Qualunque cosa io guardi – gli occhi dei miei figli, le foto sparse per casa, i mille schizzi accumulati nel corso della nostra vita –, me lo ritrovo davanti, sorridente e sicuro. Anche adesso che non c’è più, abita i miei pensieri e ispira i miei progetti. La mia storia – personale, professionale e soprattutto familiare – ruota intorno al mio incontro con Carlo. Da quel momento è stato tutto un lungo, lunghissimo inizio, che abbiamo vissuto insieme senza lasciarci mai.
Era una sera di settembre 1951. A Colle Oppio, in un bel ristorante all’aperto affacciato sul Colosseo, si teneva l’ennesimo concorso di bellezza. Miss Lazio o Miss Roma, non ricordo. Soffiava un ponentino leggero, l’aria era dolce e profumava ancora d’estate. Ormai ero una habitué di quel genere di manifestazioni, con una spiccata preferenza per i secondi posti. Ma quella sera proprio non ci pensavo. Ero lì per divertirmi, per distrarmi, per ballare, cosa che mi riusciva bene. Stavo con un’amica napoletana un po’ più grande di me, anche lei salita a Roma in cerca di fortuna, e due giovanotti che ci accompagnavano. All’epoca, le brave ragazze non uscivano da sole.
L’ultimo premio cui avevo partecipato, l’anno prima, era stato Miss Italia. Ci ero arrivata dopo Miss Cervia dove, pur non vincendo, ero stata selezionata per il grande concorso nazionale. Armate di pazienza, io e mammina ci eravamo dunque dirette verso il Nord, per cercare quella vittoria che la sorte sembrava negarmi. Era importante farsi vedere, incontrare le persone dell’ambiente, attirare l’attenzione dei fotografi, un lavoraccio dal quale non ci si poteva esimere se si voleva arrivare da qualche parte. E io ero lì per vincere la mia battaglia, per riscattare me stessa e la mia famiglia, per regalare a Romilda il sogno che non aveva potuto vivere in prima persona.
Di quella lontana serata a Salsomaggiore ricordo la piscina, intorno alla quale dovevamo sfilare in costume da bagno. Mi batteva il cuore, eravamo sulla bocca di mezza Italia, non come al concorso della Regina del mare che, nonostante tutto, restava un evento di provincia. Era passato soltanto un anno, ma a me sembrava una vita intera.
Con noi c’erano come madrine Gina Lollobrigida e Gianna Maria Canale, vincitrici nel 1947 dietro a Lucia Bosè, che a lungo sarebbe stata il mio modello. Mi tagliavo i capelli corti per essere come lei, e in effetti un po’ le assomigliavo. Anche la sua era stata una bella favola che, da commessa della famosa pasticceria Galli di Milano, l’aveva portata a recitare con i più grandi registi dell’epoca. Una favola in cui tutte le ragazze della nostra generazione volevano credere, che parlava di rinascita, di gloria, di felicità.
Il momento clou sarebbe stato la serata di gala, in cui avremmo dovuto sfilare davanti al pubblico pagante. Ed ecco riaffacciarsi il solito dramma del vestito: “E mo’ cosa mi metto?”. Mi venne in aiuto il patron, Dino Villani, che forse si commosse di fronte alla mia inesperienza e alla mia mancanza di mezzi e mi affidò a una sua amica, che possedeva una bellissima boutique. Era una signora deliziosa, abituata a trattare con gran dame ma anche con piccole Cenerentole, non tutte destinate ad arrivare al ballo.
«Cara, provati un po’ questo, dovrebbe starti bene…» mi disse nel suo bell’accento emiliano, tendendomi un lungo abito bianco con le frange che aveva scelto con sicurezza tra tanti. Io lo guardavo con gli occhi scintillanti e non osavo nemmeno toccarlo.
«Signora, ma io…» cercai di dire mentre mi aiutava a infilarlo, quasi a forza.
«Non ti preoccupare, bambina, ti sta d’incanto. Ora devi solo pensare a stasera. Domani, quando sarà tutto finito, me lo riporti.»
La ringraziai con tutto il cuore e tornai in albergo rinfrancata.
Quel suo piccolo gesto, generoso e disinteressato, in quel momento significò tutto per me. È proprio così: ciò che facciamo o non facciamo per gli altri può avere un’importanza molto più grande di quanto pensiamo.
Il vestito mi donava, ma purtroppo non bastò. Anche questa volta la giuria, presieduta dal grande giornalista Orio Vergani, restò perplessa di fronte alla mia bellezza anomala. Non riuscivano a fidarsi del tutto dei miei spigoli – «troppo alta, troppo magra, male impostata» – ma neppure potevano far finta di non vedermi. E fu così che assegnarono la vittoria ad Anna Maria Bugliari e coniarono per me una categoria speciale, come dire un premio della critica o un fuori concorso: salii sul podio con una bella fascia che recitava «Miss Eleganza». Paradossale, se penso all’estemporanea casualità della mia mise.
Il 1950 fu il primo anno in cui la proclamazione delle vincitrici fu trasmessa in diretta alla radio. Le mie foto, scattate da Federico Patellani e Fedele Toscani, papà del celebre Oliviero e primo fotoreporter del «Corriere della Sera», fecero comunque il giro dei produttori di cinema e fotoromanzi, e forse quella menzione insolita sollevò un po’ di curiosità intorno al mio nome.
Esattamente dodici mesi dopo, mi trovavo dunque a quel tavolino di Colle Oppio, proprio sotto al palco dove sedeva la giuria. A un tratto, si avvicinò un cameriere con un bigliettino: «Perché non partecipa anche lei alla sfilata? Mi farebbe piacere».
“E questo che vuole?” pensai. “E poi chi è? Non se ne parla proprio, stasera non sono dell’umore.”
Ma gli amici insistevano: «È gente del cinema, potrebbe essere la volta buona!».
Quando l’invito tornò una seconda volta, firmato Carlo Ponti, cedetti. Manco a dirlo, arrivai seconda, eppure questa volta c’era una piccola ma fondamentale differenza: avevo calamitato lo sguardo del grande produttore.
Carlo aveva trentanove anni, ventidue più di me, ed era già un nome, nel pieno della sua folgorante carriera. Come si premurò di dirmi quando venne a presentarsi al termine del concorso, aveva scoperto grandi dive come Gina Lollobrigida, Sylva Koscina, la mia adorata Lucia Bosè.
«Facciamo una passeggiata nel parco? È un luogo incantevole, lo chiamano “il giardino delle rose”, sentirà che profumo…» Intanto mi faceva alzare, posandomi sulle spalle il mio leggero scialle di organza.
“Ci risiamo” mi dissi, preparandomi dentro di me a respingere le solite avance. In realtà, Carlo fu molto professionale e si guadagnò all’istante la mia fiducia. Mi raccontò dei film che stava facendo, mi chiese di me, sondò le mie intenzioni.
«Da dove viene, signorina? Ah, Pozzuoli? Se non sbaglio, c’è un bellissimo anfiteatro romano… Ci sono stato qualche anno fa.»
«Sta proprio davanti a casa mia, lo vediamo dalle nostre finestre» gli risposi, grata che avesse trovato un punto comune tra noi.
Da subito mi comunicò uno straordinario senso di sicurezza e di familiarità, come se ci conoscessimo da sempre. Ebbi la strana impressione che mi avesse capito, che avesse letto dietro la mia bellezza impetuosa le tracce di un carattere riservato, di un passato difficile, di una gran voglia di fare bene, con serietà e passione. Per me non era un gioco, era molto di più.
Lui lo intuì e venne al dunque.
«Ha mai fatto un provino?» mi chiese a bruciapelo quando ormai la nostra passeggiata sembrava volgere al termine.
«Veramente…»
«Lei ha un viso interessante» continuò con un’autorevolezza cui era difficile resistere. «Venga a trovarmi in ufficio. Vedremo che effetto fa sullo schermo.»
Mi diede il suo indirizzo e mi salutò, con una tale gentilezza da suonare quasi formale. Forse anche lui, abituato alle belle donne, si era lasciato un po’ intimidire da questa ragazza diversa, che voleva la luna ma portava in sé i saldi principi di un’educazione di provincia, impermeabile ai compromessi.
Carlo era nato a Magenta, una cittadina vicino a Milano di cui suo nonno era stato sindaco. Avrebbe voluto studiare architettura ma all’ultimo si era convertito a legge, anche se era sempre stato appassionato di arte e letteratura. Aveva cominciato a lavorare nel cinema un po’ per caso, occupandosi di contratti. Nel 1940, ancora giovanissimo, aveva fondato a Milano la casa di produzione ATA, Artisti Tecnici Associati, sfidando il monopolio romano. Il suo primo film importante era stato, nel 1941, Piccolo mondo antico, diretto da Mario Soldati, che aveva lanciato la baronessa von Altenburger, in arte Alida Valli, e gli aveva procurato la condanna a una breve detenzione per sospetto antifascismo.
Dopo la guerra si era sposato con l’avvocato Giuliana Fiastri, figlia di un generale, da cui avrebbe avuto Guendalina e Alex, e poi si era trasferito a Roma per lavorare con Riccardo Gualino, fondatore della mitica casa di produzione Lux. Carlo però, pur nutrendo per lui rispetto e ammirazione, era troppo intraprendente per restare a bottega e, nel 1949, con Dino De Laurentiis, cresciuto anche lui all’ombra della Lux, aveva dato vita a una sua casa di produzione, che vantava in scuderia nomi come De Sica e Lattuada, Zampa e Rossellini, Blasetti, Camerini, Visconti. Chissà se allora me ne rendevo conto? Difficile dirlo.
Quel che è certo è che il mio istinto mi spinse ad accettare subito l’invito che avevo ricevuto da lui nel romantico giardino delle rose. Non ricordo se ci andai la mattina dopo o se lasciai passare un giorno o due. Sta di fatto che non vedevo l’ora di capire se il suo interesse nei miei confronti fosse sincero e fondato come mi era parso. Mia madre fece per accompagnarmi, come d’abitudine, ma quella volta la fermai.
«Mammina, è meglio se vado sola.»
Lei mi guardò tra l’offeso e il preoccupato e provò a insistere. Ma io avevo deciso, e nulla mi avrebbe fatto cambiare idea.
Mi presentai, tutta trafelata, all’indirizzo che Ponti mi aveva dato e mi trovai di fronte a un comando dei carabinieri. Mi caddero le braccia: l’istintiva diffidenza, che forse mi aveva instillato proprio mammina, mi fece subito pensare a un brutto scherzo. “Ecco qua, mi ha preso in giro. Quello fa il produttore come io la ballerina!” Sentivo montare la rabbia mista a un senso amaro di umiliazione. “Come ho potuto credergli! Stupida stupida stupida!” Il pensiero corse subito a mio padre, e ai mezzucci con cui aveva attirato Romilda nelle sue spire.
Grazie al cielo, però, non sempre le storie devono ripetersi uguali, e la mia era tutta ancora da scrivere. Ci pensò il giovane carabiniere di leva a rassicurarmi. «Se cerca la casa di produzione Ponti-De Laurentiis, è il portone a fianco.» Mi sentii sciocca e infantile, ringraziai con un grande sorriso e mi apprestai a entrare nel cuore del cinema italiano. Di lì a qualche giorno avrei compiuto diciassette anni.
Dopo circa mezz’ora fui ricevuta da Carlo. Non avevo mai visto uno studio così imponente, così lussuoso. Ricordo ancora il mio stupore davanti al gran numero di telefoni schierati sulla scrivania. «Servono per le diverse linee intercontinentali» mi anticipò con il suo irresistibile sorriso. Parlai poco perché non sapevo cosa dire, ma mi sentivo stranamente a mio agio, come se fossi sempre stata lì. La sua esperienza e la mia freschezza si incontrarono da qualche parte a metà strada, e cominciarono a fare conoscenza.
Dietro alla scrivania, Carlo aveva un baule, ereditato da un film appena girato con la Lollo, forse Cuori senza frontiere. Lo aprì e tirò fuori un abito bellissimo, rosa scuro, fumé. «Forse le può servire per qualche foto» mi disse con garbo.
«Può darsi, non so…» risposi timida, ma alla fine lo accettai senza neppure provarlo. Del resto, anche volendo non avrei saputo dove farlo, solo il pensiero mi faceva arrossire.
Approfittando di un set già montato, Ponti mi condusse nel teatro di posa accanto all’ufficio e mi sottopose subito a un provino. Non fu facile né divertente, e soprattutto venne malissimo.
«Si infili questo» mi disse il tecnico tendendomi un costume da bagno, con modi così bruschi che mi lasciarono senza fiato. E pensare che ero lì con il produttore. “Chissà come mi tratterebbero se fossi qui da sola” mi chiesi con orrore. Mi cambiai dietro il paravento e tornai davanti a loro. Mi sentivo nuda, e la mia timidezza bruciava come una ferita. Indifferenti, i cameramen mi allungarono una sigaretta, ordinandomi di accenderla e poi di camminare avanti e indietro, guardando l’obiettivo. Non avevo mai fumato, né mi ero mai trovata da sola davanti a una macchina da presa. Mi sembrava di essere del tutto inadeguata, e l’operatore pareva d’accordo con me.
«Dotto’, è impossibile da fotografare. Ha un viso troppo corto, una bocca troppo larga, un naso troppo lungo!» Come sempre, apparivo di nuovo “troppo”. Eppure ero così, che colpa ne avevo?
A questo primo tentativo ne seguirono altri, ugualmente disastrosi. Cercavo di non lasciarmi scoraggiare, ma le mie speranze si stavano spegnendo. Anche perché i cameramen non mi usavano alcuna cortesia, forse non si rendevano conto che ero solo una ragazzina e che con le loro parole avrebbero potuto distruggermi. Finalmente, accorse in mio aiuto un truccatore un po’ più sensibile, o, chissà, solo un po’ più anziano. Forse vide in me una figlia, o una sorella minore, e provò un barlume di compassione.
«Signori’, questi dicono solo fesserie. Basterebbe cambiare le luci… che l’ombra del suo naso si accorcia!»
Queste sue parole così spontanee, così vere, mi aiutarono a reagire. E quando, tempo dopo, Carlo provò a suggerirmi che forse un ritocco avrebbe potuto giovarmi, non gli permisi neppure di finire la frase.
«Sofia, che ne diresti di… come dire… di addolcire un po’ quel tuo profilo così… così importante…»
«Carlo, se mi stai dicendo che per fare il cinema mi devo tagliare il naso, io me ne ritorno a Pozzuoli, perché io il mio naso non me lo voglio proprio tagliare.»
«Ma no, Sofia, che dici…»
«Guarda che ho capito, sai? Non sono mica stupida. Non se ne parla proprio, punto e basta! Se cambi il naso, cambi tutto, e io non voglio cambiare.»
Non lo volevo, il nasino alla francese. Ero consapevole del fatto che la mia bellezza fosse il risultato di tante irregolarità mescolate in un’unica faccia, la mia. Avrei vinto o perso ma, in ogni caso, nella versione originale.
Ero veramente giovane, avevo davanti un uomo potente, molto più grande ed esperto di me, cui cominciavo ad affezionarmi e che teneva in mano il filo del mio destino… Dove trovai il coraggio di restare ferma sulle mie posizioni? Forse era l’audacia della giovinezza, o forse una vocina dentro di me che mi diceva di perseverare, senza cedere su ciò che sentivo davvero importante. Credo che anche Carlo sia rimasto colpito dalla mia sicurezza, seppur venata di timidezza e fragilità. Ha sempre detto che in me aveva visto l’artista, prima ancora che l’attrice, e che mi brillava dentro qualcosa. Non so bene cosa intendesse, ma mi pare un complimento, e come tale me lo tengo stretto.
In quel periodo non mi risparmiai; saltavo da un set all’altro, da un fotoromanzo all’altro. Cercavo la mia strada, anche se non era affatto facile. Nella prima metà dell’anno avevo già partecipato, come generica, a Milano miliardaria e a Era lui… Sì! Sì!, dove ero stata costretta a recitare qualche scena a seno nudo per il mercato francese. Nell’uno facevo la commessa del bar, nell’altro la doppia parte di modella di abiti da sposa e di odalisca. Entrambi i film erano diretti da Vittorio Metz e Marcello Marchesi e, pur non essendo niente di speciale, mi avevano permesso di osservare al lavoro attori come Isa Barzizza, Tino Scotti, Walter Chiari. “È tutta esperienza!” mi dicevo, con quella saggezza che mi rendeva una ragazza in qualche modo già vecchia.
In Anna, di Alberto Lattuada, con Silvana Mangano e Vittorio Gassman, arrivai perfino a pronunciare un paio di battute. Lattuada, che avevo già conosciuto un anno prima sul set di Luci del varietà, in cui avevo fatto una piccolissima parte, mi guardava con una certa attenzione e fin dall’inizio mi confortò, assicurandomi che avrei fatto strada. Sembra poco, ma per una giovane esordiente come me un incoraggiamento del genere bastava per tirare avanti dei mesi.
Fu in Anna e poi in È arrivato l’accordatore che venni accreditata per le prime volte come Sofia Lazzaro. Guadagnavo cinquantamila lire al giorno, una vera fortuna rispetto a quello a cui eravamo abituate.
Uno dei primi ruoli da generica lo recitai l’anno dopo, nella primavera 1952, in La tratta delle bianche di Comencini, con Silvana Pampanini ed Eleonora Rossi Drago, entrambe uscite da Miss Italia, e protagonista maschile Marc Lawrence. Poche ore di lavoro in esterni, vicino a Genova, mi permisero di comparire sulla copertina di presentazione del film negli Stati Uniti, che diceva: «Beware! Girls marked Danger!». Eravamo le giovani bellezze italiane, pronte a conquistare il mondo.
Il vero esordio da protagonista avvenne nella primavera 1952 con La favorita, la versione cinematografica dell’opera di Donizetti diretta da Cesare Barlacchi. Ho sempre amato la musica, l’avevo respirata in casa fin da piccola, e mi trovavo a mio agio su un set così melodrammatico. Lavorai intensamente per imparare la parte, e ricevetti molti complimenti. Oserei dire che fui quasi presa sul serio, anche se il film non fece una lira. Per le arie, venivo doppiata da Palmira Vitali Marini: un ottimo allenamento, o forse addirittura un passepartout, per l’Aida, in cui di lì a poco avrei dovuto confrontarmi nientemeno che con la voce di Renata Tebaldi. In seguito avrei avuto l’onore di incontrare la grande cantante un paio di volte, benché fosse sempre impegnata in giro per il mondo. Era una persona meravigliosa, e dare il mio volto alla sua voce fu per me fonte di profondo orgoglio.
I tempi della sopravvivenza sembravano finalmente passati. Con i miei primi guadagni, accumulati sotto al materasso, ci trasferimmo – mammina, Maria e io – in una piccola camera ammobiliata, prima in via Cosenza e poi in via Severano, vicino a piazza Bologna. Stavamo strette ma eravamo felici di essere insieme.
Maria, che era arrivata con mammina da Pozzuoli, era un po’ in difficoltà, e la grande città non l’aiutava. Era una ragazzina fragile, che era stata molto malata e aveva patito la nostra partenza da casa, nonostante fosse rimasta tra le braccia accoglienti e affettuose di mamma Luisa. Il vero problema è che papà non l’aveva mai riconosciuta: per questo motivo si vergognava di andare a scuola, dove avrebbe dovuto dichiarare la sua condizione. Così, mentre io e mammina stavamo fuori tutto il giorno per lavorare o cercare nuovi ingaggi, Maria, ancora bambina, se ne stava chiusa in casa da sola. Ancora oggi penso con dolore a quanto deve aver sofferto, a quanto deve essersi sentita abbandonata, trasparente. Allora, purtroppo, non avevamo alternative, anche se dentro di me sapevo che era una questione da risolvere al più presto, e mi dicevo che l’avrei fatto io appena possibile. Purtroppo, però, papà continuava a sorprenderci, e non più soltanto per la sua assenza.
Una mattina presto sentimmo bussare alla porta. Stupite per l’orario, andammo ad aprire e ci trovammo davanti la polizia.
«Villani Romilda? Scicolone Sofia? Venite con noi.»
«Perché? Che abbiamo fatto? Ma come! Come vi permettete?»
Non ci diedero neanche il tempo di vestirci, né si presero la briga di rispondere alle nostre domande. Fummo trascinate al commissariato, dove ci fu chiesto di giustificare i proventi con cui vivevamo. Qualcuno ci aveva denunciato, avanzando il dubbio che avessimo trasformato il nostro appartamento in una casa di appuntamenti, infrangendo la legge oltre che la morale.
«Una denuncia? Una casa di appuntamenti?» chiese mammina. «Noi? Chi è stato? Chi, chi può odiarci tanto da infangare così il nostro nome?»
A quel punto, perfino i poliziotti erano in imbarazzo. Avevano capito di essere stati tirati in mezzo a questioni famigliari che nulla avevano a che fare con la giustizia. Quel qualcuno, infatti, era nientemeno che Riccardo Scicolone, padre dell’una, mancato marito dell’altra. Non credo ci siano parole per raccontare l’uragano di emozioni che ci travolse. Sorpresa, avvilimento, rabbia, vergogna vorticavano dentro di noi. Re-cu-perando il sangue freddo, riuscimmo a provare con facilità l’origine dei miei guadagni e tornammo subito a casa. Ma la ferita che ci aveva inferto mio padre era profonda e, almeno per quel che mi riguarda, non si sarebbe mai potuta rimarginare.
Nella stanza di via Severano mammina cucinava spesso in bagno, con un fornelletto, anche se la padrona di casa ce l’aveva vietato. Aspettavamo che avesse finito di mangiare e magari che andasse a fare la pennichella per preparare un sugo veloce, sperando che non le arrivasse il profumo.
È un’abitudine che ho sempre mantenuto, anche quando, da attrice ormai affermata, le mie sorti mi hanno portato all’estero, in piccole o grandi camere d’albergo. Ancora oggi, se sono via e mi prende la nostalgia di casa o sono troppo stanca per uscire, mi affido al mio fornelletto. Che ci vuole a fare un po’ di pasta?
Dalla stanza passammo a un piccolo appartamento, sempre in via Severano, e cominciammo a vivere come una vera famiglia. Finalmente avevo preso le redini della mia, della nostra vita. Mia madre mi accompagnava ovunque, con il suo entusiasmo perennemente velato da un’ombra di pessimismo. Maria, invece, non aveva ancora spiccato il volo, ma a breve sarebbe giunto anche il suo momento. Comunque, pur recitando il ruolo di capofamiglia, restavo soggetta alle regole di casa Villani. Quando facevo tardi, dovevo rientrare in punta di piedi per non prendermi le sgridate di mia madre: faceva di tutto per evitare che commettessi i suoi stessi errori.
«Ti sembra l’ora di rincasare? E poi con chi eri? Ti pare il caso? Tu e lui soli? Chi ti credi di essere? Sofia, Sofia, non hai imparato proprio niente dalla nostra storia?»
Ormai, quando uscivo, era con Carlo. È vero, lui aveva una moglie e bisognava stare attenti, anche se tra noi non c’era ancora nulla e solo più tardi il nostro affetto sarebbe sbocciato in una storia d’amore. Allora, però, sarebbe stato troppo tardi per tornare indietro. Per il momento mi accontentavo della fortuna di avere finalmente accanto una persona che mi sapeva parlare, mi consigliava, mi sosteneva nella scelta delle parti, cosa fondamentale per qualunque attore agli esordi. Cercavo di guadagnare terreno evitando passi falsi, e sapere Carlo al mio fianco era un grande aiuto. Per certi versi, la sua presenza aveva quel sapore paterno che mi era sempre mancato. Era come un’àncora, una radice che ti tiene legata alla terra, mentre tutto il resto si muove inquietante, eccitante, vorticoso.
Quell’uomo stava entrando nella mia vita piano piano, senza che me ne accorgessi. O forse me ne accorgevo e stentavo ad ammetterlo. Aveva tanto da insegnarmi, e io non desideravo altro che imparare.
Nel 1950 avevo tentato invano di entrare al Centro sperimentale di cinematografia, ma mi avevano detto che non ero adatta. L’ambiente mi piaceva, c’erano dei bei giardini e una grande vetrata, me lo ricordo bene. Era una scuola seria, forse troppo per me. Il mio posto ormai era sul campo, sul set. Lì, fin da quando ero solo una comparsa, osservavo tutto cercando di assorbire il più possibile e scartando ciò che non mi serviva. Lì mi spendevo giorno dopo giorno, accumulando incontri ed esperienze. Ma fu Carlo ad aiutarmi a perdere l’accento napoletano e ad affinare la dizione. Mi invitava a leggere ad alta voce dei buoni libri, registrandomi per farmi risentire gli errori; mi insegnava a rispondere alle interviste e perfino a vestirmi.
Un giorno, non ricordo quale fosse l’occasione, si presentò con un grande pacco, la cui raffinatezza portava la griffe di una delle più rinomate boutique della città. Lo aprii tremante, felice delle sue attenzioni. Dentro c’era un bellissimo tailleur di shantung bianco.
«Grazie…» mormorai commossa.
«Dovresti vestirti sempre in tailleur» ribatté lui «… e sempre di bianco.» Facevo finta di credergli, ma sapevo che non era vero. All’epoca, potevo vestirmi come volevo: tutto mi stava bene.
Una delle prime sere insieme andammo a cena fuori. Non ero abituata a mangiare al ristorante, e con la mia solita saggezza pensai che avrei dovuto comandare qualcosa di moscio, che non mi mettesse troppo in imbarazzo con le posate. Così, ordinai una frittata. Ma proprio quando stavo per tagliarne la prima fettina con il coltello, fui fulminata dallo sguardo di Carlo che mi sussurrò, scandalizzato: «No, il coltello no, non serve». Da quel giorno, non ordinai più neppure la frittata, tanto mi vergognavo…
Era tutta una prova, una sfida continua. La mia vita mi sembrava un campo minato mentre lentamente, di lancio in lancio, di film in film, di cena in cena, mi avvicinavo a quella che avevo sempre sognato di essere.
Forse fu Carlo che chiamò Goffredo Lombardo, o forse fu lui a notarmi. Sta di fatto che, quando il produttore napoletano mi convocò nell’estate 1952 per offrirmi la parte da protagonista in Africa sotto i mari, diretto da Giovanni Roccardi, ero di nuovo pronta a rispondere sì, esattamente come avevo fatto con Mervyn LeRoy. Questa volta, però, la posta in gioco era un po’ più alta e i rischi molto, molto maggiori.
Il film racconta la storia di un ricco industriale che ospita a bordo del suo yacht una spedizione scientifica nel Mar Rosso. Ne approfitta per imbarcare anche la figlia, annoiata, viziata e ribelle, che finisce per appassionarsi al nuoto subacqueo, oltre che al capitano… Il punto è che gran parte della vicenda si svolge in acqua, se non addirittura sotto.
«Signorina, lei è di vicino Napoli; sa nuotare, vero?» mi chiese Lombardo.
«Ma certo, dottore» mentii io, senza rendermi conto del guaio in cui mi stavo cacciando. «Come un pesce!»
Non ero né la prima né l’ultima napoletana a non saper nuotare, ma sicuramente ero l’unica che aveva firmato un contratto per recitare in alto mare.
A proposito di acqua, Lombardo era stato il responsabile del mio battesimo artistico. “Lazzaro” non gli piaceva, e tanto meno “Scicolone”. Gli serviva un cognome corto, facile da pronunciare, che avesse una certa qual allure. Fu così che, fissando un manifesto appeso alle sue spalle in cui campeggiava la bella attrice svedese Märta Torén, fece un giro dell’alfabeto fino a fermarsi alla “elle”: «Soren, Toren, Loren… Sì, ci siamo: Sofia Loren!». Già che mi stava ribattezzando, sostituì la “effe” di Sofia con il “ph”, et voilà, un nome da star internazionale. Peccato che a Pozzuoli mi avrebbero chiamato per sempre “Sopìa”, non capendo il perché di questo inutile cambiamento.
Il dramma di Africa sotto i mari esplose al largo delle coste di Ponza. Io in piedi sul bordo di un grande motoscafo, le cineprese pronte a girare, il regista che urla nel megafono: «Si tuffi!».
Non attesi di avere paura, feci finta di essere capace e mi buttai.
Una volta in mare fui subito afferrata dalle braccia forti del tecnico responsabile delle riprese in acqua, l’uomo che in pochi giorni mi avrebbe insegnato tutto sul nuoto. Intanto, però, il mio salvatore era veramente arrabbiato. Mi avevano fatto tuffare a pochi metri dalle eliche, prendendosi un bel rischio e mettendomi davvero in pericolo. Viva per miracolo, cominciai ad addomesticare bombole e boccagli, pinne, mute e pesi. Alla fine del film ero diventata un pesce davvero, e avevo superato l’ennesima paura.
La mia prima grande occasione – ma ogni occasione è grande, soprattutto all’inizio – arrivò sulle ali della musica celestiale di Verdi. Mentre lavoravamo a un film insieme (mi pare fosse Il voto), la bravissima attrice Doris Duranti mi disse che in uno dei più famosi studi cinematografici di Roma, la Scalera, Clemente Fracassi stava cominciando a girare l’Aida. «Prova un po’ a sentire» mi consigliò. Io avevo dalla mia La favorita, in cui mi ero dimostrata piuttosto abile come controfigura lirica. I produttori avevano chiamato dall’America un’attrice di colore, ma non ne sembravano convinti. Fu così che ottenni il ruolo, forse anche grazie all’intervento di Renzo Rossellini, fratello di Roberto, che faceva il consulente musicale del film. Non restava molto tempo per imparare la parte, tanto più che doveva essere perfettamente sincronizzata con quella della cantante: mi rinchiusi per due mesi nell’ufficetto degli studi di produzione, al gelo di un inverno senza riscaldamento. Faceva talmente freddo che, prima di girare, mi davano da mangiare del ghiaccio, per ammortizzare l’effetto nuvoletta provocato dal fiato. Per ovviare del tutto al problema e cercare di nasconderne le tracce, uno dei tecnici mi inseguiva addirittura con un phon!
Ogni giorno passavo quattro lunghe ore al trucco per trasformarmi in Aida, nera dalla testa ai piedi. Ricordo perfino il cerone più scuro alla base dei capelli e sulla fronte, che serviva a camuffare il tulle della parrucca. Ma devo ammettere che ne valse la pena. Dare corpo alla voce della Tebaldi fu un’emozione speciale, difficilmente ripetibile. Alla fine, sembravamo una persona sola. In più, va detto che ero tra i pochi attori della troupe a recitare invece che a cantare, e ciò rendeva ancora più difficile il mio compito. Non si doveva capire che c’era un disco a guidare i movimenti delle mie labbra. Persino Carlo si stupì. Forse fu quello il momento in cui cominciò davvero a credere in me.
Anch’io cominciai a crederci e, con i soldi guadagnati – un milione di lire –, mammina, Maria e io ci trasferimmo in un appartamento più grande in via Balzani e io potei finalmente riscattare l’onore di mia sorella. Mio padre, se mai per un attimo c’era stato, era definitivamente sparito dalla mia vita, non cercavo più di amarlo. Proprio per questo non mi fu difficile girargli il cachet di Aida ottenendone in cambio un cognome: per me un guscio vuoto, per mia sorella la salvezza. Maria Villani divenne Maria Scicolone e poté finalmente voltare pagina, tornare a scuola, incominciare a vivere.
Inutile forse soffermarsi sul seguito della triste vicenda. Io, comunque, ero salva. Con i miei mezzi, come potevo, avevo ripercorso la nostra storia famigliare, per capire ciò che da bambina mi appariva troppo grande da affrontare. Ed ero arrivata alle mie conclusioni. Non tutti gli uomini erano come Riccardo Scicolone, non tutte le vicende dovevano per forza ripetersi. Al mio fianco volevo una persona diversa, che potesse rendermi davvero felice. Ancora non lo sapevo con certezza, ma la vita presto mi avrebbe dimostrato che io, il mio uomo ideale, l’avevo già incontrato.