’attualità; fu presa a modello da autori ateniesi del IV secolo, detti attidògrafi (Clidemo, Androzione, Fanodemo, Melanzio, Demone, Filocoro), dando così origine a un vero e proprio sottogenere.
Tra la metà del V secolo e l’inizio del IV campeggiano le figure di Erodoto, Tucidide e Senofonte, autori di ampie monografie storiche, che ci sono pervenute, sulle vicende delle pòleis greche: ne parleremo fra poco. Tra le opere delle quali invece restano solo frammenti dobbiamo ricordare anzitutto le anonime Elleniche di Ossirinco (così dette dalla località egizia in cui furono rinvenuti i resti papiracei), composte negli anni 375-350 e incentrate sugli avvenimenti compresi fra il 411 e il 394 o 386 a.C.: lo storico intendeva continuare il resoconto di Tucidide, che al 411 si interrompe, riprendendone anche alcune caratteristiche storiografiche (il criterio cronologico, la tendenza all’obiettività, il ricorso a testimoni oculari e lo scrupolo nella ricerca di testimoni attendibili e informati, la preferenza per la storia politica e militare, l’atteggiamento nella ricerca delle cause). L’incidenza del modello tucidideo è riconoscibile pure nei frammenti dei Sikelikà di Filisto di Siracusa, uomo politico legato personalmente al tiranno Dionisio I: la sua monografia sulla storia dell’isola era divisa in due parti, la prima delle quali copriva un arco di tempo di 800 anni e la seconda trattava delle vicende di Dionisio I e Dionisio II, fino al 363/2. Le opere di Ctesia, nato verso il 440 a Cnido sulla costa meridionale dell’Asia Minore, si inserivano nel filone della storiografia locale ed etnografica (Persikà, Indikà, oltre a una Descrizione della terra e a uno scritto di economia Sui tributi in Asia) proseguendo l’esposizione storica di Erodoto sia nei contenuti, sia nel gusto per le curiosità bizzarre, il meraviglioso e lo straordinario, accompagnato da una ricerca di effetti drammatici che dessero alla narrazione storica un’accattivante vivacità.
Ricordiamo infine due storici del IV secolo, a quanto pare allievi dell’oratore Isocrate, che, come vedremo nel capitolo sull’oratoria, fondò e diresse per lunghi decenni ad Atene un’importante scuola di formazione umanistica. Eforo di Cuma in Asia Minore (circa 400-330) è considerato l’iniziatore della storiografia retorica, attenta ai fattori stilistici ed espressivi e volta a obiettivi artistico-letterari, e della storia universale, cioè di una trattazione che allargava la prospettiva storiografica facendo iniziare la narrazione dai tempi più antichi. I 29 libri delle Storie raccontavano le vicende della Grecia dal ritorno degli Eraclidi (1069/8) all’inizio della Guerra Sacra (356) e procedevano per temi, raggruppando gli avvenimenti di un determinato scacchiere anche per un periodo di tempo piuttosto lungo: il flusso degli eventi non era concepito nella sua dimensione complessiva, ma come un’addizione di storie autonome. Si trattava di una storiografia di ispirazione moralistica e di carattere eminentemente letterario, basata su presupposti retorici piuttosto che sull’esperienza dei fatti o su motivazioni pragmatiche, tanto che Eforo fu definito dallo storico Polibio un erudito da tavolino, che ricostruisce la storia ricorrendo a precedenti resoconti e affidandosi completamente a fonti letterarie. Tra gli scritti di Teopompo di Chio (circa 379-dopo il 323) risaltavano le perdute Elleniche in 12 libri, continuazione della monografia tucididea dal 411 al 394 in competizione con le Elleniche di Senofonte e con quelle anonime rinvenute a Ossirinco, e i Philippikà in 58 libri, dedicati all’affermazione politica e militare della Macedonia sotto il regno di Filippo II. La storiografia di Teopompo, come quella di Eforo, era connotata in senso retorico e moralistico, secondo una tendenza che viene ricondotta all’insegnamento di Isocrate: ammetteva numerose e ampie digressioni mirate a garantire il piacere della lettura, senza escludere l’elemento meraviglioso, straordinario e curioso, ritenuto utile per la conoscenza storica dei popoli non meno dei fatti politico-militari.
Può non sorprenderci che Cicerone abbia definito Erodoto pater historiae, soprattutto perché è il primo storico la cui opera si sia conservata per intero e di cui possiamo perciò valutare gli obiettivi e il metodo storiografico. Ma Cicerone doveva intendere qualcosa di più sostanziale, riconosceva cioè che con l’opera di Erodoto era comparso qualcosa di nuovo nella storia culturale e letteraria greca. Se i logografi con i loro scritti avevano consolidato l’interesse per i popoli e le città, per le loro vicende e le loro usanze, la novità dell’opera erodotea stava nell’avere cercato di dare continuità narrativa a una pluralità di storie, individuando come elemento di amalgama tematico la memoria delle grandi imprese dei Greci e dei “barbari”. Le storie delle città trovavano ora una cornice organica e per così dire una chiave d’interpretazione unitaria nel più ampio quadro dei rapporti conflittuali fra Oriente e Occidente, fra Asia ed Europa, culminati nella vittoria dei Greci sui Persiani.
Erodoto nacque fra il 490 e il 480 a.C. ad Alicarnasso, città dell’Asia Minore sulla costa della Caria, antica colonia dorica che però gravitava verso la più dinamica area ionica. La famiglia, di origine aristocratica, era coinvolta nelle vicende politiche della città e partecipò alla ribellione contro il tiranno Ligdami, che costò a Erodoto l’esilio a Samo. Tornato ad Alicarnasso, prese parte a una seconda ribellione, che spodestò Ligdami. Fra il 455 e il 445 compì viaggi nel Vicino Oriente: la Persia, le regioni dell’Asia Minore, la Fenicia, le coste del Mar Nero, l’Egitto. Verso il 445 era ad Atene, dove tenne pubbliche letture della sua opera storica; analoghe letture si tennero poi in altre città della Grecia e della Magna Grecia. Ad Atene pare avere stretto legami con il tragediografo Sofocle e conobbe certamente Pericle; e quando nel 444/3 lo statista ateniese ispirò la fondazione di una colonia panellenica a Turii, in Magna Grecia (nel sito dell’antica Sibari), Erodoto partecipò all’impresa e divenne cittadino della nuova colonia. Qui, a quanto pare, morì verso il 425. Le tappe geografiche fondamentali della biografia di Erodoto, fra due estremi del mondo greco orientale e occidentale (Alicarnasso e Turii) tenendo come fulcro Atene, restituiscono emblematicamente un’immagine dello storico come cosmopolita curioso e infaticabile.
La grandiosa opera di Erodoto, le Storie, è scritta secondo tradizione del genere in dialetto ionico e in età ellenistica fu suddivisa in 9 libri. Ha una struttura per nuclei narrativi o lògoi, incentrati sulle diverse civiltà con cui i Persiani entrarono in contatto nella loro espansione verso Occidente (libri I-V), fino allo scontro con le colonie ioniche e con la Grecia (VI-IX). Dopo un’introduzione, in cui si ripercorrono le origini mitiche dell’ostilità fra l’Occidente e l’Oriente, fra l’Europa e l’Asia, il I libro prende avvio con il lògos sul re lidio Creso e sul suo rapporto con la Ionia, dapprima aggressivo, poi di curiosità e di amicizia, tantopiù dinanzi all’incombere del comune pericolo persiano. In questa sezione trovano spazio celebri digressioni narrative: sul dialogo fra il re Creso e il saggio legislatore ateniese Solone, dall’intento chiaramente edificante; su Atene all’epoca del tiranno Pisistrato e su Sparta arcaica; sulla cattura di Creso da parte dei Persiani, che prima lo condannarono a morire bruciato sulla pira, poi lo graziarono. Segue il lògos sulla storia dell’impero medo-persiano, dalle origini fino all’instaurazione del dominio achemènide con Ciro il Grande (verso il 550); di grande interesse sono i capitoli concernenti la nascita e l’infanzia di Ciro. Il racconto prosegue con la conquista persiana delle regioni occidentali dell’Asia Minore, fra cui la Ionia greca, e, a Oriente, di Babilonia.
Il II libro è dedicato all’Egitto, invaso dal successore di Ciro, Cambise, nel 525. Questo episodio introduce la lunga digressione etnografica sull’Egitto, che occupa l’intero libro. L’interesse di Erodoto per la cultura egizia si esprime nell’ammirazione per la sua abissale antichità, nella descrizione dettagliata della geografia e della geologia di quella terra immensa (qui trova posto la famosa definizione dell’Egitto come «dono del Nilo», che deve risalire a Ecateo) e della religione del suo popolo, nel resoconto della storia plurimillenaria del paese, attraverso le innumerevoli dinastie faraoniche. Il racconto è costellato di approfondimenti sulle credenze egizie e su particolari di interesse tipicamente antiquario.
Gli argomenti portanti del III libro, attorno ai quali si aggregano numerose digressioni, sono le conquiste di Cambise (530/29-522 a.C.) e l’ascesa al trono di Dario, il primo re persiano che concepì mire espansionistiche verso la Grecia. Dopo un lògos etiopico, motivato da piani espansionistici di Cambise, leggiamo digressioni d’impianto distesamente narrativo sulle tirannidi arcaiche di Policrate a Samo (con il racconto aneddotico dell’amicizia fra il tiranno e il faraone Amasi, cui questi pose fine perché allarmato che la smisurata fortuna dell’amico potesse coinvolgerlo nella sicura rappresaglia invidiosa degli dèi) e di Periandro a Corinto. Riprende il lògos persiano, con la successione di Dario a Cambise e la grandiosa riorganizzazione amministrativa dell’impero. Nella parte finale del libro si incastonano curiosità e racconti fantastici concernenti l’India, l’Arabia e le regioni estreme del mondo asiatico, due lògoi samii, sulla fine di Policrate e le resistenze dell’isola alle mire persiane, e la storia della seconda conquista persiana di Babilonia, presa con l’inganno. Il IV libro si diffonde in dettaglio sulle operazioni militari compiute da Dario per la conquista della Scizia e della Libia, che costituiscono altrettanti spunti per due lògoi etnografici su queste regioni e i rispettivi popoli. Il secondo lògos ospita una sezione sugli insediamenti greci nell’area libica, offrendo una storia della colonizzazione della regione, dall’invio di una missione spartana nell’isola di Tera alla fondazione greca di Cirene sulla costa africana, con una decina di capitoli dedicati alla storia di questa città.
Con il V libro veniamo informati dei primi significativi contatti dell’impero persiano con il mondo greco periferico (la Tracia e la Macedonia) e della sottomissione delle colonie ioniche d’Asia Minore, che poi si ribellano, ma senza successo (rivolta ionica, 499-494 a.C.). La narrazione di questo episodio fondamentale nella storia dei rapporti fra i Persiani e il mondo greco occupa la parte rimanente del libro e reca al suo interno due importanti digressioni sulle pòleis emergenti di quest’epoca, Sparta e Atene. L’excursus sulla storia spartana prende spunto dal racconto della fallimentare ambasceria a Sparta, in cerca di aiuto contro la Persia, di Aristagora, uomo politico di Mileto e capo della rivolta. Analogamente, la stessa richiesta di aiuto rivolta ad Atene offre l’occasione allo storico per una lunga digressione sulla storia della città, dall’epoca del tiranno Pisistrato fino all’arrivo di Aristagora, passando per episodi come l’assassinio di Ipparco, la cacciata dei Pisistratidi, le riforme democratiche di Clistene e un interessante excursus di storia della cultura, sull’origine fenicia dell’alfabeto greco.
La narrazione degli sviluppi della sfortunata rivolta ionica occupa il VI libro. L’occupazione persiana del Chersoneso tracico e dell’Ellesponto rende chiare le mire espansionistiche della Persia verso la penisola greca, che, dopo il fallimento di alcune mosse esplorative, si concretizzano nella prima guerra persiana (490). Lo sbarco dei barbari nella piana costiera di Maratona si infrange contro l’eroica resistenza dei soldati ateniesi al comando di Milziade, i cui meriti sono gratificati dallo storico con una digressione sulla sua nobile famiglia, gli Alcmeònidi.
Il VII libro copre il decennio successivo alla prima guerra persiana, occupato dai preparativi in vista di un nuovo, inevitabile conflitto. Il libro si apre con il racconto dell’ascesa al trono di Serse e del laborioso allestimento di una nuova spedizione contro la Grecia, che comporta la creazione di un canale artificiale per il passaggio delle navi al promontorio del monte Athos e la costruzione di un ponte di barche sull’Ellesponto per il transito dell’esercito. Gli Ateniesi, per parte loro, confidando nella lungimirante intuizione di Temistocle rafforzano considerevolmente la loro flotta militare. Mentre in Sicilia forze greche congiunte sconfiggono i Cartaginesi a Imera, ponendo fine a un lungo conflitto per l’egemonia sull’isola, in Grecia si verifica il primo scontro militare che dà il via alla seconda guerra persiana: un presidio greco al passo delle Termopili, comandato dallo spartano Leonida, dopo un’eroica e prolungata resistenza viene annientato dai Persiani. Erodoto immagina che il successo persiano provochi un dibattito fra i dignitari di Serse circa la politica che il re dovrà tenere per il futuro.
Nell’VIII libro prosegue il racconto delle operazioni militari, con l’evacuazione parziale del territorio a nord dell’istmo di Corinto e il posizionamento della flotta, costituita prevalentemente da navi ateniesi, presso l’isola di Salamina nel Golfo Sarònico (a sud-est dell’Attica). L’acropoli di Atene viene conquistata e incendiata dai Persiani. Lo scontro decisivo avviene nelle acque di Salamina (480) e si conclude con l’imprevista disfatta dell’immensa flotta persiana, grazie alla perizia tattica dei Greci e all’agilità delle loro navi.
Le ultime operazioni militari sono esposte nel IX libro e consistono nei movimenti delle forze di terra. Lo scontro nella piana di Platea (479) è di nuovo favorevole ai Greci. Poco dopo, la flotta greca consegue un ulteriore successo nei pressi del promontorio Micale, convincendo definitivamente le forze persiane a ripiegare verso l’entroterra microasiatico. L’ultimo episodio ricordato è la presa di Sesto, sull’Ellesponto, da parte di Atene (479/8).
Gli studiosi tendono a collocare la pubblicazione definitiva delle Storie verso il 425 a.C., alla fine della vita di Erodoto, che certamente vi lavorò fino all’ultimo. Ma l’opera conobbe una pubblicazione per stralci nel corso del tempo, almeno a partire dal 445, in occasione di pubbliche letture tenute in Atene e in altre città, via via che le varie parti venivano composte. Si trattò dunque di una graduale diffusione prevalentemente orale, attraverso performances di tipo spettacolare: Tucidide definì polemicamente le Storie un’opera concepita per un intrattenimento di breve durata. Questa destinazione spiega perché vi si trovino alcuni motivi e concetti comuni anche alla poesia epica e ad altri generi narrativi arcaici; del resto, nel proemio l’autore si prefigge un tema e uno scopo consonanti con quelli degli aedi epici. Alcuni punti di contatto si riconoscono anche con la novella, assai diffusa in ambiente ionico, fra cui la concezione stessa del racconto, visto come non fine a se stesso ma funzionale alla trasmissione di una visione del mondo.
Le caratteristiche strutturali delle Storie sono all’origine di una “questione erodotea” riguardo al problema della composizione dell’opera, soprattutto per quanto concerne l’ordine in cui sono state composte le varie parti e lo scopo che ne ha governato la stesura. Sono state avanzate teorie evoluzionistiche, sostanzialmente non unitarie e volte a spiegare le incongruenze e disomogeneità come tracce di un processo fatto di varie fasi e cambiamenti di prospettiva. In tempi più recenti si è fatta strada una critica unitaria, che ha messo piuttosto l’accento sull’unità di intenti e di concezione complessiva delle Storie. Ma l’opera erodotea può essere compresa solo se si rinuncia a misurarla con criteri compositivi moderni. La struttura risulta a suo modo unitaria, se si tiene presente che fin dai primi capitoli Erodoto dichiara di voler parlare non delle guerre persiane, bensì dello scontro tra Oriente e Occidente, rifacendosi alle sue remote origini mitiche. Entro tale quadro di portata universale, il periodo storico considerato è meno di un secolo (dal 560 al 478): la Lidia di Creso aveva sottomesso le città greche dell’Asia Minore, poi alla Lidia era subentrata la Persia, che aveva cercato di estendere il suo dominio alla Grecia, ma era stata respinta. Da Creso a Serse, la storia dei rapporti della Grecia con il Vicino Oriente s’identificava con la difesa e la riconquista della libertà nei confronti dei “barbari”.
Uno dei tratti salienti del metodo storiografico erodoteo è la varietà combinata delle fonti d’informazione. Un ruolo primario rivestono i viaggi dello storico nelle regioni di cui parla, che costituirono l’occasione per l’osservazione diretta di luoghi, popolazioni e monumenti e per raccogliere testimonianze locali, sia orali sia scritte. Ma Erodoto si avvalse con spirito critico anche dell’opera di logografi come Ecateo, che cita espressamente, e non dovette esitare ad attingere episodicamente anche alla produzione poetica: per esempio, la narrazione della battaglia di Salamina appare modellata sui Persiani di Eschilo. È poi evidente che lo storico lasciava spazio a ricostruzioni d’ispirazione letteraria per fatti non documentabili, come nel caso dei discorsi diretti e dei dibattiti dei personaggi; che l’istanza artistica abbia avuto un ruolo è palpabile nella frequenza di elementi lessicali di marca omerica, incastonati sul fondo linguistico ionico, e nella ricerca della piacevolezza e della varietà dello stile, che si modella sui differenti tipi di contenuto, dal breve racconto alla descrizione geografica, dal dibattito politico (con discorsi diretti) alla descrizione di battaglie, dal dialogo morale alla riflessione sulle forme di governo.
La mistione di fonti e spunti d’ispirazione diversi non deve ingannarci sul fatto che Erodoto è ben consapevole della necessità di stabilire una gerarchia, cioè di dover assegnare la massima importanza alle testimonianze orali e ai documenti scritti (materiali d’archivio, liste di magistrati, iscrizioni, responsi oracolari). La sintesi più eloquente del suo modo di procedere si legge in Storie II 99, dopo la descrizione geografica ed etnografica dell’Egitto e prima dell’esposizione della storia del paese: «Finora ho riferito ciò che ho visto con i miei occhi (òpsis), valutato con il mio giudizio (gnòme) e stabilito con la mia indagine (historìe), ma d’ora in avanti racconterò le storie egiziane così come le ho sentite; aggiungerò comunque anche qualcosa di quello che ho visto». È evidente la netta distinzione fra autopsìa delle realtà esistenti e raccolta delle tradizioni locali sul passato: mentre dell’osservazione diretta dei luoghi e dei fatti attuali si fa garante lo storico stesso, aiutato dal giudizio critico (gnòme), le informazioni su eventi trascorsi, vicini o lontani, sono indagate e vagliate con l’ausilio di testimonianze dirette.
È caratteristico della narrazione erodotea riferire le tradizioni così come esse venivano narrate e, nel caso in cui esistessero versioni diverse, esporle tutte senza operare una selezione, ma giustapponendole le une alle altre: talvolta, dinanzi a racconti palesemente contraddittori, lo storico dichiara il proprio scetticismo per l’uno o per l’altro, senza tuttavia procedere a una selezione. Questo criterio, che potrebbe apparirci ingenuo o scarsamente critico, sembra rispondere all’idea di non sopravvalutare la capacità individuale di discernimento della verità e di non abbandonare all’oblìo versioni esistenti: e in effetti dobbiamo a questa scelta la nostra conoscenza di notizie preziose sulle culture descritte e sulle convinzioni antiche intorno ad esse. Ma è un atteggiamento che si spiega anche al di fuori della logica strettamente storiografica. Erodoto si manifesta grande narratore nel gusto di riferire ciò che ha visto e sentito, ciò che ha saputo e conosciuto; nel piacere di accumulare informazioni, di raccogliere notizie su popoli e paesi, usi e costumi strani e diversi, sul meraviglioso che fa parte degli avvenimenti e della vita degli uomini; nella soddisfazione di presentarsi come il tramite fra le sue fonti e il suo pubblico. La curiosità di indagare, scoprire, conoscere si sposa con il piacere di riferire e narrare: non è né credulone né ingenuo, ma subisce il fascino tanto degli eventi storici quanto delle usanze e credenze più diverse e lontane.
Se la ricostruzione storica di Erodoto non persegue il rigore tipico della storiografia posteriore, lo si deve alle ragioni di cui abbiamo parlato, e inoltre all’importanza dominante del fattore etico. Per esprimere la sua visione complessiva della storia umana, Erodoto non evita imprecisioni storiche e anacronismi, se ciò permette di dare rilievo a una tematica morale: le cause degli eventi sono riconosciute in primo luogo in responsabilità etiche, ingiustizie fatte o subite, punizioni inferte o ricevute, torti e vendette che si susseguono nel tempo. Il fortissimo senso religioso induce Erodoto a contemplare nelle vicende degli uomini l’intervento divino, che agisce come garante del principio etico della moderazione, del non andare al di là dei propri limiti: quando il divino manifesta la sua volontà attraverso oracoli, segni prodigiosi, profezie, l’uomo deve uniformarsi, scegliere secondo il piano del dio, per scongiurare l’inevitabile punizione. È una visione fatta di certezze religiose e insieme pessimistica, non lontana da quella che emerge nella tragedia di Eschilo e di Sofocle.
Erodoto si rivolge a un pubblico vario e variamente interessato con un messaggio storico di alto valore etico e politico, ma è chiaro che non presuppone affatto persone direttamente impegnate nella vita politica e istituzionale della pòlis. Con Tucidide, che si occupa delle vicende legate alla guerra del Peloponneso, la storiografia da una parte si cala completamente nella vita della città, nell’osservazione dei dibattiti e degli scontri nella vita civile, nell’analisi delle motivazioni sociali degli avvenimenti interni; dall’altra, poiché la città è Atene, che dopo le guerre persiane aveva affermato la propria egemonia ed era arrivata infine allo scontro decisivo con Sparta, la prospettiva trascende i limiti della singola pòlis e finisce per riguardare i rapporti fra le città-stato, insomma una vicenda storico-politica sentita come propria della Grecia. La storiografia si configura come riflessione sui fatti politico-militari perché è opera di un uomo impegnato nella politica ed è concepita non per la curiosità o l’intrattenimento del destinatario, ma con il fine pragmatico di fornire insegnamenti utili a quanti a loro volta saranno uomini politici. È perciò anche inevitabile che la storiografia politica sia centrata sui fatti contemporanei e abbia come suo significato e punto d’arrivo la comprensione del presente. Per questo aspetto e in quanto ideatore di un rigoroso metodo “scientifico”, Tucidide resterà a lungo uno dei massimi punti di riferimento della storiografia politica.
Alcuni aspetti cruciali della biografia di Tucidide ci sono noti perché lui stesso ne parla nella sua opera. Nacque ad Atene, in un anno che si può collocare fra il 460 e il 455 a.C., da una famiglia aristocratica e benestante. Le fonti lo dicono discepolo del filosofo Anassagora e del retore Antifonte di Ramnunte. Nel 424/3 fu uno degli strateghi che dovevano guidare le operazioni militari in Tracia, allora teatro della guerra contro Sparta: per Tucidide si trattò di un’esperienza fallimentare, perché non riuscì a impedire la defezione e la perdita della città di Anfipoli e, a quanto pare, per questo insuccesso gli fu intentato un processo e comminato l’esilio. Non è inverosimile che abbia soggiornato nel Peloponneso; sicuramente fu in Tracia, dove, secondo alcune fonti, lavorò alla composizione della sua opera storica. Morì fra il 403 e il 399.
La Guerra del Peloponneso, titolo con cui è nota l’opera tucididea, ci è giunta in 8 libri, una divisione non voluta dall’autore ma risalente all’edizione ellenistica. Il racconto è segnato dalla rigorosa scansione cronologica basata sugli anni di guerra, a partire dall’inizio del conflitto nel 431. Cesure interne alla narrazione, contrassegnate da una formula di chiusura o «sigillo» (sphraghìs, del tipo «e così si concluse il tale anno della guerra di cui Tucidide ha scritto la storia»), indicano che in origine a ciascuno dei ventuno anni di guerra oggetto del racconto storico corrispondeva un rotolo di papiro. La scelta del criterio annalistico, con la narrazione strutturata anno per anno per estati e inverni, costituisce un aspetto del metodo storiografico tucidideo fondamentale per collocare un evento con precisione e ovviare al problema posto dall’incoerenza dei diversi sistemi cronologici antichi.
L’opera si apre con un proemio, in cui l’autore dichiara il proprio nome e l’argomento. Segue un rapido quadro retrospettivo (archaiologhìa) dello sviluppo del mondo greco a partire dai primi insediamenti nella penisola fino alle guerre persiane, che offre l’occasione per alcune importanti considerazioni di metodo circa la ricostruzione della verità su eventi del passato. Il I libro prosegue con l’analisi delle cause più recenti e immediate del conflitto oggetto dell’opera, in cui si inserisce come digressione un resoconto dei «cinquanta anni» (pentekontaetìa) precedenti. Il II libro concerne i primi tre anni di guerra (431-429), segnati da scontri in Beozia e nell’Attica, e comprende il discorso funebre (epitàfio) di Pericle dinanzi all’assemblea ateniese per commemorare i caduti del primo anno di conflitto, la descrizione dell’epidemia scoppiata nella città nell’estate del 429 e l’ultimo discorso di Pericle prima di morire, seguito da un bilancio della figura dello statista e della politica ateniese. Il teatro delle operazioni si sposta nell’Egeo settentrionale, in Tracia. Nel III libro (428-426) spicca il racconto della rivolta dell’isola di Mitilene contro Atene e della dura reazione del demagogo Cleone, che arriva a proporre la distruzione della città e l’eliminazione fisica dei suoi abitanti. Altri eventi rilevanti sono la conquista spartana di Platea, città della Beozia alleata di Atene, e la prima spedizione ateniese in Sicilia, nel 427, per frenare le mire espansionistiche di Siracusa. Il IV libro (425-422) muove tra il successo messo a segno da Atene sulle coste del Peloponneso, a Pilo e nell’isola di Sfacteria, dove viene catturato un intero contingente spartano, e la caduta di Anfipoli nelle mani delle truppe spartane guidate da Brasida: lo stesso Tucidide, stratego in quell’area, riesce soltanto a salvare con la sua squadra navale il porto di Eione. Atene chiede e ottiene una tregua. Alla ripresa delle ostilità, il cui racconto apre il V libro (422-415), nella battaglia campale ad Anfipoli muoiono Cleone e Brasida, i due principali fautori, sui fronti opposti, della prosecuzione a oltranza della guerra: acquistano forza i sostenitori di una pace, che viene firmata dallo stratego Nicia (421 a.C.). Mentre si consumano reciproche inadempienze delle condizioni di pace e contrasti interni ai due schieramenti, l’inasprimento dell’egemonia ateniese si manifesta nella cinica sottomissione dell’isola di Melo (416), cui non giova la disperata trattativa diplomatica (la ricostruzione tucididea è nota come “dialogo dei Meli”). Nel VI libro Tucidide illustra le circostanze torbide in cui prese avvio la seconda spedizione ateniese in Sicilia contro Siracusa (415-413), con la misteriosa mutilazione delle erme (cippi raffiguranti il dio Ermes disseminati in luoghi pubblici della città) e l’incriminazione di Alcibiade di attentare alla democrazia, che gli costerà la revoca del comando della spedizione; per illustrare il clima di timore per un possibile instaurarsi della tirannide, lo storico inserisce qui una digressione sui Pisistratidi e sulle circostanze dell’uccisione di Ipparco. La seconda parte del libro verte sulle operazioni militari in Sicilia, il cui racconto prosegue e si conclude nel VII libro con la drammatica sconfitta ateniese e la messa a morte degli strateghi Nicia e Demostene, mentre gli altri prigionieri vengono gettati a morire di stenti nelle cave di pietra o latomìe (413). L’VIII libro (412-411) descrive le conseguenze militari e politiche della disfatta per Atene: l’esule Alcibiade, dopo essersi adoperato a lungo per favorire Sparta a danno degli Ateniesi, viene infine richiamato in patria ed eletto stratego; nel 411 gli oligarchici attuano un colpo di Stato contro il governo democratico e insediano il regime dei Quattrocento, presto sostituito con quello più moderato dei Cinquemila. La ritrovata concordia consente alla flotta ateniese di riportare alcuni successi militari.
Il racconto si interrompe bruscamente in questo punto, nel bel mezzo dell’ultima fase della guerra (che terminò nel 404) e senza una vera conclusione. Che l’intenzione di Tucidide fosse quella di proseguire la narrazione fino al termine del conflitto, è mostrato da indizi interni all’opera, come un passo del cosiddetto “secondo proemio” (V 26, 1): «Anche la storia di questi fatti l’ha scritta il medesimo Tucidide di Atene, seguendo l’ordine in cui ciascuno di essi si è verificato, procedendo per estati e per inverni, fino a che i Lacedèmoni e i loro alleati non posero fine all’egemonia ateniese con l’occupazione delle Lunghe Mura e del Pireo: fino a quel momento, la guerra ebbe una durata di 27 anni». L’impressione di incompiutezza viene anche da alcune caratteristiche dei libri V e VIII, dove mancano del tutto i discorsi diretti degli uomini politici e i documenti sono riportati nella loro forma originale e non, come d’abitudine, fusi e amalgamati nell’esposizione. L’individuazione di questo genere di punti deboli nel testo ha dato origine, come per Erodoto, a una “questione tucididea”: si sono contrapposte una critica di tipo analitico, volta a spiegare gli elementi di incompiutezza e di disomogeneità come effetto della giustapposizione di parti nate separatamente, e una prospettiva unitaria, convinta della concezione unica e organica dell’opera fin dall’inizio. L’interrogativo rimane aperto, e attualmente prevale un atteggiamento di cautela verso le analisi spregiudicate e pretenziose ma anche verso le tesi unitarie troppo semplicistiche.
Fra i contributi dell’opera tucididea alla fisionomia del genere storiografico si distingue l’elaborazione di una metodologia d’indagine basata su presupposti rigorosi e in un certo senso “scientifici”. Anzitutto i contenuti: Tucidide sa di fondare una storiografia nuova rispetto a quella erodotea, rinunciando a molti aspetti di piacevole intrattenimento ereditati dalla logografia tradizionale (dettagliate notizie etnografiche, curiosità incredibili e meravigliose, la cultura religiosa) a vantaggio di una più severa ricerca centrata sui fatti politico-militari e su una stretta aderenza al vero. Benché Erodoto non sia mai nominato direttamente, nei capitoli metodologici del I libro affiora la polemica nei confronti della storiografia geo-etnografica, di cui viene criticato principalmente il carattere edonistico, responsabile di indulgere agli aspetti favolosi e mitici piacevoli all’uditorio e di mettere in ombra il valore pragmatico e utilitaristico del racconto storico. La polemica si alimenta di una diversa idea della ricerca, a cui Tucidide attribuisce una funzione di insegnamento duraturo (ktèma es aèi, «possesso perenne»), e insieme del profondo mutamento in corso nelle forme di pubblicazione e di fruizione delle opere letterarie, per la crescente diffusione dei testi scritti: la pubblica lettura dinanzi a una platea di ascoltatori “dilettanti” cedeva il passo, nelle intenzioni di Tucidide, alla lettura personale dei professionisti della politica, con tutti i vantaggi di un’assimilazione dei contenuti garantita dalla concentrazione del pensiero.
L’altro terreno sensibile del genere storiografico, nel quale Tucidide è conscio di voltare pagina rispetto al passato, è il metodo di accertamento dei fatti. L’archaiologhìa, cioè la ricostruzione del passato remoto, aveva messo lo storico di fronte al problema di accertare la verità di eventi così lontani e alla necessità di procedere in base a tekmèria («indizi»). Nei capitoli metodologici dell’opera (I 20-22) egli afferma di essersi basato sulla propria personale osservazione dei fatti e, per quanto possibile, sul racconto di testimoni oculari: non si è però attenuto passivamente alle informazioni del primo venuto, ma ha vagliato accuratamente le testimonianze raccolte, perché, di uno stesso avvenimento, diversi testimoni danno versioni anche molto diverse, sia per l’imprecisione della memoria sia per le deformazioni, intenzionali o meno, suggerite dalla propensione personale. L’obiettivo di fondo è l’aderenza al vero, più facilmente attingibile nella narrazione di fatti contemporanei, grazie alla possibilità dell’esperienza diretta e alla maggiore attendibilità dei testimoni. Diversamente da Erodoto, Tucidide opera una selezione tra le informazioni contraddittorie di cui viene in possesso e sceglie di esporre soltanto la versione che, a suo giudizio, è risultata vera o verosimile, senza lasciare spazio alle altre: è un criterio che può apparire superiore perché più fiducioso nella critica razionale delle cause, ma nasconde in realtà un’insidia grave, perché l’opinione dello storico può avere determinato la perdita di tradizioni significative per la ricostruzione dei fatti. In assenza di autopsia e di testimonianze dirette, per Tucidide si deve almeno mirare a una ricostruzione verosimile dell’accaduto, avvalendosi di adeguati criteri di analisi delle cause, che non sono tutte dello stesso tipo (I 23): i fatti si originano da una ragione vera e più profonda (alethestàte pròphasis: per la guerra del Peloponneso, l’incremento incontrastato della potenza ateniese), che è da tenere distinta dalle cause dichiarate dai contendenti (aitìai) e dal motivo occasionale o pretesto (archè) che conduce a un evento (come l’effettivo scoppio del conflitto).
Benché gli antichi apprezzassero in Tucidide la tendenza all’obiettività dell’analisi e dell’esposizione dei fatti, nell’opera si avvertono le inclinazioni personali dello storico, a partire dal punto di vista fortemente centrato su Atene, attorno a cui ruota l’intera narrazione. Sul piano delle convinzioni politiche, è evidente l’avversione nei confronti del demagogo Cleone, mentre di Pericle si apprezzano le doti di statista lungimirante e traspare la preferenza per una forma di governo moderata incarnata dall’oligarchia dei Cinquemila. L’apparente obiettività del racconto è il risultato dell’attenzione di Tucidide a evitare di esprimere giudizi espliciti sui fatti, affidando semmai alla sua arte narrativa la comunicazione al lettore della propria visione delle cose.
Dinanzi alla forza innovativa delle scelte introdotte da Tucidide, la critica si è interrogata su influssi e suggestioni culturali contemporanei che possano avere agito sulla sua sensibilità. Nella metodologia tucididea si sono notate analogie con la concezione che emerge da alcuni trattati medici del Corpus Hippocraticum, secondo cui, viste le costanti della natura umana, l’osservazione del passato è in grado di fornire le basi per la previsione (prognosi) di eventi futuri e per dare indicazioni di comportamento. In Tucidide, in effetti, si trovano riferimenti alla costanza della natura umana, che reagisce in modo analogo di fronte a situazioni analoghe: è rivelatore in tal senso l’uso del verbo elpìzein, «aspettarsi», per esprimere la previsione che il conflitto fra Atene e Sparta sarebbe stato di grandissima portata, così come quello del termine prònoia, «preveggenza», a indicare la dote principale dei più capaci statisti ateniesi. Tuttavia non bisogna trascurare che, all’interno della generale visione razionalistica della storia, Tucidide non ignora la funzione assunta dal paràlogon, il «fattore irrazionale», non prevedibile dal lògos umano.
Un secondo ambito culturale che deve avere esercitato una certa influenza sul pensiero tucidideo è quello retorico. Specialmente ad Atene, l’educazione retorica andava assumendo un ruolo decisivo nella vita civile ed era impossibile scindere l’impegno politico dalla necessità di saper elaborare un’orazione capace di orientare le decisioni di un’assemblea. Quella degli uomini politici e degli ambasciatori era un’oratoria non scritta e dunque non destinata a restare, ma senz’altro fondata su una formazione che a questo aspetto annetteva grande importanza. I discorsi che Tucidide mette in bocca ai personaggi nella sua opera possono darci un’idea di questa oratoria, anche se non sono certo una “registrazione”: essi sono sia un elemento della retorica del genere storiografico stesso, sia un aspetto ineliminabile della sua storiografia in quanto storiografia politica. Per la loro ricostruzione, Tucidide dichiara di essersi basato su due principi (I 22, 1): far pronunciare ai personaggi ciò che inevitabilmente essi devono aver detto; e attenersi nel modo più fedele possibile al contenuto complessivo e all’intenzione generale di quanto effettivamente detto. Lo stile dei discorsi tende all’uniformità e coincide in generale con quello di Tucidide, che evidentemente non ha inteso riprodurre il carattere individuale di ciascun oratore; dal punto di vista del contenuto, i discorsi sono ricchi di idee riconducibili al pensiero dello storico, talvolta mancano di elementi concreti e abbondano di massime generali. Si tratta dunque essenzialmente di uno strumento nelle mani dello storico, che lo usa per l’interpretazione degli avvenimenti e delle motivazioni dei personaggi.
Parlare di oratoria politica nei decenni finali del V secolo ad Atene significa fare i conti, inevitabilmente, con la Sofistica. A suggestioni seminate da questo movimento intellettuale riconducono alcuni aspetti dell’opera di Tucidide, come l’utilizzo di discorsi antitetici, nei quali si esaminano le opposte ragioni su un determinato argomento, e la stessa concezione pragmatica e utilitaristica della ricerca storica, consonante con l’idea di cultura professata dei Sofisti. Alla loro sensibilità si è accostato anche l’atteggiamento scettico di Tucidide nei confronti del divino: ponendosi agli antipodi rispetto a Erodoto, pur dimostrandosi ben informato delle istituzioni religiose, egli opta per un punto di vista laico ed elimina completamente l’idea di un’influenza degli dèi nella storia, sforzandosi di spiegare razionalmente gli avvenimenti. E un noto insegnamento sofistico, quello che affermava il diritto naturale del più forte, è il tema portante del dialogo degli Ateniesi e dei Meli nel V libro dell’opera, in cui gli abitanti della piccola isola tentano invano di far valere il diritto all’autodeterminazione e devono soccombere alla spietata prevaricazione della città egemone. Il caso specifico assurge a situazione emblematica per la riflessione filosofico-politica e la discussione del problema della logica di potenza e della sua giustificazione: ne emerge un giudizio negativo di Tucidide nei confronti della natura prevaricatrice e immorale assunta dall’impero ateniese dopo l’età di Pericle.
Concludiamo il nostro profilo di Tucidide ricordando che la sua prosa, in un attico un poco arcaizzante e aperto a influssi ionici, era considerata dagli antichi un esempio di stile austero: sintassi non facile, talvolta impervia, con dissimmetrie, anacoluti, frasi nominali; concisione che rasenta talvolta l’oscurità; composizione severa, che non ammette orpelli e non concede piacevolezze immotivate; largo impiego di figure retoriche; lessico difficile, con molti termini astratti e parole rare e arcaiche, addirittura poetiche. Insomma, una forma stilistica che sembra rifuggire intenzionalmente la facilità e la scorrevolezza, obbligando a soffermare l’attenzione su fatti e concetti: quasi a significare la fatica e la dimensione settoriale della conoscenza storica, e a scongiurare l’eventualità del lettore generico, dai gusti erodotei.
L’insieme della produzione di Senofonte comprende scritti socratici, storiografici, biografici e opuscoli di contenuto tecnico: una varietà che testimonia di una personalità eclettica, dagli interessi molteplici e dalla mentalità aperta, rilevante per la sua novità complessiva. È tuttavia innegabile che la sua immagine di intellettuale e di scrittore sia destinata a sbiadire nei confronti che viene naturale istituire: se come testimone della vita e del pensiero di Socrate è messo in ombra dalla personalità preponderante di Platone, come storico finisce col risultare una sorta di copia minore rispetto al precedente diretto troppo ingombrante di Tucidide.
Senofonte nacque poco dopo il 430 a.C. ad Atene, da un’agiata famiglia del ceto equestre, e in gioventù prese parte a operazioni militari di cavalleria. Frequentò Socrate, provando per lui una profonda ammirazione. Le sue simpatie oligarchiche traspaiono dal fatto che, al termine della guerra del Peloponneso, fece parte della cavalleria dei Trenta Tiranni imposti da Sparta e, con la restaurazione della democrazia nel 403, raccogliendo l’invito dell’amico tebano Prosseno lasciò Atene e si arruolò nell’esercito mercenario (i cosiddetti “Diecimila”) del persiano Ciro il Giovane: questi tramava di spodestare dal trono il fratello Artaserse II, ma nel 401, nello scontro decisivo a Cunassa, non lontano da Babilonia, Ciro cadde ucciso, cosicché i Diecimila non ebbero altra scelta che darsi a una lunga ed estenuante ritirata dalla Mesopotamia fino a Bisanzio. Senofonte rimase in Asia Minore, partecipando a diverse campagne militari di Sparta contro la Persia e stringendo un rapporto di amicizia con il re spartano Agesilao. Già condannato all’esilio da Atene, fece ritorno in Grecia e si stabilì a Sparta, partecipando alla battaglia di Coronea (394) al fianco degli Spartani contro l’esercito ateniese. Agesilao ricompensò l’amico facendogli dono di una proprietà a Scillunte, un villaggio presso Olimpia, dove Senofonte visse ritirato per un ventennio, dedicandosi alla composizione della maggior parte dei suoi scritti. Quando nel 371 Sparta fu sconfitta da Tebe e perse l’egemonia sul Peloponneso, Senofonte dovette rifugiarsi a Corinto. Nonostante la condanna all’esilio fosse stata revocata, non risulta che abbia mai fatto ritorno ad Atene. La morte è da porre intorno al 355.
Senofonte vive dunque la fase incerta e inquieta che segue alla disfatta ateniese nella guerra del Peloponneso. Le avventure militari mercenarie, da soldato di ventura, e la peculiarità della sua posizione biografica e politica nei confronti di Atene e di Sparta, che lo portò a vivere in entrambe le città (e alla fine anche a Corinto), rivelano che non si sente legato a doppio filo con la sua pòlis in modo esclusivo. Sembra emergere in lui un certo individualismo, per cui è meno forte il cordone ombelicale rappresentato dalla forza centripeta della città. Allo stesso tempo, da certe opere e dal rapporto personale con Agesilao trapela la sua preferenza politica per un modello di Stato governato da una monarca illuminato, di evidente matrice pre-ellenistica. Visto con questa prospettiva, Senofonte sembra addirittura essere in anticipo sui tempi o almeno preannunciare sviluppi che matureranno più tardi.
La posizione più rilevante tra le opere di Senofonte spetta alle grandi monografie storiche: le Ellèniche e l’Anàbasi di Ciro. Con le Elleniche (Hellenikà, «Storia della Grecia»), in 7 libri, l’autore si inserisce nel filone storiografico rivolto agli eventi contemporanei e intenzionalmente si pone in continuità con l’opera tucididea occupandosi degli avvenimenti compresi fra il 411 e il 362 a.C. Il I libro e parte del II concernono la fase finale della guerra del Peloponneso; il resto del II libro dà conto del regime dei Trenta Tiranni inflitto da Sparta ad Atene sconfitta e prostrata, fino al ristabilimento della democrazia nel 403. Il III libro si apre lasciando nel racconto uno iato di alcuni anni (403-399) e occupandosi degli anni iniziali dell’egemonia spartana, che costituiscono l’argomento anche del IV libro e dell’inizio del V e comprendono le guerre combattute da Sparta contro la Persia e la guerra di Corinto, fino alla pace del Re del 387/6. Il resto dell’opera (V-VII) concerne gli ultimi anni dell’egemonia spartana fino alla battaglia di Leuttra (371) e l’egemonia tebana fino al suo esaurimento dopo la battaglia di Mantinea (362). Incertezze gravano sulla composizione di questa monografia: alcuni studiosi hanno ritenuto di distinguere nell’opera due o tre nuclei principali, la cui stesura separata e autonoma risulterebbe da diversi indizi, come l’affinità con lo stile di Tucidide nella parte che va fino al termine della guerra del Peloponneso e l’accentuarsi della tendenza filospartana dell’autore con l’avanzare della narrazione. L’analisi delle caratteristiche metodologiche dell’opera rivela la sua inferiorità rispetto alla rigorosa monografia di Tucidide: basti dire che nell’analisi delle cause degli avvenimenti torna a fare la sua comparsa l’elemento divino e che manca un’indagine sistematica delle fonti. Un certo spazio è riservato alle esperienze personali dell’autore, particolarmente preziose ed efficaci nella descrizione di eventi bellici.
L’Anabasi di Ciro, anch’essa in 7 libri, è consacrata alla drammatica esperienza dell’esercito mercenario dei Diecimila. Il titolo Anabasi, «Viaggio verso l’interno», è adeguato solo ai primi capitoli dell’opera (I 1-6), che contengono la narrazione della marcia dell’esercito di Ciro fino alla battaglia di Cunassa: per il resto, il racconto concerne la battaglia stessa, la situazione venutasi a creare successivamente alla morte di Ciro e la drammatica ritirata delle truppe greche fino al Mar Nero. Senofonte pubblicò l’opera sotto pseudonimo: un espediente per poter presentare come decisivo il proprio ruolo nella vicenda, mentre risulta che in realtà egli abbia avuto solo un ruolo subalterno nella guida della retroguardia. Per questa ragione, il racconto è in terza persona, si presenta come un resoconto obiettivo e impersonale che registra giorno per giorno i fatti accaduti e unisce caratteristiche del memoriale di guerra, del racconto di viaggio, della biografia e dell’autobiografia a scopo apologetico.
Due scritti senofontei, la Ciropedìa e l’Agesilao, sono fra i testi greci più antichi del genere biografico. La Ciropedia («Educazione di Ciro»), in 8 libri, narra la vita di Ciro il Grande dalla fanciullezza alla fondazione dell’impero persiano. In quest’opera, scritta in età avanzata, Senofonte cercò di riassumere e raccogliere le sue idee sull’educazione e la condotta di una figura emblematica di generale e uomo di Stato, distillando il frutto di esperienze e contatti personali durati tutta la vita. L’intento è dunque etico e pedagogico: proporre una biografia esemplare come modello di vita. Si parla anche di addestramento delle reclute, organizzazione dell’esercito, tattica militare, in una dimensione pedagogica di tipo pratico che risponde a una precisa propensione di Senofonte. L’Agesilao è uno scritto biografico-encomiastico che esprime il rapporto di amicizia e di ammirazione fra lo storico e il re spartano, maturato durante l’esperienza militare in Asia. L’elogio di Agesilao, descritto come uomo perfetto, rampollo della stirpe regale della città più illustre in Grecia e salito al trono sia per diritto familiare sia per meriti personali, passa attraverso la rassegna delle sue glorie militari e l’elencazione delle virtù morali. Nella conclusione, Senofonte suggerisce che l’opera è da considerare non come un discorso funebre o commemorativo, ma come un encomio in prosa.
L’incontro con Socrate ebbe un ruolo importante nella formazione giovanile di Senofonte, che in alcuni scritti ne ha lasciato un’immagine riconosciuta dalla critica come interessante da un punto di vista letterario ma non per l’attendibilità documentaria. I Memorabili («Ricordi») raccolgono episodi e dialoghi che vedono come protagonista Socrate. Alcuni dialoghi appaiono del tutto inverosimili e non mancano indizi che talora l’autore abbia attribuito a Socrate esperienze non sue. Lo storico non ha l’abilità platonica di restituire l’atmosfera del dialogo: si tratta per lo più di brevi discussioni fra Socrate e un altro interlocutore su una questione circoscritta, da cui scaturisce un’immagine del filosofo piena di buon senso, saggezza pratica, temperanza e non molto interessata alla natura astratta della giustizia o del vero. Nell’Economico Socrate conversa con Critobulo sull’arte dell’amministrazione della casa e riferisce un suo dialogo con Iscomaco, relativo alla funzione domestica della donna: l’opera attesta l’interesse per i fatti economico-sociali e si segnala per la ricchezza di informazioni su costumi e pratiche della società ateniese che altrimenti conosceremmo poco. Il Simposio ha per cornice un banchetto offerto dal ricco Callia, cui prendono parte vari personaggi storici, e ci vuole mostrare Socrate in un momento di rilassatezza in un clima di festa. L’Apologia di Socrate riporta l’autodifesa pronunciata dal filosofo in tribunale, ma con una caratterizzazione moralistica del personaggio che induce a dubitare della fedeltà della testimonianza senofontea.
Un gruppetto di opuscoli monografici tratta vari argomenti di natura tecnica. Nell’Ippàrchico («Il comandante di cavalleria») Senofonte fornisce indicazioni per l’esercizio della funzione di ipparco. Il sentimento religioso si fonde con l’amore per la patria: l’ipparco deve tenere alla protezione degli dèi per assicurare la salvezza della propria città e un modo per farlo è preoccuparsi della bellezza delle cavalcate di parata durante le feste religiose. Un altro tratto saliente è lo spiccato senso dell’ordine e della disciplina, che deve governare ogni aspetto della vita equestre. L’opuscolo L’equitazione è rivolto non a professionisti ma ad amatori e costituisce un prezioso documento storico: Senofonte fornisce eccellenti consigli pratici per la scelta, il mantenimento e l’addestramento del cavallo, anche attraverso la ricerca di una simbiosi stretta fra l’animale e il suo cavaliere. Il Cinegètico («L’arte della caccia con i cani») descrive diversi tipi di cani elencandone difetti e qualità, fornisce istruzioni su come addestrarli e sul modo di condurre le battute venatorie nelle diverse circostanze: l’intento complessivo è quello di comunicare il significato pedagogico di questa attività come mezzo per acquisire virtù umane, civiche, militari, secondo un’idea tradizionale e aristocratica dell’educazione, in polemica con la pervasiva cultura sofistica contemporanea. La Costituzione degli Spartani si pone nel solco delle politèiai di carattere storico e istituzionale e difende istituzioni e usanze spartane, ispirate a un’idea tradizionalista, austera e militarizzata della società. Le entrate è il più antico scritto pervenuto di economia politica e ha per tema le entrate finanziarie dello Stato ateniese: Senofonte spiega come potrebbero essere portate in buona salute senza vessare le città alleate con i tributi, sfruttando al meglio le risorse minerarie dello Stato. Ierone è un dialogo in cui si immagina che il poeta Simonide discuta con il tiranno Ierone I di Siracusa sulla natura e sulla vita del tiranno e su inconvenienti e vantaggi della tirannide. L’opera si inserisce in una antica tradizione novellistica relativa ai rapporti tra i due personaggi e appartiene peraltro a quel genere di opere intese a suggerire condotte ai governanti, delineando una figura ideale di sovrano illuminato.
Accenniamo qui alla Costituzione degli Ateniesi, un breve trattato trasmesso fra le opere di Senofonte, cui però non può essere attribuito per motivi di stile e di contenuto. Sono stati vani finora i tentativi di individuazione dell’autore, la cui posizione politica è rigorosamente oligarchica (per questo lo si designa come “Vecchio Oligarca”). Si tratta di un pamphlet politico, dedicato all’analisi dei meccanismi della democrazia ateniese, le cui strutture non vengono descritte ma presupposte. L’idea di fondo è che il popolo non è capace di governare nel modo migliore, ma soltanto nel modo migliore per sé.
La varietà e l’eclettismo ci appaiono dunque come le caratteristiche più tipiche e interessanti della personalità e dell’opera di Senofonte. Esse si riflettono nella sua espressione letteraria, dove riscontriamo differenze sensibili dal punto di vista dello stile e della lingua. Non possiamo parlare di una grande cura formale, che forse mancò a Senofonte anche perché la lunga lontananza da Atene dovette attenuare in lui la percezione della differenza fra vocaboli d’uso ed espressioni poetiche. Le Elleniche e i Memorabili si distinguono per una dizione più attica di quella della Ciropedia e dell’Anabasi, alle quali da questo punto di vista le opere minori appaiono più vicine. In Senofonte, in effetti, è stato visto il primo rappresentante di una koinè letteraria, cioè di una lingua che, partendo da una base attica, si evolve recependo caratteristiche di dialetti diversi e diventando una sorta di lingua «comune» della grecità colta: è anche questo un aspetto, ora di tipo formale, che anticipa sviluppi futuri, come il greco letterario di età ellenistica.