«Dummi’, o’ bello d’’e figlie l’avimmo perduto… Figlie so’ chille che se teneno ’mbraccio quanno so’ piccirille, ca te danno preoccupazione quanno stanno malate e nun te sanno dicere che se sènteno… ca te corrono incontro cu’ ’e braccelle aperte dicenno: “Papà”…»
Le parole di Filumena Marturano mi risuonano nelle orecchie come una musica dolce e piena di verità mentre con le dita cerco di stendere una pagina di «Oggi» tutta spiegazzata, datata 23 aprile 1964, che annuncia l’inizio delle riprese. Dalla commedia di Eduardo De Filippo, scritta per la sorella Titina, Carlo e De Sica avevano deciso di fare un film. Certo non potevo sapere che di lì a quattro anni sarei diventata la mamma reale di Carlo jr. Intanto, mi ritrovavo di nuovo mamma sul set, ancora insieme a Marcello.
Era da tempo che Carlo ci pensava, finché un giorno non si era deciso e me l’aveva buttata lì, con studiata nonchalance: «Sophia, ti ci vedresti come Filumena?».
Avevo chiuso gli occhi, davanti a me si era aperto il sipario, e poi le luci e il velluto rosso di un’immensa platea…
«Filumena? Filumena Marturano?»
Carlo aveva intuito la mia resistenza e mi aveva guardato con un sorriso.
E io, con un sorriso, gli avevo risposto: «Pensi che potrei farlo? Mi piacerebbe tanto…».
Era bastato questo semplice scambio di battute per inaugurare una delle nostre avventure più felici.
Matrimonio all’italiana – il titolo scelto per la storia di Filumena faceva l’occhiolino a Divorzio all’italiana di Pietro Germi, del 1961 – fu uno dei miei film più importanti. Mi offrì un bellissimo ruolo, a tutto tondo, che abbracciava venticinque anni di vita napoletana sofferti a uno a uno da una donna intelligente e appassionata, tesa a lottare con ogni mezzo per la sua dignità e per quella dei suoi bambini. Insomma, un ruolo in cui qualunque attrice italiana avrebbe voluto cimentarsi.
Nella commedia, Filumena è una donna di mezza età, sfibrata ma non sconfitta dalla vita. Nata nei bassi, in vico San Liborio, finisce come molte sue coetanee in una casa chiusa, dove la trova don Dummì, scapolo impenitente e benestante, appartenente a tutt’altra classe sociale. I due si amano, lei si illude, ma Dummì a sposarla non ci pensa proprio. Ne fa la sua mantenuta, le dà in gestione la sua pasticceria, che lei governa con l’efficiente piglio da padrona, la porta in casa relegandola nella stanza della serva, la tradisce tutta la vita. Lei nel frattempo mette al mondo tre figli, che tiene nascosti, allevandoli e facendoli studiare con i soldi di lui. Ma ora è stanca, i figli sono cresciuti e lei è determinata a garantire loro un futuro, un padre, un cognome. Come darle torto? Mia sorella Maria e io ne sapevamo qualcosa.
L’opera inizia proprio qui, con uno splendido sotterfugio. Filumena si finge in punto di morte per farsi sposare, ma non si arrende neppure quando viene smascherata. Nulla ormai la ferma più. Ha deciso di scoprire le carte, di giocare la sua partita fino in fondo. «Dummi’, uno di chisti figli è tuo, ma non ti dico quale. O tutti o nessuno.»
Il personaggio di Filumena, alla fine degli anni Quaranta, era diventato talmente caro al suo pubblico da vivere di vita propria. Una sera, racconta Luigi De Filippo, il figlio di Peppino, nel camerino del teatro romano Eliseo un gruppo di signore era entrato per salutare Titina. Approfittando dell’occasione, le avevano chiesto di svelare il mistero della paternità dei tre ragazzi Marturano.
«Brava, brava, Titina, lei è davvero incantevole. Ma ci dica: quale dei tre ragazzi è il figlio di don Dummì? Siamo divorate dalla curiosità…»
Titina, stando al gioco, da grande attrice qual era, aveva risposto: «Mie care, carissime signore, io lo so, ma non ve lo posso proprio dire: mio fratello Eduardo ne farebbe una tragedia!».
Le persone di solito le capisco al primo sguardo, e lo stesso mi succede con i personaggi: mi piacciono o non mi piacciono, li sento o non li sento. Filumena mi apparteneva come l’accento di Pozzuoli, come via Solfatara. Forse perché lei ha sempre seguito la sua legge, «non quella che fa chiagnere, ma quella che fa ridere».
Di fronte al mio timido sì, Carlo non aveva perso tempo, aveva sondato la disponibilità di Mastroianni e affidato a Renato Castellani, Tonino Guerra, Leonardo Benvenuti e Pietro De Bernardi la sceneggiatura. Ma era stato come al solito De Sica a risolvere i miei ultimi dubbi e le mie esitazioni trovando il taglio giusto per me.
La commedia da cui è tratto il film era stata scritta da Eduardo nel 1946, aveva trionfato con la sorella a teatro ed era già stata adattata per il cinema nel 1951 dagli stessi De Filippo. Se dicevi «Filumena», chiunque a quei tempi pensava subito a Titina, e poi ad altre grandi interpreti come Regina Bianchi e Pupella Maggio… Il meglio del meglio.
Da parte sua, De Filippo era contento di passare il testimone a De Sica, si fidava del suo spirito profondamente napoletano, della sua sensibilità. Sembrava anche curioso di vedere come avrei interpretato il personaggio che aveva tagliato sulle misure di Titina. «Saccio ca ’a trattarraje bbuon’» mi aveva detto sorridendo un giorno, «ca nun ’a farraje manca’ niente, ca ’a darraje quaccosa d’ ’o ttuoje, e a farraje gira’ ’o munno.»
La vita a volte si diverte a tirarci dei brutti scherzi. Stavamo già lavorando al film quando, il 26 dicembre 1963, suonò il telefono nella nostra villa di Marino. Eravamo a tavola, a goderci gli avanzi del pranzo di Natale, con Basilio, mammina, Maria e la piccola Ale, in quella calda atmosfera del giorno dopo dove tutto è più morbido, la tensione è calata e ci si gusta la festa fino in fondo. Dall’altro capo del filo, la voce affranta di De Sica: «Sofi’, è morta Titina!». Il suo cuore malandato non aveva retto, portandoci via una donna dolce e fortissima, una grande attrice.
Andai con Vittorio al funerale, che era al Sacro Cuore Immacolato di Maria, in piazza Euclide. L’inverno romano era freddo, centinaia di cappotti macchiavano la piazza di scuro. Dappertutto aleggiava una sconfinata malinconia. Entrammo in chiesa con il cuore stretto e ci sedemmo vicino a Totò e a Eduardo. Peppino, il terzo fratello, non me lo ricordo, forse stava da un’altra parte. I due De Filippo avevano litigato, vent’anni prima, e da allora si evitavano come il diavolo e l’acqua santa, nonostante la sorella avesse lavorato fino all’ultimo per ricomporne il rapporto.
Anche Titina, Eduardo e Peppino, come i tre bambini segreti di Filumena, erano figli naturali, nati fuori dal matrimonio. Il loro padre era il grande Eduardo Scarpetta, indimenticabile mae-stro del teatro napoletano. La madre, Luisa De Filippo, una nipote della moglie ufficiale di lui, Rosa. Una famiglia allargata, la Scarpetta-De Filippo, che comprendeva perfino un figlio illegittimo della signora Rosa avuto dal re Vittorio Emanuele.
Scarpetta aveva vissuto con entrambe le donne al contempo, un po’ di qui, un po’ di là. Lo stesso, del resto, faceva De Sica: la moglie Giuditta Rissone con Emi da una parte, e María Mercader con Manuel e Christian dall’altra. Matrimoni all’italiana? Intanto, Carlo e io eravamo sempre fermi allo stesso punto: le nostre nozze restavano irraggiungibili come una chimera.
Non era semplice adattare una commedia per il cinema, trasformare la potenza del teatro senza annacquarla. A questo si aggiungeva il fatto che, come nella Ciociara, c’era un problema di età, perché Filumena aveva molti più anni di me. Vittorio lo sapeva e risolse il tutto a modo suo, dando il solito tocco di magia. Prese questa storia bellissima, con i suoi monologhi e i suoi dialoghi, e la ambientò per strada, tra i vicoli, sul Vesuvio. Portò Filumena ad Agnano, a vedere le corse dei cavalli, in chiesa, in piazza del Gesù, nell’elegante Pasticceria Soriano, talmente vera che quasi se ne sentiva il profumo. Colorò la vicenda di immagini, le diede movimento, la fece viaggiare nel tempo. Uscendo dal teatro, liberò Filumena dai confini della sua età matura e ne raccontò la giovinezza in lunghi flashback, che la vedono prima ragazzina, con i capelli cortissimi e il terrore delle bombe che infuriano fuori dal casino, e poi giovane bellezza napoletana, allegra ed esplosiva.
La scena preferita dai miei figli è proprio quella in cui don Dummì mi vede per la prima volta. L’allarme ha svuotato la casa chiusa, le ragazze e i clienti fuggono nei rifugi mentre io, una bestiolina spaventata, rimango nella mia stanza, mi nascondo dentro l’armadio, non ho il coraggio di uscire.
«Quanti anni tieni?» mi chiede Marcello.
«Diciassett’» gli rispondo, con gli occhi sgranati dalla giovinezza, dalla paura. Quegli occhi restano asciutti lungo tutto il film perché «non si possono versare vere lacrime se non si è conosciuto il bene».
E Filumena il bene non l’ha conosciuto mai. Solo alla fine, quando grazie alla sua forza tutto riprende il suo posto, si può abbandonare a un pianto liberatorio, pieno di umanità.
Era difficile immaginare un ruolo più vicino alle mie corde. In ogni momento ero chiamata a intrecciare allegria e malinconia, audacia e mortificazione, sciatteria e bellezza, mettendole al servizio dei sentimenti più profondi. Ero di nuovo a Napoli, nella mia città, per dare a una sua femmina, “malafemmina” solo di nome, la luce di un respiro più vasto.
Confesso che, per girare Matrimonio all’italiana, mi feci aiutare. E feci bene! L’idea mi venne all’improvviso, una sera, mentre chiacchieravo con Carlo ed Enrico Lucherini, il mio press agent, sulla terrazza dell’Hotel Excelsior a Napoli. Dal mare saliva una brezza leggera, che si portava via la stanchezza e faceva spazio a nuovi pensieri. Guardando le strade della mia città, tornai indietro di qualche anno e mi lasciai travolgere dall’odore, dall’aria di casa.
«Carlo, che ne diresti se invitassi mammina e zia Dora sul set?»
«Certo, se ti fa piacere. Ma perché, a cosa pensi?» Era un uomo di poche parole, Carlo, più interessato a capire che a dare giudizi.
«Chi meglio di mammina e zia Dora potrebbe calarsi nella psicologia di Filumena? Chi meglio di loro potrebbe mostrarmela così, vera, davanti agli occhi, con le mosse giuste, le parole…»
Non aspettai oltre e le chiamai. Ormai erano sulla cinquantina, che a quel tempo voleva dire l’inizio della terza età.
«Zietta bella, ti mando a prendere a Pozzuoli domani mattina presto.»
«Mammina, fatti trovare pronta, la macchina sarà sotto casa alle sette.»
«Che staje dicenno, si’ asciuta pazza? Domani mattina?» risposero quasi all’unisono, pur nelle due telefonate distinte. Vivevano lontane ormai da tanto e forse erano sempre state distanti, anche da bambine, covando sogni diversi. Eppure, parlavano la stessa lingua e avevano le stesse reazioni. E io sapevo che il mio invito le aveva rese felici.
La troupe le accolse come due regine.
Mammina si sentiva la persona giusta nel posto giusto e si agitava su e giù per il set come una star, felice di prestarci quel suo talento artistico che i casi della vita le avevano impedito di esprimere. Zia Dora era più spaesata ma, priva di velleità da attrice, si dimostrò ancora più preziosa. Mi prendevano da parte, quando qualcosa stonava al loro orecchio, e dicevano: «Chest’ ’o facess’ accussì, chest’ accullì». Alla fine io seguivo il copione, ma la loro spontaneità aiutò molto la mia Filumena, dandole la naturalezza di cui aveva bisogno. Fra una ripresa e l’altra, le guardavo, frolla di tenerezza. Era grazie a loro che mi trovavo lì, e ora erano le mie ospiti d’onore.
Alla ciliegina sulla torta pensò Marcello, che le corteggiò con galanteria recitando al meglio la sua parte. Loro pendevano dalle sue labbra, e se lo contendevano come fosse il gallo del pollaio.
Finalmente in un ruolo meno bonario del solito, Marcello fece del suo don Dummì un personaggio indimenticabile. Quei suoi baffetti altezzosi, i vestiti eleganti, la sua superficialità un po’ teatrale erano in perfetto contrasto con il dramma di una donna che invecchia senza essere vista. E la nostra passione sullo schermo, ancora una volta, era destinata a funzionare e a commuovere. Perché, ancora una volta, raccontava una storia vera, così piena di imperfezioni da rendere profondamente umano anche l’happy ending. Sul giorno del matrimonio, atteso da più di vent’anni, De Sica si sofferma attraverso dettagli solo apparentemente marginali: il vestito che cade male, le scarpe troppo strette – che come ogni sposa che si rispetti Filumena si toglie appena tornata a casa con un sospiro di sollievo – emozionano più di mille discorsi d’occasione.
Ci eravamo emozionati anche noi, e molto, molto divertiti! La scena iniziale, quella della finta agonia di Filumena, la dovemmo girare dieci volte. Appena sentivamo: «Azione!», Marcello e io scoppiavamo a ridere, e non riuscivamo più a smettere. Quanto si arrabbiò Vittorio, quel giorno! Era stanco, gli facevano male i piedi e gli stavamo rendendo la vita impossibile. Il clou era quando arrivava il prete per l’estrema unzione. Cercavamo di stare seri, ma bastava uno sguardo perché ricominciassimo a ridere da capo rovinando tutto. Lui si sentiva impotente davanti alla nostra ridarella. Tuonava come uno Zeus indispettito dalle marachelle di qualche dio minore: «Siete due attori, non due bambini! Non vi vergognate di prendere in giro tutti così? Che ci state a fare, qua? Basta, insomma, datevi un contegno!».
Matrimonio all’italiana fu candidato all’Oscar per il miglior film straniero, nonostante la recentissima vittoria di Ieri, oggi, domani, e mi valse la nomination come miglior attrice. Una grande soddisfazione, una conferma che quella della Ciociara non era stata una decisione presa dall’Academy sull’onda dell’emozione.
Filumena mi regalò molti altri premi importanti, dal David di Donatello alla nomination al Golden Globe, dal premio del Festival di Mosca al Bambi Award, il riconoscimento attribuito all’attrice più popolare in Germania, che avrei ricevuto dal 1961 al 1969, con la sola eccezione del 1966.
Carlo e Vittorio, Marcello e io avevamo vinto la nostra scommessa, come Filumena aveva vinto la sua conquistando il suo matrimonio all’italiana. Ma nella vita vera le cose per noi sembravano essere molto più difficili.
Un altro matrimonio molto italiano si era intanto celebrato due anni prima. Maria, la mia sorellina ormai cresciuta, aveva spiccato il volo e si era sposata con Romano Mussolini, il figlio più piccolo del Duce. Dopo un’infanzia tragica, Romano si era dedicato anima e corpo alla musica ed era diventato un talentuoso pianista jazz. Forse era stata proprio questa sua passione a conquistare Maria, che era nata con la musica dentro.
Io ero un po’ preoccupata della sua scelta, e provai a dirglielo. Eravamo – siamo – vere sorelle, e ci siamo sempre dette tutto. La confidenza tra noi è una delle certezze più belle della mia vita.
«Mari’, ma sei sicura? Sei proprio innamorata?»
«Che dici, Sofi’, io gli voglio bene. Hai sentito come suona? Hai visto che mani? Che sorriso?»
Romano viveva nel suo mondo, fatto di viaggi, di concerti, di donne. Veniva, spariva, ritornava, non sapevi mai quando né perché. Ma lei lo amava, o almeno credeva di amarlo. E non ci fu niente da fare.
Le nozze si tennero a Predappio, il 3 marzo 1962, con una folla di invitati ammassati nella chiesa che traboccava nella piazza come acqua da una bottiglia troppo piena. E poi dappertutto paparazzi, macchine fotografiche tenute sopra la testa per conquistarsi una scheggia di quello strano evento. Io non riuscii a vedere niente, nemmeno quando lo sposo, arrivando all’altare con un inquietante ritardo, perse i sensi e venne rianimato.
«Che è successo? Non viene? Eccolo! Romano, Romano… sta male? È svenuto? Sarà il caldo, la calca, l’emozione…»
Ognuno diceva la sua, a partire dal proprio angusto punto di vista. Era molto difficile, nella ressa, avere uno sguardo d’insieme.
Alla fine della cerimonia scappai via, rintronata da tutta quella confusione.
Purtroppo ci attendeva il peggio. La macchina che mi riportava a Roma rimase coinvolta in un incidente con una Vespa, che finì in tragedia. Fu uno dei momenti più terribili della mia vita. Non ci sono parole sensate che si possano dire.
Il matrimonio di Romano e Maria durò il tempo di mettere al mondo Alessandra, nel 1962, ed Elisabetta, nel 1967. Cominciava a essere una bella famiglia, e invece…
«E io cosa c’entro? Sophia, lo sai, non mi piace farmi fotografare con te sul set.»
«Jamme, Carlo, nun te lamenta’, ci tengo tanto, Tazio dice che con questa luce così profumata di vaniglia verremo benissimo!» risposi con lo sguardo malizioso, quello che sfoderavo a sorpresa quando volevo ottenere a tutti i costi qualcosa.
Di Tazio Secchiaroli, il mio inseparabile fotografo, mi fidavo ciecamente. Aveva piena libertà, sapevo che avrebbe sempre fatto la cosa giusta. Me lo aveva consigliato Marcello, era un amico suo, e con lui mi trovai subito bene. Anche Fellini lo adorava, lavoravano spesso insieme. Era stato il primo a immortalare la vita notturna di via Veneto, ispirando non solo il personaggio del paparazzo della Dolce vita, ma tutta l’atmosfera del film.
Per me sarebbe diventato presto uno di famiglia, mi accompagnava in giro per il mondo, di set in set, di evento in evento, e il figlio David, che ha la stessa età di Carlo jr, sarebbe spesso venuto in vacanza con noi. Tazio era un uomo profondo, un fuoriclasse nel suo lavoro, innamorato della vita. Ma quando la moglie se ne andò, non resse al dolore e si lasciò morire.
Quel giorno, sul set di Matrimonio all’italiana, Tazio scattò delle bellissime foto a Carlo e a me nel retro della Pasticceria Soriano, là dove don Dummì tramava alle spalle di Filumena il matrimonio con la giovane e rispettabile Diana, interpretata da Marilù Tolo. Venimmo molto bene, ma nessun giornale le volle pubblicare. Matteo Spinola, che insieme a Lucherini era il mio ufficio stampa, non si spiegava il perché, e neppure io. «Saremo passati di moda?» scherzavo per stemperare il dispiacere. Finché capimmo il motivo e riuscimmo ad aggirare il problema. Tazio ristampò le foto in modo che sembrassero mosse, e Matteo le vendette come «le foto segrete di Sophia Loren e Carlo Ponti». Ecco svelato il mistero! I primi scatti erano troppo posati e non interessavano a nessuno, mentre questo finto scoop riaccendeva l’attenzione morbosa sul nostro amore adultero e peccaminoso. E pensare che ormai stavamo insieme da anni, il primo matrimonio di Carlo era finito da tempo e solo la legge – e la Chiesa – si rifiutavano di ammetterlo.
La nostra era una strada tutta in salita, incominciata sette anni prima. Nel settembre 1957, a Ciudad Juárez, ci eravamo sposati per procura senza neppure saperlo. Ma queste nozze messicane, immortalate in una foto grottesca in cui due avvocati grassottelli si scambiano le fedi al posto nostro, avevano scatenato l’inferno. Valide all’estero e non in Italia, non avrebbero avuto conseguenze se non ci si fosse messa di mezzo la già citata signora Brambilla che ebbe l’idea di denunciarci. Era una sconosciuta casalinga milanese, prigioniera dei suoi pregiudizi, mossa dall’esigenza di difendere la santità dell’unione matrimoniale che l’amore tra me e Carlo stava infangando. Ancora me la ricordo. Chissà che cosa la spingeva davvero. Ce lo chiedevamo allora, nel vortice degli eventi, e a volte me lo chiedo anche oggi, che tutto è finito bene. Per quanto mi sforzi, non riesco a trovare una risposta convincente.
A carico nostro si configurava l’ipotesi di reato, in violazione all’articolo 556 del codice penale: bigamia.
A quella della signora Brambilla si era aggiunta nel 1959 la denuncia di Orlando di Nello, il sindaco di un paesino abruzzese. Carlo rischiava da uno a cinque anni di prigione, e io la condanna per complicità e concubinaggio.
Nei primi anni, fino al 1959, eravamo rimasti all’estero, per la paura concreta di essere arrestati. Ma non si può restare sospesi per sempre, lontani da casa. E così, stanchi dell’esilio, dopo la parentesi hollywoodiana eravamo tornati in Italia a nostro rischio e pericolo. Conducevamo una vita difficile, con la perenne sensazione di essere clandestini. Cercavamo di non farci vedere in pubblico insieme, se uscivamo a cena arrivavamo e andavamo via separati, fuggivamo agli sguardi come due amanti colti in fallo, come due studenti fuggiti di collegio, come detenuti in libertà vigilata.
Il vero paradosso è che anche Giuliana, la prima moglie di Carlo, desiderava la sua libertà e, da avvocato, studiava la situazione in cerca di una via d’uscita. Tre volte i Ponti chiesero l’annullamento alla Sacra Rota, e tre volte fu loro negato. L’unica soluzione per toglierci se non altro dall’impiccio della bigamia sembrava essere l’annullamento del matrimonio messicano, cosa che comunque rappresentava più un passo indietro che un passo avanti.
Soffrivo tanto, ma nel fondo del mio cuore avevo la coscienza pulita e, per quanto fossi sconvolta da tutte le accuse pubbliche e private che ci piovevano addosso, sapevo di essere nel giusto. Mi sentivo sposata, e questo doveva bastarmi, anche se non era sempre facile vivere alla gogna, bollata di infamia. Sulle porte delle chiese stavano affissi dei manifesti che mettevano all’indice i miei film e nel contempo invitavano i fedeli a pregare per le nostre anime peccatrici. Eravamo sommersi di lettere spesso feroci, la peggiore delle quali arrivò da un gruppo di donne di Pozzuoli. Sentirmi attaccata dalla mia città, dal cuore della mia infanzia, della mia terra, mi causò una ferita profonda, da cui ci misi molto a riprendermi.
L’Italia si divideva tra chi era con noi e chi era contro di noi. Era l’Italia di Coppi e della Dama bianca, di Rossellini e della Bergman, un’Italia bigotta che non aveva un lungo futuro. Dieci anni ancora, e tutto si sarebbe risolto con il referendum sul divorzio. Allora però eravamo ancora lontani e non ci restava che subire senza farci annientare.
Verso la fine di agosto del 1960 Carlo e io fummo convocati davanti al giudice. Arrivammo puntuali, lui si fermò al bar per un caffè, come se tutto fosse normale e ci aspettasse solo una semplice formalità.
«Sophia, prendi qualcosa?»
Mi mancava la voce, feci di no con la testa, girandomi leggermente di lato. I miei occhi erano troppo lucidi per poterlo guardare in faccia.
Salimmo le ripide scale del tribunale con il fiato corto per l’emozione. Per la prima volta nella mia vita adulta, avevo paura. Mi sentivo nuda e impotente, il mondo mi sembrava girare al contrario, tutte le regole rovesciate. Neanche la presenza di Carlo riusciva a rassicurarmi davvero. Mentre lui bussava alla porta del magistrato per comunicare che eravamo arrivati, mi sedetti sul bordo della vecchia poltrona di cuoio in anticamera. Per fortuna era agosto e non c’era nessuno, solo polvere, lunghi corridoi e vetri sporchi. Tesa come una corda di violino, guardavo fuori dalla finestra il cielo d’estate, di quel celeste limpido che usano i bambini nei disegni. Il sole, le nuvolette bianche, gli uccellini.
“È mai possibile che una mattina come questa ci cambi la vita? Che una persona possa andare in prigione per amore?” Il Medioevo mi sembrava ancora terribilmente vicino.
«Vieni, Sophia, il giudice ti aspetta» disse Carlo piano, incoraggiandomi con gli occhi.
Entrai sola e, nel mio ricordo offuscato, il tutto durò una manciata di secondi.
«Lei è sposata con Carlo Ponti?»
«No.»
«Grazie, signorina, può andare.»
Poi fu la volta di Carlo, che rimase dentro cinque minuti. A me parvero un’eternità. Quando uscì, il volto scuro e provato, mi alzai per andargli incontro. Lui mi sfiorò la schiena con dolcezza e mi indicò l’uscita. Scendemmo senza parlare, sentivo solo il rumore dei tacchi sul marmo freddo che rimavano con i battiti del mio cuore ferito. Una volta in macchina, mi disse che il giudice gli aveva di nuovo chiesto se fossimo sposati. E lui gli aveva risposto di no, che il matrimonio celebrato in Messico per procura in realtà non era valido per vari motivi, tra cui la mancanza dei due testimoni richiesti dalla legge.
Perché il magistrato potesse riconsiderare la pratica, serviva però il certificato di Ciudad Juárez, che non si trovava. Ancora un ostacolo tra noi e la felicità, come in una sceneggiatura scritta male. Mentre guidava, Carlo sollevò la mano dal cambio e la posò sulla mia: «Andrà tutto bene, ne sono sicuro. Dobbiamo solo avere pazienza».
Il certificato fu ritrovato – l’aveva rubato un giornalista italiano –, e l’udienza fu rinviata al febbraio dell’anno successivo.
La situazione, di rinvio in rinvio, non si sbloccò e piano piano l’attenzione su di noi andò scemando. Che dire? Una tipica farsa all’italiana. In compenso, Giuliana trovò la soluzione oltrefrontiera. Se avessimo preso tutti e tre la nazionalità francese, spiegò a Carlo, il rompicapo si sarebbe risolto in un momento e il problema apparentemente insolubile si sarebbe sciolto come neve al sole.
Ecco perché nel 1964 ci trasferimmo a Parigi, in uno splendido appartamento in avenue George V. La Francia ci diede la nazionalità honoris causa, per il nostro contributo al cinema francese e mondiale. E Giuliana l’acquisì per diritto coniugale. Era una barzelletta: una donna italiana diventava francese perché era sposata a un francese da cui solo così poteva divorziare.
Poco più di un anno dopo, il 9 aprile 1966, il sindaco di Sèvres, appena fuori Parigi, ci attendeva per unirci in matrimonio. Per organizzare il tutto bastarono due telefonate.
«Basilio, ci siamo: prendi il primo volo senza farti accorgere. Mi raccomando, non ti scordare le fedi.»
«Mari’, ti aspettiamo, è per domani mattina. Non farti vedere. Che dici? Il cappello? Fai come ti pare, in ogni caso sarà una cosa semplice, siamo in famiglia. Sì, chillo verde, me piace assaje, andrà benissimo. Mammina? È inutile, non verrebbe mai, tiene paura dell’aereo. Glielo diremo a cose fatte. Tanto per lei non conta, senza chiesa e vestito bianco…»
La sera prima delle nozze, Carlo dormì in una suite all’Hotel Lancaster, mentre io andai da una mia amica, Sophie Agiman. Fortuna volle che, oltre al nome, avessimo più o meno la stessa corporatura. La mattina dopo, quando fu il momento di uscire di casa, vidi dalla finestra un fotografo appostato davanti al portone. La notizia era trapelata, non so come. Sophie si infilò il mio impermeabile, si mise i miei occhiali da sole e camminò velocemente verso la mia macchina. Il povero fotografo ci cascò. Mentre la seguiva, io partii con suo marito per andare incontro al mio matrimonio. Da quanti anni lo aspettavo? Non mi sembrava più neanche vero.
La cerimonia fu sobria e veloce, sapeva insieme di vecchio e di nuovo. Come sempre nella vita nulla è mai esattamente come te l’aspetti. I sogni lasciano il posto alla realtà, che spesso ti sorprende con sfumature che non avevi messo in conto. Fu il sindaco e non Carlo a infilarmi la fede al dito, secondo l’usanza locale. Je vous déclare unis par les liens du mariage. Io, con il mio tailleur giallo e un bouquet di mughetti in mano, mi sentivo strana. Strana, stanca, felice. Mi misi a piangere, a piangere, a piangere.