XIV

TORNANDO A CASA

images

 

 

MAMMINA

«Chère petite maman…» La scrittura tonda e diligente di Carlo jr bambino si perde nelle azzurre ali di farfalla che la maestra gli ha fatto incollare sulla letterina per me. È una di quelle poesie prefabbricate per il giorno della mamma, che i piccoli ti portano con orgoglio dopo aver combattuto con il loro disordine e la loro inesperienza. Ne ho ovunque, di quelle letterine, in ogni cassetto di ogni casa. Non ne poteva mancare una nel mio baule dei segreti, ormai arrivato in fondo alle sue sorprese.

Mentre la guardo con tenerezza, intravedo altri fogli, questa volta scritti da me.

Te l’hanno mai detto che sei la più cara mamma del mondo? Buon compleanno!

Sophia

L’intestazione riporta, in un corsivo dorato d’altri tempi, Piazza D’Aracoeli, 1, Palazzo Colonna, Roma. Sarà stato il 1961 o il 1962, chissà. È una delle tantissime lettere che ho scritto a mia madre nella mia vita, uno dei tanti pensieri quotidiani che le ho mandato da ogni parte del mondo.

Ecco che dal mio baule ne affiora un’altra, di qualche anno prima:

Cara mammina, vorrei tanto che le tue lettere fossero un po’ più lunghe e un po’ più divertenti… Perché non mi descrivi un po’ le tue giornate, quello che fai? Cosa succede in casa? Le cose qui vanno bene e mammina ti prego se leggi qualcosa sul giornale che riguarda me mettilo in una busta e spediscimelo. Il film va bene e tutto funziona come una macchina qui in America. L’Italia mi manca e forse la ragione principale sei tu. Ti adoro mamma.

E ancora, datata 27 gennaio 1958:

Cara mammina, le lettere all’inizio di un film sai che sono sempre le stesse. Piene di preoccupazioni, tormento, e specialmente in questo film…

“Sarà Orchidea nera?” penso mentre continuo a leggere.

Questo è un film particolarmente difficile, molto drammatico, ha bisogno di molta concentrazione quindi non me ne volere se io non ti scrivo spesso. Non posso dire la stessa cosa di te, perché so che 10 minuti al giorno puoi anche dedicarmeli se vuoi. Sai che mi fa sempre enorme piacere ricevere vostre notizie e specialmente notizie dall’Italia.

Siamo sempre state vicine, mammina e io, nonostante le migliaia di chilometri che ci hanno di volta in volta separate. E, come Dio ha voluto, siamo state vicine anche nel momento improvviso della sua morte. È questo l’unico pensiero che, negli anni, ha addolcito il mio dolore. Un pensiero che ora mi porta a fermarmi nel mio lungo viaggio nella memoria e fare un passo indietro. La morte, e tanto più quella di una madre, rompe la cronologia dell’esistenza, spezza il tempo del racconto e ti lascia sospesa in uno spazio vuoto, fatto di buio e di silenzio.

Era l’inizio di maggio del 1991 e tornavo da un viaggio, forse dalla laurea di Carlo jr al Pepperdine’s Seaver College. L’aereo come al solito faceva scalo a Zurigo, da dove avrei dovuto proseguire per casa. Ma così non fu. Non avevo nulla di urgente da fare, e qualcosa dentro di me mi indusse a chiamare mammina a Roma. Avevo voglia di vederla. “Ma sì, e che mi costa?” mi dissi. “È un attimo cambiare volo.”

Le telefonai, felice di poterle fare una sorpresa.

«Mammina, sono io, Sophia! Come stai?»

«E come vuoi che stia, non ci vediamo mai…»

«Preparami la stanza, metti in forno i peperoni, sto arrivando!»

Si mise a piangere dall’emozione e io fui certa di aver fatto la cosa giusta.

Passammo due giorni di chiacchiere sul divano, io dormivo tanto per recuperare il jet lag e negli intervalli mangiavo i manicaretti sfiziosi che mi cucinava, conditi dal suo amore: la salsa genovese, gli involtini di vitello, le immancabili melanzane alla parmigiana. Furono ore di pace, quasi che la sorte mi avesse concesso di tornare per un momento bambina prima della fine.

Quella sera ero già a letto quando di colpo lei si stagliò sulla porta. Appoggiata allo stipite, mi fissava con lo sguardo appannato.

«Mammina, che c’è?» dissi mezzo addormentata.

«Sofi’, non sto bene.»

Intuii subito che non era un capriccio. Mi alzai in fretta e corsi da lei.

«Mi sento strana, andiamo in bagno per favore.»

Con una mano sulla spalla, e l’altra sottobraccio, la condussi lentamente per il lungo corridoio, passo dopo passo. Mi parve una distanza infinita. Le aprii la porta, lei entrò, fissò il lavandino e cominciò a vomitare sangue. Mi guardava con l’occhio atterrito come per chiedermi cosa stesse succedendo. Io cercavo di rassicurarla, di sorridere, ma avevo una paura spaventosa.

«Portami a letto» mi disse in un soffio.

La riaccompagnai in camera e la aiutai a stendersi. Lei chiuse gli occhi, come per riposare.

«Mamma?» le dissi.

Telefonai al portiere: «Venga su, venga su, presto!». Lui arrivò, la guardò, alzò le braccia impotente.

«Signora Sophia, dobbiamo chiamare qualcuno…»

Cercai Maria, era in macchina, stava andando in campagna con un’amica. Tornò a cento all’ora, sventolando il fazzoletto bianco fuori dal finestrino. Ma era troppo tardi.

Quando era mancato mio padre, quattordici anni prima, mi ero sforzata di sentire qualcosa, ma non avevo sentito niente.

Con mammina, invece, se n’era andato un pezzo di me.

Più il tempo passa e più la ferita della sua scomparsa si fa profonda. Mi manca il nostro appuntamento quotidiano al telefono. Mi mancano le sue ire improvvise, il suo amore combattivo ed esclusivo. Spesso con mia sorella, specialmente quando siamo sole, ci guardiamo e, senza scambiarci una parola, veniamo travolte dallo stesso rimpianto, dalla stessa irreparabile assenza.

Da attrice, oltre che da figlia, la storia di mia madre mi ha sempre interessato. Un personaggio emotivo, innocente, drammatico, isterico. Diciannove anni dopo la sua morte, nel 2010, l’ho impersonata in La mia casa è piena di specchi, una miniserie televisiva trasmessa dalla Rai tratta proprio dal romanzo autobiografico di Maria. Del resto, l’avevo già portata sul piccolo schermo trent’anni prima con il film tv Sophia Loren, Her Own Story, ispirato a Living and Loving, il libro in cui Aaron Edward Hotchner, bravo scrittore e grande amico di Paul Newman, aveva raccolto nel lontano 1979 le mie prime memorie. Lì la sfida era stata davvero emozionante, perché recitavo sia la sua sia la mia parte, in un divertente e talvolta inquietante esercizio di sdoppiamento. Del resto, a ben guardare le nostre vite, forse la vera diva era lei, non io.

Con La mia casa è piena di specchi, l’emozione raddoppiò per il fatto che mammina non era più con noi. Non mi è stato facile fare chiarezza nel mio cuore per darle una voce, una veste credibile. Volevo fare di più, di più, di più. Volevo renderle omaggio, nell’unico modo che sapevo.

Non so se ci sono riuscita. Di certo recitare il suo ruolo mi ha costretto a rivivere la nostra storia insieme, il nostro legame così stretto, più vicino a quello di due sorelle che a quello di madre e figlia. Abbracciando il suo punto di vista ho capito cose che prima mi erano sfuggite. E, in qualche modo, sono tornata a casa.

L’IMMACOLATA

Tornare a casa, oggi, per me, significa stare con mia sorella Maria. Le nostre esistenze, pur così diverse, scorrono intrecciate. Non importa se viviamo lontane, se siamo nate sotto due segni opposti – lei Toro, esuberante e combattiva, io Vergine, combattiva ma riservata –, se non facciamo lo stesso lavoro. Ci siamo sempre aiutate e sorrette a vicenda, e non siamo mai mancate nei momenti importanti. Quando arrivo a Roma ed entro in casa sua e di Majid, il medico iraniano con cui si è felicemente risposata nel 1977, riassaporo i profumi dell’infanzia, come se il tempo non fosse mai passato. Nel suo bellissimo principe persiano trovo il fratello che non ho mai avuto. E in lei ritrovo tutto l’affetto della mia famiglia d’origine condensato in un lungo e forte abbraccio.

Appena varco la soglia vedo la regina della loro casa, l’Immacolata. Un quadretto che, tanto tempo fa, viveva dentro il cassetto di un armadio a specchio di Pozzuoli, uno di quei cassetti dove si mescolano le cose più eterogenee: rocchetti e fazzolettini, lettere e fiori secchi, biglietti del treno, fotografie, mollette per i capelli, elastici, medagliette, conti della spesa… L’Immacolata apparteneva alla sorella di mamma Luisa, quella che all’inizio del secolo scorso se n’era partita per l’America. Maria la salvò dall’oblio e non se ne separò più. Ora che vive con lei, la onora con un cero sempre acceso e foglie fresche, e la fa divertire con giochini, piccoli angeli di carta, pupazzetti.

«Sofi’, vedi come sta bene, l’Immacolata? Anche lei, a furia di proteggerci, invecchia e ha bisogno di svagarsi un po’…»

«Maria, ma che dici?» faccio finta di riprenderla. E invece, in fondo al mio cuore la capisco. Ognuno di noi nasconde una dimensione spirituale, incantata, che alimenta in modi misteriosi lasciandosi guidare dal cuore.

Quando ci vediamo, io e Maria passiamo il tempo a chiacchierare e a cucinare. Anzi, per essere precisi, lei chiacchiera e io ascolto, lei cucina e io mangio…

«Ti ricordi quella volta che, in Spagna, tu dormivi e io…»

«E tu?»

«Io me ne uscivo con la troupe, appena tu prendevi sonno, e andavo a ballare le sevigliane, come una pazza…»

«Ah sì? Se l’avessi saputo! Ma allora anche in America, ora che ci penso…»

«Eh già. Appena ti addormentavi, io mi alzavo, mi vestivo e scendevo di sotto, dove mi aspettava la macchina di Frank Sinatra… Andavo ad ascoltarlo nei locali, e qualche volta cantavo insieme a lui.»

«Tu la vita l’hai rubata!» le dico sorridendo. «Come una ladra!»

E come una ladra, a volte, cerca di carpire i miei segreti… Mi stuzzica, mi aggira, mi fa dei trabocchetti. E io, da vera attrice, cerco di sviarla con uno sguardo, un gesto, una battuta. Ma so che con lei non funziona e alla fine cedo alla sua sapiente regia.

«È inutile che reciti con me, Sofi’, ti conosco troppo bene» esclama divertita, orgogliosa della sua vittoria.

Queste scaramucce tra sorelle ci tengono vive, ci accendono di gioia e tenerezza. E attorno ai fornelli toccano il loro apice.

«Che fai, Maria, nei friarielli ci metti l’aglio?»

«Guarda che, se non lo vuoi, lo tolgo…»

«Ma chi li ha mai visti i friarielli senza aglio?»

«Sophia, ti devi decidere: quest’aglio lo vuoi o non lo vuoi?»

È bello sapere che niente al mondo ci dividerà, come niente ci ha mai diviso. E che, finché ci sarà lei, saprò sempre ritrovare la strada di casa.

Quando sono a Roma, oltre al divano di Maria e Majid, la mia casa è l’Hotel Boscolo, dove i meravigliosi proprietari, Angelo e Grazia, mi hanno riservato una suite. Per me è un’oasi di pace, in cui trascorro giornate serene, al riparo dai curiosi, accudita da uno staff impeccabile e caloroso. Il signor Giuseppe è diventato un amico e ogni volta che parto ci salutiamo con un affetto che sa già di nostalgia.

LA RAGAZZA DAGLI OCCHIALI BIANCHI, CON LA RISATA CONTAGIOSA E SEMPRE SEMPRE DI BUON UMORE

A “casa” mi ricondusse, all’inizio degli anni Novanta, anche una grande regista. Parlo di Lina Wertmüller, la ragazza dagli occhiali bianchi e dalla risata contagiosa. Era dai tempi di Vittorio che non provavo sul set una sensazione così intima, così familiare. Mi affidai a lei completamente, e feci bene. Oggi penso che forse non è un caso che a dirigermi nei miei anni maturi sia stata una donna.

E bisogna dire che Lina è una donna eccezionale: pur essendo estremamente sofisticata, sa stare vicino alla gente, è piena di fantasia, di calore umano, di positività. È bella dentro e fuori, sembra una bambina, con quella sua voglia di vivere, di gioire. Anche se non ci sentiamo spesso, abbiamo sempre avuto un rapporto meraviglioso.

Avevamo già lavorato insieme alla fine degli anni Settanta in un film il cui titolo sfido chiunque a ricordarsi: Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova (si sospettano moventi politici). Ai produttori piacevano i titoli brevi, come Senso e Sciuscià? E lei li provocava con titoli interminabili, divertendosi a vedere come venivano storpiati.

Sì, Lina ha un lato un po’ scugnizzo che la rende irresistibile. Forse, ora che ci penso, assomiglia proprio al Gian Burrasca che ha portato in televisione, con Rita Pavone e la sua indimenticabile Pappa col pomodoro. Spero che il titolo del paragrafo a lei dedicato le possa piacere.

Con Fatto di sangue, come racconta nella sua vibrante autobiografia Tutto a posto e niente in ordine, aveva giocato con il trucco per far emergere il mio lato più tragico e mediterraneo. Il film era ambientato in Sicilia, negli anni Venti, in un clima selvaggio e pieno di contrasti. E lei mi voleva così.

Quel pomeriggio me lo ricordo bene anch’io. Stavamo a Parigi, a casa nostra, in avenue George V. Lina era venuta a trovarmi portandomi la sceneggiatura appena scritta. Mentre chiacchieravamo del film, aveva cominciato a pasticciarmi la faccia.

«Portiamole in giù, queste sopracciglia, in giù, come i frontoni di un tempio greco!» ridacchiava tormentandomi con la matita davanti allo specchio.

Voleva essere certa di cancellare ogni traccia della diva internazionale per mettere in scena una donna tutta italiana, tutta meridionale.

«Lina, Lina, che fai?» cercavo invano di difendermi. In realtà il mio cuore mi diceva di fidarmi. E così l’avevo lasciata fare, con la condiscendenza che si usa verso i bambini intraprendenti, che di solito sono quelli più pestiferi e anche i più interessanti.

Ma non si accaniva solo contro di me, la nostra Lina. A sua volta Marcello, che recitava al mio fianco insieme a Giancarlo Giannini, era stato punito con una barbona lunghissima da vero socialista, che lo aveva tormentato per tutto il film.

Eravamo partiti con una commedia, eravamo finiti nel melodramma, sulle struggenti note di Casta Diva della Callas, e ci eravamo molto divertiti.

Nel 1990, Lina tornò all’attacco con Eduardo De Filippo, riportandomi, come dicevo, dritta dritta a Pozzuoli, nella cucina di mamma Luisa. Come? Ma certo, con il ragù, «l’evento più sacro del rito domenicale!».

Sul set di Sabato, domenica e lunedì il ragù non smise mai di cuocere, da mattina a sera. Anche perché tutto il film ruotava intorno alla sua preparazione nella cucina in maiolica di Rosa Priore, una grande donna di famiglia, impegnata a ripristinare il suo onore messo in dubbio dalla gelosia del marito. E anche perché tutti i membri della troupe – a partire da me, da Luca De Filippo nel ruolo di Peppino, da Luciano De Crescenzo e Pupella Maggio fino ai tecnici, agli elettricisti e ai macchinisti – pretendevano di detenerne l’unica vera ricetta e continuavano a sfidarsi a duello con grandi indimenticabili spaghettate. D’altra parte, basta vedere l’inizio del film, ambientato in una macelleria, per capire che, sullo sfondo dell’imprendibile anarchia napoletana, ognuno dice la sua ed è impossibile trovare un accordo.

«Donna Ceci’, ve voglio bene, vado di fretta…» dice donna Rosa. «Datemi ’nu chilo d’annesso, un chilo e mezzo di spezzatino, tre chili di nocina, ’na punta di natica, petto di spalla, due chili di fianchetto e corazza.»

«Un po’ di annicchia e di cervellatina no?»

Battuta dopo battuta, ogni comare cerca di imporre la sua verità.

«Mia suocera, che è rinomata per il ragù, mi ha insegnato che debbo rosolare prima ’a carne senza cipolla…»

«Madonna, signo’» si lascia scappare incautamente Rosa, «ma voi state bestemmiando!»

«No, scusate se m’intrometto, ma ave ragione la signora, perché se cuocete a parte la carne e la cipolla, il ragù viene più delicato, molto fine…»

«Ah, perché carne e cipolla insieme verrebbe più popolare?… Ma scusate, signo’, voi dove siete nata?»

«Ma che c’entra ’sto fatto? Sono di Afragola, perché?»

«Aaah…»

Su questo «aaah» si scatena la rissa e ha inizio il glorioso fine settimana.

Per fortuna, sul set sembravamo più miti, anche se a ben guardare non eravamo diversi da Rosa e le sue comari. Comunque sia, su quel ragù ci impegnammo molto, ottenendo ottimi risultati.

Come ricorda Lina, il suo profumino condusse alla nostra tavola perfino Al Pacino, che stava girando anche lui a Cinecittà.

«Che cosa c’è per pranzo?» chiese il grande attore affacciandosi un giorno alla porta scorrevole della nostra cucina da campo. Prendemmo subito una sedia e ci stringemmo per fargli posto a tavola. Per noi fu una sorpresa, un onore. Per lui una buona occasione di assaggiare il ragù napoletano doc, così diverso da quello proposto dalla cucina internazionale.

Arrivò ad assaggiarlo anche Karl Malden, che a Broadway aveva interpretato il personaggio di Peppino. Infatti, la commedia di Eduardo era conosciuta in tutto il mondo, ed era stata a suo tempo portata in scena a Londra perfino da Laurence Olivier. Ma nella sua essenza è intraducibile. Come fai a rendere in inglese quei dialoghi, quei litigi, quelle atmosfere?

Lina, lavorando alla sceneggiatura insieme a Raffaele La Capria, ne aveva anticipato l’ambientazione dai primi anni Cinquanta al 1934, proprio a Pozzuoli, consentendomi di identificarmi con il personaggio fino in fondo. Del resto, non era difficile: quel mondo lo conoscevo bene, e non lo avevo mai dimenticato. Girammo a Pozzuoli, Napoli, Trani e a Cinecittà. Lo scenografo Enrico Job, amatissimo marito di Lina, aveva ricostruito la mia città natale come la ricordavo allora. Oggi, di quel mondo, non è rimasto niente.

Nel cast c’era anche mia nipote Alessandra, nel ruolo della figlia di Rosa, Giulianella. Era stata già mia figlia in Una giornata particolare, ma in questa occasione recitava una parte ben più importante.

Una mattina piombò sul set mia sorella Maria, incupita da una grave preoccupazione di salute. Prese la figlia in disparte e condivise con lei la sua ansia. Io non ne sapevo niente, le vedevo confabulare nell’angolo e non capivo perché. Subito però ebbi modo di notarne gli effetti. Nel girare un litigio d’amore, gli occhi di Ale, lucidi di vero pianto, funzionarono benissimo e diedero alla scena la sua verità. Aveva talento, la ragazza, ma presto avrebbe preferito incamminarsi su un’altra strada.

Per fortuna Maria non aveva nulla e anche suo marito Majid, che si era molto preoccupato, si rasserenò. Lo aveva incontrato, anni e anni prima, in una clinica romana. Lui, giovane dottorino in procinto di tornare in Persia, lei, giornalista agguerrita, con alle spalle un matrimonio finito, lanciata alla ricerca di se stessa. Appena incrociò quei suoi meravigliosi occhi mediorientali, Maria giurò che non se lo sarebbe fatto scappare. E tanto lo corteggiò che così fu!

Sabato, domenica e lunedì fu un grande successo in Italia e all’estero. A me lasciò in eredità uno dei miei personaggi più cari, a cui diedi tutta me stessa. Carlo jr e Edoardo, la prima volta che videro il film, passarono il tempo a ridere, dandosi gomitate come due guaglioncelli impuniti: in Rosa avevano riconosciuto atteggiamenti, gesti e battute della loro Sophia quotidiana e la cosa li aveva molto divertiti.

Ma ora era venuto il momento di chiudersi alle spalle la porta della cucina e tornare nel grande mondo: mi aspettava un decennio da srotolare come un lungo, meraviglioso red carpet.

STANDING OVATION

Nel 1963, in un elegantissimo vestito bianco disegnato da Emilio Schuberth, ero stata chiamata dalla Academy of Motion Pictures Arts and Sciences per consegnare il premio per la miglior interpretazione maschile. Con la pettinatura cotonata dell’epoca e la voce ferma avevo esordito come da copione: «It is my privilege to present the Oscar for the best performance as an actor…». Ma poi, rivolgendomi agli organizzatori dietro le quinte, ero esplosa in italiano: «La busta, per favore…» suscitando l’affettuosa ilarità della platea. Il vincitore era Gregory Peck, per Il buio oltre la siepe.

Ventotto anni dopo, allo Shrine Civic Auditorium di Los Angeles, i ruoli erano invertiti ma l’emozione in sala sempre la stessa.

Quella volta – era il 25 marzo 1991 – fu Gregory, con i capelli bianchi e i baffi solo poco più grigi, ad aspettarmi in fondo alla lunghissima scala, che io scendevo prudente e commossa, in un luccicante abito di Valentino.

L’avevo incontrato la sera prima in albergo, erano quasi trent’anni che non ci vedevamo, dall’epoca di Arabesque… Quando si era aperta la porta dell’ascensore, me l’ero trovato davanti, all’improvviso, come se il tempo si fosse fermato. Un flash, un momento durato un’eternità. Nel suo sguardo sorpreso, nella leggera esitazione con cui si era fatto di lato per farmi passare, avevo colto un mondo di cose che avrebbe voluto dire e non aveva detto. Né avrebbe detto mai.

Quando mi consegnò il mio secondo Oscar, questa volta alla carriera, il pubblico si alzò in una standing ovation mentre io cercavo invano di fermare le lacrime. Se qualcuno pensò che stessi recitando, si sbagliava. Parlai di gratitudine e di generosità, di felicità e di orgoglio. Ricordai il terrore che nel 1962 mi aveva impedito di andare a Hollywood per ricevere l’Oscar per La ciociara.

«Stasera sono ancora spaventata, ma non sono sola» conclusi, mentre scrutavo il pubblico alla ricerca dei miei cari. «Voglio condividere questa serata speciale con i tre uomini della mia vita. Mio marito Carlo Ponti, senza il quale non sarei la persona che sono oggi. E i miei figli, Carlo jr e Edoardo, che mi hanno insegnato a coniugare le mille voci del verbo “amare”. Grazie America.»

A comunicarmi la vittoria, qualche settimana prima, era stato Karl Malden, uno dei più bravi caratteristi di Hollywood, prendendomi del tutto di sorpresa. Una sorpresa felice, che avevo pensato di replicare per la mia famiglia tenendomi la notizia per me e aspettando che la scoprissero da soli.

«Mamma!» mi aveva urlato nel telefono qualche giorno dopo Edoardo. «Mamma!!! L’Oscar alla carriera! L’ho sentito alla radio. Ma perché, perché non ce l’hai detto?»

Io avevo riso sotto i baffi per questo mio piccolo scherzo. Non capita tutti i giorni di poterne fare di così belli!

Non pensavo che avrei potuto provare un’altra emozione simile. E invece mi sbagliavo. Era il 1993 quando tornai sul palco degli Academy Awards per «onorare un caro amico, con una torreggiante storia cinematografica». Dodici nomination, quattro Oscar vinti per il miglior film straniero, di cui due addirittura di seguito: La strada, nel 1957, prodotto da Carlo, e Le notti di Cabiria, l’anno successivo. A condividere con me questo privilegio, l’amato Marcello, forse ancora più emozionato di me.

Anche per Federico Fellini ci fu una lunga standing ovation tra lacrime e sorrisi.

«Sedetevi, state comodi» disse il Maestro nel suo inglese deliziosamente maccheronico. «Se c’è qualcuno qui che si deve sentire a disagio, quello sono io!»

Ricevendo la statuetta, che pure conosceva bene, mi baciò e si rivolse all’amico di sempre: «Grazie, Marcellino, grazie che sei venuto…».

«Prego» gli rispose lui, tra l’imbarazzato e il divertito.

Parlavano come se fossero su un qualche rapido Rimini-Roma di trent’anni prima. E invece erano a Hollywood, davanti al gotha del cinema mondiale.

Il pubblico colse, nei loro gesti un po’ goffi e carichi di commozione, l’intensità di un rapporto umano e professionale, che affondava nel tempo e aveva fatto sognare il mondo.

Anche il pensiero del grande Fellini, che sarebbe morto di lì a qualche mese, corse subito a sua moglie: «Grazie Giulietta, e per favore, smettila di piangere!».

Tre anni dopo sarebbe scomparso pure Marcello. L’ultima volta che lo vidi fu a Milano. Lui entrava nella sua macchina per andare a teatro a provare Le ultime lune, di Furio Bordon. Io salivo sulla mia, diretta all’aeroporto. Marcello mi lanciò uno sguardo lunghissimo, forse indovinando che non ci saremmo visti mai più.

Faccio ancora molta fatica a tornare ai giorni della sua morte. Il mondo parlava, declamava, presenziava, celebrava. Io stavo chiusa nella mia stanza, avvolta dal mio pudore. Non volevo mescolare il mio dolore a quello degli altri, non volevo sbandierare i miei sentimenti a uso e consumo dei media. Me ne stavo da sola, cercando un modo di capire fino in fondo quello che era successo. Il giorno del suo funerale mandai un tappeto di orchidee, perché lo accompagnassero con la loro delicata freschezza. E gli portassero il mio amore di sempre.

Il decennio degli Oscar italiani ci riservava ancora una grande soddisfazione. Il 1999 fu l’anno della Vita è bella, con ben tre statuette. A premiare Roberto Benigni per il miglior film straniero fui di nuovo io, questa volta vestita Armani.

«And the Oscar goes to…» dissi mentre dalla sala si alzavano i primi gridolini speranzosi… «Robbbberto!!!!» L’auditorium fu travolto da questa gioia tutta italiana. Mentre sventolavo in aria la busta come una ragazzina, Roberto si imbarcò in una comica corsa a ostacoli scavalcando in piedi le file di poltrone che lo separavano da me. Fu Steven Spielberg a un certo punto ad aiutarlo, impedendogli di precipitare sulle teste delle star ingioiellate.

Finalmente il guitto zompò sul palco e mi corse incontro. Il nostro abbraccio fu rotondo e vorticoso. Come il suo discorso, irrefrenabile, esilarante, carico di brio e di cultura. Io lo guardavo stupefatta mentre parlava di tuffi nell’oceano, di tempeste di grandine, dell’alba dell’eternità. Un pensiero andò a coloro che avevano perso la vita perché oggi potessimo dire che la vita è bella. Un bacio a Giorgio Cantarini, il bambino del film. E naturalmente, dopo aver ringraziato i suoi genitori a Vergaio per avergli dato il dono più grande, la povertà, la dedica alla moglie Nicoletta Braschi, annegata nelle lacrime di felicità.

Furono anni di premi, di riconoscimenti, anni in cui raccolsi il frutto del mio lavoro, fatto di gioia e sacrifici, divertimento e fatica. Nel 1996 io e Carlo eravamo stati addirittura nominati cavalieri di Gran Croce al Merito della Repubblica italiana dal presidente Oscar Luigi Scalfaro. I premi alla carriera sono tanti, è impossibile ricordarli tutti. Vanno dal César d’onore all’Orso d’oro a Berlino, dal David di Donatello al Golden Globe Cecil B. DeMille Award e a molti altri ancora. Ma ognuno porta con sé un carico di sentimenti, di ricordi speciali di persone che mi hanno stimato e mi hanno scelto, illuminando la mia vita da una prospettiva diversa. Per ognuno di loro serbo un senso di gratitudine e di meraviglia.

Nel 1998 anche Venezia aveva voluto premiare la mia carriera con il Leone d’Oro, ma la bella notizia mi aveva colto in un momento di particolare fragilità. Mi sentivo stanca e vulnerabile, forse anche per il cumulo di emozioni che avevano messo alla prova la mia sensibilità, sempre più accesa con il passare del tempo. Furono di nuovo Carlo e i ragazzi ad appoggiarmi, a sostenermi, a ricevere il premio al posto mio. E a piangere insieme a me, che li guardavo con amore da lontano.

Il mio amore, in quei mesi difficili, lo riversai ancora una volta in cucina, da sempre il mio universo di pace, il mio baluardo di fronte alle fatiche del mondo. Fu così che nacque Ricordi e ricette, il modo più naturale che trovai per condividere i sapori della mia vita, legandoli a episodi e a incontri che mi avevano condotto fin qui. Il libro ebbe molta fortuna e vinse perfino un premio alla Fiera di Francoforte. Per ricordarmi che il vero successo, alla fine, si nasconde spesso nel segreto domestico della semplicità.

I CAZZABUBBOLI

I premi stanno tutti lì, sugli scaffali. Ogni tanto do loro una spolveratina, e dentro di me sorrido. Mi piace ricordarmeli, a uno a uno, mi piace tenerli in ordine, mi piace viaggiare con l’immaginazione da Hollywood a Berlino, da Cannes a Venezia a New York. Ma poi mi piace tornare e, se possibile, risentire il profumo della mia terra.

Francesca e Nunziata, il film tv ridotto in un secondo momento per il cinema, tratto dal romanzo di Maria Orsini Natale, racconta la storia di due pastaie nella Napoli tra Otto e Novecento. L’autrice aveva mandato alla Wertmüller il dattiloscritto prima che fosse pubblicato, e lei se n’era innamorata. Poi, come spesso capita nel cinema, ci erano voluti dieci anni perché succedesse qualcosa. E ora, al passaggio del millennio, eravamo di nuovo noi, Lina e io, ancora insieme, accompagnate da un cast meraviglioso che avrebbe distillato la sua sintonia in ogni fotogramma.

Ad aiutarci fu, ancora una volta, la location. Girammo in parte nell’incantata isola di Procida, che ci accolse con entusiasmo rivelandoci a poco a poco i suoi angoli più nascosti e più veri. Pur così vicina a Pozzuoli, non l’avevo mai vista e ci lasciai il cuore. Nella baia della Corricella, a Punta Pizzaco, sulla strada panoramica che guarda Capri, tra i palazzi antichi immersi negli agrumeti a picco sul mare, respiravamo un ritmo lento e naturale, che ci rese più dolce il lavoro e più leggera la fatica del set.

Ma il cinema ha i suoi trucchi, e non tutte le riprese avvennero nel Golfo di Napoli. Se la villa Montorsi invece che a Sorrento era in Franciacorta, il pastificio al centro della storia stava a Frascati, dove mettemmo ad asciugare al sole chilometri e chilometri di spaghetti di plastica.

Comunque sia, recitare sotto una guida sapiente come quella di Lina, con il suo attore del cuore, Giancarlo Giannini, dai bei baffi gattopardeschi, e due ragazzi giovani, belli e bravi come Claudia Gerini e Raoul Bova, mi fece sentire in famiglia.

E di una grande famiglia, in effetti, si trattava. Nei panni di donna Francesca ho i capelli grigi e tanti fili di perle quanti sono i miei numerosi figli. Ai quali si aggiunge, per un voto fatto alla Madonna, un’orfanella adottiva, Nunziatina, l’unica a seguire la mia vocazione di imprenditrice fiera e spregiudicata, che si è fatta da sola e ha accumulato una grande fortuna. Tutto va bene finché il principe Giordano Montorsi, stanco del ruolo di principe consorte, un bel giorno si risveglia dal suo aristocratico torpore per improvvisarsi banchiere, con esiti disastrosi per le sorti famigliari. «Tu sei nato principe, fai il principe, la pastaia la faccio io…» aveva tentato di ammonirlo Francesca avvertendo il pericolo. Ma nulla aveva potuto la sua preveggenza.

Questo film mi regalò una storia bellissima, quindici ampi e vistosi cappelli, che chiamavamo ironicamente cazzabubboli, e un personaggio forte e fragile al tempo stesso, proprio come sono io. Il grande monologo finale è il regalo più bello che mi ha fatto Lina: «Di dolore non si muore, Nunziati’, ma è brutto assai…».

I miei ruoli di mamma non erano finiti qui. Cinque anni dopo, sarei ritornata sul grande schermo nel musical Nine di Rob Marshall, come madre di Guido Contini, alias Fellini. Era un film ambizioso, tratto da un celebre musical di Broadway ispirato a . Avevo accettato subito in ricordo di Federico, con cui, per i capricci della sorte o forse perché in realtà non ero il suo tipo di attrice, non ero mai riuscita a lavorare. E avevo accettato perché mi piaceva l’idea di recitare con Daniel Day-Lewis, di certo il più grande attore di oggi.

Gli spunti originali e le grandi interpreti, da Penélope Cruz a Judi Dench passando per Nicole Kidman e Marion Cotillard, non sono bastati a farne un film all’altezza del modello. Resta nel mio cuore un ballo tenero e struggente con Danny, che all’ombra di sua madre coltiva la sua nevrotica creatività. E resta la nostalgia per quella stagione straordinaria del cinema italiano che avevo avuto il privilegio e l’onore di vivere in prima persona.