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STELLE

Lettera a mamma

 

 

L’IMPORTANZA DI DIRE DI NO

«Signora, la vogliono al telefono.»

«Chi è?» urlai dal primo piano, dove ero salita a prendermi uno scialle.

«Charlie Chaplin.»

Ero certa di aver sentito male e riprovai.

«Chi? Parli più forte, sono di sopra!»

«Chaplin! Charlie Chaplin!»

Pensai a uno scherzo di Carlo o di Basilio. Pensai a uno sbaglio. Pensai a un’allucinazione. Poi presi la cornetta e intonai un timido: «Hello?». Il Maestro voleva venire a trovarmi. Mi chiedeva quando.

Appena misi giù, composi il numero di Roma della Champion. «Carlo??? Carlo??? Sei seduto? Tu non sai, non puoi sapere, non puoi neanche immaginare chi mi ha appena telefonato!» Lui mi ascoltava intenerito dal mio entusiasmo. Ma, sotto sotto, sentivo che era molto orgoglioso di me.

La mattina in cui finalmente ci conoscemmo, in quella lontana primavera del 1965, stavo sola in casa, anche Ines era uscita. Fuori scendeva una fitta pioggerella inglese, che invitava al riposo. Il cottage che avevamo preso in affitto era vicino ad Ascot, a qualche chilometro dagli studi dove stavo girando Arabesque, un film di spionaggio, alla 007, con un bellissimo Gregory Peck. La trama era troppo complicata perché qualcuno potesse capirla, ma ci stavamo divertendo molto tra fughe spericolate, rapimenti, corse di cavalli e i bellissimi vestiti di Christian Dior. Quando suonò il campanello, mi alzai lentamente dal divano e andai verso l’entrata. Speravo, prendendo tempo, di vincere la mia emozione. Quando aprii la porta mi trovai davanti un volto tondo e un po’ impacciato, incorniciato di bianco.

«Good morning, Miss Loren. Pleased to meet you!»

Gli sorrisi, mi feci da parte per lasciarlo entrare e lo guidai in salotto, senza aprire bocca. Charlie Chaplin era vestito di scuro, la giacca di tweed un po’ consunta sui pantaloni grigi, e sotto una polo blu, i tre bottoni allacciati fino in alto. Mi porse un mazzolino di viole mentre da sotto il braccio spuntava quello che aveva tutta l’aria di essere un copione. Non riuscivo a dire nulla, lui mi guardava con pazienza, come si guarda un bambino paralizzato dalla timidezza. Non aveva fretta.

Finalmente, quasi sussurrando, gli chiesi: «Posso offrirle qualcosa? Un tè, un caffè, un bicchier d’acqua…».

«Non si disturbi, grazie» disse, lo sguardo concentrato altrove, in qualche punto lontano perso dentro di sé. Poi, avvertendo la mia impasse, incominciò a parlare. Saltò tutti i convenevoli e venne subito al dunque.

«Ho una storia nel cassetto da tanto, tanto tempo. Quando l’ho vista in Ieri, oggi, domani, ho pensato che fosse fatta per lei. Mi piacerebbe molto…»

«Sì» lo interruppi d’impulso, tornando padrona delle mie corde vocali e vincendo la paura. «Sì, Mister Chaplin, certo, quando vuole!»

Aveva scritto La contessa di Hong Kong per Paulette Goddard, una delle sue tante ex mogli, l’indimenticabile protagonista del Grande dittatore e del Diario di una cameriera. E ora la stava rimaneggiando per me…

Inutile dire che recitare con Charlie Chaplin era il sogno di ogni attore, in ogni angolo della Terra. Era come essere chiamati a corte, convocati dal re, invitati a ballare dal principe. Era la favola di tutte le favole, la piena realizzazione di un mestiere, di una vocazione, di una carriera. Sotto la sua guida, avrei recitato perfino l’elenco del telefono.

Mi raccontò a grandi linee la vicenda, ambientata su un piroscafo in viaggio da Hong Kong all’America. Natasha, profuga russa di origini aristocratiche, si imbuca clandestinamente nella cabina di un diplomatico americano sconvolgendogli la vita.

Chaplin me ne recitò delle parti, facendo tutte le voci. Mi parlò di Marlon Brando come possibile partner. Mi invitò insieme a Carlo a Vevey, dove abitava con la sua famiglia.

Io gli risposi che avevo da onorare un contratto, ma appena finito Arabesque sarei stata a sua completa disposizione. Si alzò, mi salutò con un impercettibile inchino: «Allora ci sentiamo presto». Mi venne istintivo chiedergli il numero di telefono, l’indirizzo dove contattarlo, ma poi mi morsi la lingua. “I geni non hanno un telefono né un indirizzo” pensai. Abitano da qualche parte nel mondo, e vivono per renderlo ogni giorno più bello.

Ci congedammo come due che avevano un obiettivo comune, a cui appassionarsi insieme. Eravamo entrati in confidenza: se avessimo parlato italiano, saremmo passati al tu.

Appena ci fu possibile, Carlo e io andammo a Vevey, dove Charlie, che si avvicinava agli ottant’anni, viveva con la giovanissima moglie. Oona era la figlia di Eugene O’Neill, e gli aveva dato un numero sterminato di bambini. Insieme facevano una coppia strana e bellissima, che sprigionava tenerezza in ogni gesto. Nonostante il calore del nostro primo incontro, mi sentivo tesa ed emozionata e mi batteva forte il cuore. È inutile, ai geni non ti ci abitui mai.

Casa Chaplin stava vicino a Montreux, sul lago di Ginevra. Era circondata da un giardino incantato, più simile a un parco che a un giardino, increspato di allegri schiamazzi infantili. Io non sapevo cosa fare, cosa pensare, cosa dire. Non sapevo da dove cominciare una conversazione che fosse minimamente sensata. Carlo, che forse in quell’occasione sarebbe stato più disinvolto di me, era frenato dal suo fragile inglese. Oona a sua volta era una donna dolce e timida, abituata a vivere all’ombra di quell’uomo straordinario che nutriva di affetto e attenzioni. Così, ci pensò Chaplin a intrattenerci tutti, con la sua meravigliosa eleganza. Parlava della sceneggiatura, poi di colpo raccontava di sé, di quando era bambino nei sobborghi poveri di Londra, poi tornava al cinema, poi si alzava e si metteva al pianoforte, dove accennava al tema del film che aveva cominciato a comporre. Era un turbine di immaginazione, un grande affabulatore, immerso nella sua magia.

Per dimostrarci il suo affetto, ci aveva preparato il suo piatto preferito. Ci fece sedere, corse in cucina, tornò con un sorriso trionfante. «Ed ecco a voi le mie famose patate al caviale!» esclamò con un ampio gesto da prestigiatore mentre deponeva il vassoio al centro della tavola. Ci servì personalmente e ci mostrò come mangiarle.

«Vedete» diceva compunto mentre le scartocciava dalla carta argentata, «vanno tagliate così, per il lungo. Poi le spalmate con un filo di burro, e ci adagiate sopra il caviale, con un goccio di limone…» Era profondo in ogni dettaglio, non conosceva l’approssimazione. Se non si sentiva capace di fare bene una cosa, piuttosto preferiva non farla.

Tornai a Vevey un’altra volta, con Marlon Brando. Chaplin aveva finito di scrivere il copione e ci teneva a mostrarcelo. Ci accolse con un abbraccio, ci portò a vedere il lago, in fondo al giardino, ci fece accomodare nel suo studio. E poi diede inizio alle danze. Lesse la sceneggiatura tutta di fila, recitando ogni singola parte, ogni singola battuta. Io ero in estasi: ascoltavo le sue parole, cercavo di carpire ogni sua inflessione, ogni sfumatura. Lo guardavo trasformarsi via via in tutti i personaggi, dalla seducente Natasha, che avrei dovuto impersonare, al bell’ambasciatore un po’ musone, preoccupato della sua carriera, dalla vecchia ereditiera tossicchiante nel suo letto al comandante della nave, bolso, gentile, un po’ impettito.

Come Vittorio, Chaplin era un regista ma anche un attore e metteva il suo talento a nostra disposizione per ispirarci, per mostrarci, con corpo e anima, quello che si aspettava da noi.

E Brando? Nonostante tutto il suo fascino, era un uomo che pareva a disagio nel mondo.

Il primo giorno delle riprese, mi presentai sul set come sempre. In anticipo, le battute perfettamente memorizzate, il cuore in gola. La scena iniziale si svolgeva nel salone della nave, dove c’erano tutte le coppie in procinto d’iniziare a ballare. Io ero vestita con un abito da sera bianco, che mi avrebbe accompagnato per buona parte del film. Eravamo tutti pronti, le comparse, i macchinisti, il regista. Però mancava qualcosa. Mancava lui.

«Sai dov’è Brando?» mi chiese Chaplin, un po’ nervoso.

«Non ne ho idea, Charlie, mi dispiace» gli risposi affranta, con un leggero imbarazzo. Non era colpa mia, ma mi sentivo comunque responsabile, non so dire perché. Stavo lì, davanti al monumento del cinema mondiale, e facevo fatica a sopportare che qualcosa andasse storto, che qualcuno potesse mancargli di rispetto. Chaplin stava zitto, chiuso nella sua cupezza. Faceva quasi paura. Camminava avanti e indietro come un padre in attesa della nascita del primo figlio, e ogni tre minuti scrutava accigliato l’orologio. Io mi guardavo in giro, cercando un punto dove posare gli occhi. Anche gli altri non sapevano più dove volgere lo sguardo, la tensione si tagliava con il coltello.

Dopo tre quarti d’ora Marlon arrivò, fresco come una rosa. Forse non si era neanche reso conto di cosa aveva fatto. Di certo non si aspettava quanto stava per succedere. Chaplin gli andò incontro, con una lentezza dura, inesorabile, marziale. Lo fulminò, dal basso in alto, affrontandolo senza pietà, davanti alla troupe schierata sull’attenti.

«Se tu pensi di arrivare con questo ritardo anche domani, e dopodomani, e dopo dopodomani, per quanto mi riguarda puoi anche lasciare il set in questo preciso istante e non tornare più.»

Brando si sgonfiò come un palloncino e mormorò le sue scuse. Prese il suo posto a testa bassa e fu finalmente pronto a cominciare. Ma al momento di recitare la sua prima battuta, non aveva più voce. Se n’era andata, insieme alla sua sfrontatezza.

Non arrivò mai più in ritardo, ma le cose non migliorarono granché. Mi venne da pensare che fosse una persona infelice, accartocciata nei suoi pensieri, che non sapeva dove mettersi, cosa farsene del proprio immenso talento, del proprio corpo. All’inizio del film era in piena forma, bello come solo lui sapeva essere. Ma il suo male di vivere lo tormentava, non gli dava pace. Non so come mai, ma decise di nutrirsi solo di gelati. Il risultato fu che si dilatò a dismisura, fino al punto di rischiare di compromettere il suo ruolo.

Del resto, non esitò a incrinare anche il nostro rapporto di lavoro. Un giorno, subito prima di girare una delle scene più romantiche del film, improvvisamente allungò le mani. Mi girai e in tutta tranquillità gli soffiai in faccia, come una gatta accarezzata contropelo: «Non ti permettere mai più. Mai mai più!».

Mentre lo polverizzavo con gli occhi, a un tratto mi parve piccolo, inerme, quasi vittima della nomea che gli era stata cucita addosso. Non si permise di rifarlo, ma certo fu sempre più difficile stargli vicino.

Anche Chaplin aveva le sue difficoltà. Era tanto tempo che non girava e la prima settimana fece molta fatica a mettersi dietro la macchina da presa. Come se non osasse prendere in mano la situazione. A sbloccarlo fu la delicata pazienza di un tecnico meraviglioso che, piano piano, lo indusse a rimpossessarsi del posto di comando. Credo lo rinfrancasse anche la silenziosa presenza di Oona, che stava sempre sul set, senza dire una parola, pronta ad accorrere in suo aiuto casomai ne avesse avuto bisogno.

In compenso, qualche giorno dopo, Charlie mi fece il più bel complimento che io abbia mai ricevuto. Il copione prevedeva che, dopo aver ascoltato le parole di Brando, replicassi solo con lo sguardo, senza parlare.

«Sembri un’orchestra che risponde al suo direttore» mi disse, quasi commosso. «Se alzo le mani, vai di più; se le abbasso, scendi… Eccezionale.»

Da quelle parole, seminate dentro di me, germinò una pianta verde e forte, che ancora oggi continua a dare frutti.

Lavorare con lui fu un’esperienza indimenticabile. Era un regista meticoloso, attento ai minimi dettagli. Poteva soffermarsi su una scena per ore, suggerendo intonazioni, gesti e soprattutto umori, usando le immagini più straordinarie per evocarli. Ma quando smetteva di spiegare e cominciava a recitare, il mondo cambiava all’improvviso. Erano i momenti in cui si dimenticava del suo ruolo di regista e tornava a saltare come un guitto, nonostante l’età. E tu ti ritrovavi sotto gli occhi Charlot, cosa che ti dava una grande carica, ma poteva anche inibirti: sapevi che era unico, e che tutto cominciava e finiva con lui.

Chaplin era anche molto esigente, voleva le cose esattamente come se le era immaginate, e da lì non arretrava di un passo. Era un uomo diretto; se ti voleva bene, non c’erano calcoli: ti voleva bene e basta. Diceva sempre quello che pensava e, se qualcuno gli dava l’impressione di essere sleale, gli voltava le spalle e lo cancellava dalla sua esistenza.

È sempre suo l’insegnamento più importante che marcò i miei trent’anni. Lavoravo ormai da più di metà della mia vita, ma per certi versi ero ancora fragile e inesperta. C’è anche da dire che i trent’anni, per una donna, non sono un’età facile. La giovinezza ormai è alle spalle – o almeno lo era, ai miei tempi – e per quanto tu faccia delle cose stupende, nessuno più dirà di te: «Guarda quanto è giovane!».

Cominciai a capire che non mi aspettavano per forza nuovi inizi, e ormai mi ritrovavo anch’io un passato con cui fare i conti, nel bene o nel male. Era venuto il momento di confrontarmi con i miei difetti, per accettarli o se possibile superarli. Fu Chaplin a individuare il mio punto debole e a rivelarmelo con la sua proverbiale franchezza.

«Sophia, mia cara, hai un grande limite che devi vincere se vuoi diventare una donna completamente felice. Devi imparare a dire di no. Basta compiacere sempre gli altri, basta andare incontro a tutto e a tutti. No, no, e ancora no. Tu non lo sai dire, e questa è una mancanza grave. Imparare a dire di no è essenziale per poter vivere il tuo tempo come vuoi. Anch’io ho fatto fatica, ma da quando l’ho capito niente è stato più come prima: la mia vita è diventata infinitamente più semplice.»

La contessa di Hong Kong fu l’ultimo film di Chaplin, e anche il suo primo a colori. Non potrò mai dimenticare il suo volto che si affaccia alla porta della cabina, in un cammeo che lo vede nei panni di un anziano steward di bordo. Una piccola, umile apparizione che torna ogni tanto a farmi compagnia.

In quei giorni, mentre imparavo a dire di no, avevo abbandonato velocemente il set per dire di sì a Carlo, a Sèvres. Una volta tornata, ero finalmente una donna sposata, e brindai con tutta la troupe.

LADY LOREN

Charlie Chaplin e Marlon Brando arrivavano dopo una serie di film che, nel corso degli anni Sessanta, mi avevano visto a fianco delle stelle più luminose del cinema internazionale. Gregory Peck, appunto, ma anche Paul Newman, Alec Guinness, Omar Sharif, Charlton Heston e il meraviglioso, indimenticabile Peter Sellers.

Con Paul Newman avevo condiviso, sempre nel 1965, Lady L, un film importante e difficile, diretto da Peter Ustinov. Al nostro fianco David Niven e Philippe Noiret, altri due attori d’eccezione. Tratto da un romanzo di Romain Gary, lo scrittore russo-francese noto per i suoi pseudonimi e per ben due premi Goncourt, mi proponeva un ruolo complesso, che mi costrinse a lavorare molto su di me. La protagonista era una duchessa ottantenne che ripercorreva tutta la sua vita fin dall’epoca di Napoleone. Quell’invecchiamento fu una grande sfida, perché, oltre che sul trucco, si basava sulla voce. Chissà come mi sono aiutata a trovarla, da dove l’ho tirata fuori. In tutta onestà, non me lo ricordo. Ricordo invece che ero davvero fiera del risultato, anche perché il tutto doveva essere perfettamente British. Di certo mi divertii molto a viaggiare nel tempo, a immaginarmi di cinquant’anni più anziana.

Ecco che, dal baule dei segreti, salta fuori a sorpresa una bella lettera a mia madre:

Cara mammina,

ieri ho fatto i provini da vecchia e mi hanno scattato queste tre foto con la Polaroid.

Te le invio perché quando le ho viste mi sono molto commossa per la incredibile somiglianza col ritratto di MAMMÀ che avevamo nel salotto.

Ti bacio, a presto Sophia

(Tre ore di trucco con la pelle tirata con la colla.)

La vita – il cinema – giocano strani scherzi. A volte mi sorprendo a pensare che Lady L aveva l’età che ho oggi. Eppure oggi mi capita spesso di sentirmi giovane com’ero allora. E talvolta anche di più. Forse perché il tempo è soggettivo, tutto dipende dagli obiettivi che ti poni, dalla tranquillità che hai dentro. Invecchiare può essere perfino divertente se sai come passare le tue giornate, se sei contento di quello che hai ottenuto e continui a guardarti intorno. Io mi sveglio la mattina e cerco di pensare a quello che mi aiuta a stare bene, mi propongo di fare delle cose che potrò apprezzare, che per me hanno un senso. Anche cose piccole, magari senza tanta importanza, che però danno ai miei giorni un tocco che mi piace e che mi corrisponde.

Ustinov, che aveva appena vinto l’Oscar come miglior attore non protagonista in Topkapi, era anche un bravo regista, un uomo forte e carismatico, benché il suo humour forse un po’ insistente. Non era sempre facile stargli dietro. In compenso Paul Newman era un ragazzo mite e sensibile, un po’ timido ma in pace con se stesso. Bello come il sole, con quegli occhi che bucavano lo schermo, ha avuto la fortuna, e anche il merito, di un matrimonio lungo e sereno, che forse lo ha radicato alla vita vera. Non si dava arie, non scaricava sugli altri i suoi problemi, si conosceva bene. Arrivava sempre sul set con una pila di asciugamani. “Chi ’o ssape’ pecché” mi chiedevo, “Che se ne fa?”

Un giorno non mi trattenni e gli chiesi, forse con un pizzico d’impertinenza di troppo: «Paul, a che ti servono tutte queste salviette?».

Mi guardò con un bel sorriso aperto e trasparente: «Mi sudano le mani, Sophia, sono sempre bagnate».

Un uomo adorabile, che non sentiva il bisogno di nascondere le sue fragilità.

Con Omar Sharif, invece, condivisi una strepitosa sfida culinaria, che ancora oggi mi fa venire l’acquolina in bocca. Avevamo già girato insieme La caduta dell’impero romano, con Alec Guinness, forse l’attore più completo che abbia mai conosciuto. Nel film, Alec era mio padre, l’imperatore Marco Aurelio. Quando apriva bocca, il mondo si fermava e io stavo lì a guardarlo con occhi sognanti.

Omar era un tipo pieno di vita, traboccante di idee. Eravamo nati sulle sponde opposte del Mediterraneo, e del Mediterraneo condividevamo i profumi, i colori, l’ironia. Ci ritrovammo nell’estate 1966 sul set di una bellissima fiaba diretta da Francesco Rosi, C’era una volta. Un giorno, davanti al rancido “cestino” che la produzione passava agli attori, alzò al cielo i suoi begli occhi neri e sospirò: «Come si fa a mangiare questa schifezza? Ci vorrebbero le melanzane di mia madre…».

Un’uscita che avrei potuto fare io. Scoppiai a ridere e rilanciai: «Sapessi quanto sono buone quelle della mia… le più buone del mondo!».

La discussione si stava facendo seria.

«Oh no, Sophia, su tutto il resto non ho dubbi, Romilda sarà un’ottima cuoca, ma sulle melanzane non c’è storia: quelle di mia madre sono insuperabili!»

«Vogliamo scommettere?» dissi lanciandogli uno sguardo di sfida.

Omar chiamò sua mamma in Egitto e le propose di venire a trovarlo a Roma, senza dirle perché. Lei accettò volentieri, felice di stare un po’ accanto al figlio che non vedeva mai. Lui la portò in giro, la riempì di attenzioni, le presentò i suoi amici italiani. E poi, così tra le righe, sferrò il colpo finale: «Mamma, la settimana prossima ceniamo con Sophia, sua madre e la troupe. Prepareresti le tue melanzane?».

La signora prese il compito sul serio e girò tutti i banchetti del mercato, comperando una melanzana qui, una là… solo le più belle. Mammina invece giocava in casa, e non ci fu bisogno di prepararla più di tanto.

La sera della gara, convocammo le due ignare cuoche e le mettemmo alla prova, improvvisando una giuria un po’ scalcagnata ma motivata da un robusto appetito. Non fu facile scegliere la vincitrice. La ricetta era molto simile, melanzane alla parmigiana. Sia quelle puteolane sia quelle egiziane si scioglievano in bocca, con quella crosta croccantina che faceva il solletico al palato. Mangiammo tutti ai quattro palmenti, dopo giorni e giorni di panini gommosi. Alla fine, dopo un lungo dibattito, vinse per un soffio la signora Sharif. Mammina però non ci rimase male. In quella mamma egiziana, simpatica e calorosa, aveva trovato un’amica. La sera mi confessò ridendo: «Amm’ parlato sulamente ’e vuje. Pecché ogni star è bell’ a’ mamma soja».

Il cibo fa allegria, riporta a casa, dice tante cose che le parole non sanno dire. E quando si sposa alla musica può avere effetti strabilianti. Me lo aveva confermato qualche anno prima Peter Sellers, coinvolgendomi in un disco che ci aveva dato tantissime soddisfazioni. Ma ancor prima della musica, veniva il cinema. Ci eravamo conosciuti nel 1960 sul set della Miliardaria e ci eravamo trovati a meraviglia. Peter era un uomo di un’intelligenza straordinaria, che sapeva sempre sorprenderti e travolgerti con il suo charme. Non c’era volta che recitasse una scena come te la saresti potuta aspettare. Era estroso, imprevedibile, miracolosamente divertente. Si era molto affezionato a me e lavoravamo insieme con passione. Mi faceva ridere come nessun altro, conosceva Londra come le sue tasche, e tra noi si cementò un’amicizia che sarebbe durata nel tempo.

Il film era liberamente ispirato a una commedia di George Bernard Shaw, ed era incentrato sul tema dei soldi. L’ereditiera Epifania, tutta vestita Pierre Balmain, aveva ricevuto l’ordine dal padre di non sposare uomini che non fossero capaci di centuplicare in tre mesi centocinquanta sterline. Buttandosi nel Tamigi in un comico tentativo di suicidio, incappa in un medico indiano, che a sua volta aveva ricevuto dalla madre il consiglio di non sposare una donna che non sapesse vivere per tre mesi con trentacinque scellini.

Una settimana dopo la fine delle riprese ci rinchiudemmo negli studi di Abbey Road – sì, proprio quelli dei Beatles – per registrare Goodness Gracious Me, pensata da George Martin, il loro mitico produttore discografico, per promuovere il film. Il singolo scalò in poche settimane il vertice della classifica e ci spinse a continuare. La hit successiva fu Bangers and Mash, che raccontava il divertente matrimonio tra un soldato inglese e una napoletana. È il cibo a unirci e a dividerci in questo duetto. Se Peter/Joe rivuole la ricetta di mammà, purè e salsiccia in salsa cockney, io gli propongo minestrone, macaroni, tagliatelle e vermicelli. Fu uno scoppiettio di improvvisazione e di risate, che risuonano in ogni nota della canzone.

Fu paradossalmente durante le riprese della Miliardaria che la mia strada incrociò quella di The Cat o, forse meglio, che la strada di The Cat incrociò quella dei miei gioielli. Tutti i miei gioielli, che finalmente, grazie al mio lavoro, potevo concedermi o che mi regalava Carlo alla fine dei miei film. Dietro a ogni paio di orecchini, a ogni anello, a ogni collana, una storia, una fatica, un successo. Erano le medaglie che accompagnavano ogni mia vittoria. Dopo una prima notte al Ritz, dove avevo affidato il beauty-case nero alla cassaforte dell’hotel, ci eravamo installati nel Norwegian Barn, un cottage all’interno del Country Club dello Hertfordshire. Oltre a Basilio e a Ines, c’erano la cuoca Livia e la parrucchiera, tutto il piccolo mondo che mi seguiva sempre di set in set. Basilio, pensando ai gioielli, aveva chiesto una guardia notturna, ma il segretario del club gli aveva risposto sicuro: «Siamo in Inghilterra, mica a Napoli, non si deve preoccupare!».

Prendemmo possesso del cottage, e ognuno si sistemò nella propria stanza. La mia, al primo piano, aveva à côté un grande e luminoso guardaroba. È lì che si infilò il ladro, mentre eravamo ancora tutti in casa, come una sottile, silenziosa folata di vento, aspettando il momento giusto.

Il momento glielo offrii io, su un piatto d’argento. La sera andai a prendere Carlo all’aeroporto. Mentre Basilio e Ines chiacchieravano davanti alla televisione, The Cat, sgusciato fuori dal guardaroba al piano di sopra, si portava via tanti preziosi pezzettini della mia vita.

Quando tornammo, verso le undici, salii in camera. Era tardi, e il giorno dopo mi aspettava una dura giornata di lavoro. Appena entrata sentii che c’era qualcosa che non andava. Mi guardai intorno, cercando l’inghippo, e finalmente capii. Davanti a me, il cassetto del comò aperto, così come la finestra al suo fianco. Mi sentii mancare. «Uh maronna mia…» mormorai, «non ci posso credere…» Da lì erano fuggiti i miei diamanti e i miei zaffiri, le perle e i rubini, i miei ricordi più cari.

Chiamammo Scotland Yard. La polizia arrivò subito, ma non ci fu niente da fare. Il ladro si era dileguato, e non sarebbero mai riusciti a prenderlo. (Quando, dopo molto tempo, il reato cadde in prescrizione, The Cat mi scrisse una lettera firmandola con questo nome. E così me lo immagino io: un gatto dal passo felpato, tutto vestito di nero, una controfigura di Cary in Caccia al ladro.)

Sul momento tentai di mantenere un contegno, mi girava la testa, mi sentivo violata. Razionalmente sapevo bene che nella vita ci sono disgrazie peggiori, ma era come se qualcuno si fosse infilato nella mia testa, nel mio cuore, per rubarmi i miei successi e soprattutto la fatica che avevo fatto per raggiungerli. Non solo i film, ma tutte le emozioni che ci giravano intorno, e che io rivivevo portandole al collo o al dito.

Mi ritirai che era quasi l’alba, ma il giorno dopo ero sul set, come se niente fosse accaduto. Sicuramente c’entrava il senso del dovere, l’importanza di mantenere un impegno, il rispetto per il tempo degli altri. Ma forse c’entrava anche il fatto che, nel lavoro, ritrovavo l’ordine che era stato sconvolto. Facendo quello che sapevo e dovevo fare, avevo l’impressione di recuperare il controllo, quello che The Cat mi aveva sfilato con tanta abilità da sotto il naso.

Quella mattina, in una pausa delle riprese, all’improvviso mi sentii circondare da tutta la troupe.

«Che c’è?» chiesi spaventata, i nervi ancora a fior di pelle.

Peter mi porse un pacchettino argentato, con un nastrino d’oro. Era una bellissima spilla, con cui i miei colleghi mi dimostravano la loro vicinanza e il loro affetto. Fu quel gesto a farmi capire che niente era davvero perduto. Che ci sarebbero stati tanti altri film da vivere, festeggiare, ricordare. E da indossare.

Ma fu ancora una volta De Sica ad avere l’ultima parola, a farmi il regalo più prezioso.

Era arrivato a Londra da qualche giorno per recitare una piccola parte con noi. Appena saputo del furto, era corso a vedere come stavo. Mi aveva trovato in lacrime nell’intimità della mia stanza. Seduta sul letto, guardavo il comò, la finestra, il vuoto che The Cat si era lasciato dietro di sé. Si sedette al mio fianco e mi allungò il suo fazzoletto.

«Donna Sophi’, non sprecare le tue lacrime. Siamo due napoletani nati nella povertà. I soldi vanno e vengono. Pensa quanti ne perdo io al casinò…»

«Che dici, Vitto’, nun aje capito. Quei gioielli erano parte di me…»

«Sophi’, stammi a sentire: non piangere mai per qualcosa che non possa piangere per te.»