XV

VOCI

Disegno dei nipoti

 

 

GLI UOMINI DELLA MIA VITA

Mamma sul set e fuori dal set. E, con mio figlio Edoardo, entrambe le cose contemporaneamente. La mia vita è davvero una favola che, come tutte le favole, apre e chiude i suoi capitoli con grandi gioie e grandi, immensi dolori.

Carlo si è spento a Ginevra il 10 gennaio 2007, a novantaquattro anni, prostrato dal diabete che nelle ultime settimane lo aveva piano piano appannato e, infine, da una complicazione polmonare che gli è stata fatale. A tenergli la mano c’eravamo io e Edoardo, mentre i suoi figli, Guendalina e Alex, e il nostro Carlo jr erano in volo, chi dall’America, chi da Roma.

Ricordo la telefonata dalla clinica, quella cupa sera d’inverno, che ci diceva di correre perché si avvicinava la fine. Ricordo una notte infinita, senza speranza. Ricordo il gelo di quell’alba fredda, quando lo salutammo prima del suo ultimo viaggio verso Magenta, dov’era nato e dove sarebbe stato sepolto.

La morte è tanto più brutta quanto più è normale. C’è qualcosa di profondamente innaturale nel dover lasciar andare chi si è amato tanto. Ci si gira in cerca di appigli, sapendo che non ce ne sono. E si resta soli, abbandonati perfino dalle parole.

Del resto, cosa rimane da dire quando, dopo cinquantasei anni insieme, tutto finisce? Ogni mattina mi sveglio e faccio fatica a credere che Carlo non ci sia più. Lo cerco negli angoli della nostra casa, lo trovo nella voce dei nostri figli, identica alla sua, nell’espressione dei nostri nipotini, che sono nel frattempo arrivati a illuminare le mie giornate, a completare, in una maniera che non mi sarei mai aspettata, il mio sentimento di maternità.

Lucia e Vittorio, Leonardo e Beatrice mi hanno reso la nonna più felice del mondo. Nel mio baule, ritrovo un ritratto che mi hanno fatto e che mi inorgoglisce più di una foto d’autore. Davanti a loro io mi annullo, non ci sono più. Non avendo l’onere di educarli, posso viziarli quanto voglio, riempirli di cioccolato fino all’inverosimile, coccolarli e stropicciarli finché non ne possono più. Nei loro sorrisi, nei loro talenti, proietto la mia gioia, il mio sogno di un futuro più sereno, di un domani migliore. Sono bambini fortunati, che spero possano restituire al mondo tutto quanto hanno ricevuto, così come hanno fatto i loro genitori.

Carlo jr, che ha seguito il suo amore per la musica, oggi, grazie anche ai consigli del suo papà, è direttore d’orchestra. Quando lo vedo sul podio, così appagato, così sicuro, il mio cuore batte all’impazzata e si riempie d’orgoglio.

Ha lavorato con grandi maestri, tra cui Mehli e Zubin Mehta e Leopold Hager, ha condotto molte orchestre in tutto il mondo, dall’Orchestra nazionale russa alla Simón Bolívar Symphony Orchestra, dalla Orchestre Philharmonique de Strasbourg all’Orchestra del Teatro San Carlo e a quella del Maggio Fiorentino. E ha trovato il suo grande amore: la violinista ungherese Andrea Mészáros condivide con lui la passione musicale e l’educazione dei loro due meravigliosi bambini. Ma il podio da solo non gli basta. Da tempo coltiva l’aspirazione di mettere la sua esperienza al servizio dei giovani: convinto che la musica sia un potente strumento di crescita individuale e di emancipazione sociale, oggi sta lavorando con entusiasmo in questa direzione.

Edoardo, invece, ha confermato il suo talento per il cinema. Del resto, me lo rivedo davanti agli occhi, ancora piccolino, che gioca con i burattini e improvvisa storie e scenette mentre suo fratello suona il pianoforte. Forse è vero che la vocazione esiste e, quando c’è, si vede dal principio. Fare il regista è sempre stata la sua ambizione, e l’ha perseguita con l’intelligenza e con il cuore. Sasha Alexander, la sua bellissima moglie, fa l’attrice, sempre alla ricerca di un equilibrio tra il lavoro nelle fiction televisive e la cura dei bambini. Oggi, rispetto ai miei tempi, le donne probabilmente sono più fortunate, vengono giudicate sulla base di quello che sanno fare più che sul loro aspetto. Ma, aumentando la possibilità di scegliere, aumentano anche le difficoltà nel bilanciare famiglia e lavoro. Il mondo è più complesso, più esigente, e richiede alle ragazze grandi sacrifici, proporzionati alle soddisfazioni. Eppure, alla fine, si torna sempre allo stesso punto e ognuna di noi fa i conti con se stessa. Chi meglio di me può capire Sasha?

L’ho detto tante volte, e lo ripeto anche oggi: sono loro, i miei figli, i miei film migliori. Ed è la loro felicità il premio che mi onora di più.

«Mamma» mi disse un giorno Edoardo, sulla porta di casa. Carlo non era più tra noi, e Lucia, la loro prima bambina, aveva un anno scarso. «Mamma, io e Sasha ci sposiamo!»

Si sa, ho sempre avuto un debole per i matrimoni e quello di Carlo e Andrea, prima a Ginevra e poi nella stupenda cattedrale di Santo Stefano a Budapest, pur avendomi sciolto il cuore, non aveva esaurito del tutto il mio desiderio di veli e abiti bianchi.

«Che bello, Edoardo!» sussurrai felice di questa gioia che ormai non mi aspettavo più.

Lui mi guardava in silenzio, come per cedermi il passo.

«E dove?» chiesi timidamente, figurandomi una location holly-woodiana.

«A Ginevra, nella chiesa russa… Sai, Sasha è ortodossa, e poi a papà piaceva tanto…»

Carlo non era un uomo di chiesa, eppure per questa piccola e preziosa chiesina nel cuore della città vecchia provava una misteriosa attrazione. Quando usciva a passeggio con Edoardo, cosa che negli ultimi anni capitava spesso, faceva in modo di passarci sempre davanti. «Andiamo di lì…» diceva, quasi con pudore. E Edo sapeva che quel «di lì» significava l’Église russe. Non siamo noi a scegliere dove e come esprimere il soffio più sacro della nostra anima. La verità vera è che veniamo scelti.

TRIBUTI

A questo punto della mia vita, e della mia carriera, dietro ogni angolo si nasconde una festa, si cela una sorpresa. Come la serata tributo che, il 4 maggio 2011, Hollywood ha deciso di dedicarmi.

«Quando sento il nome Sophia salto, salto, perché è un’esplosione di vita. Come un bacio sulla guancia. È qualcosa di meraviglioso, potete vedere il mio cuore pulsare, il mio cuore battere, tu-tutu. Lei è molto Italia, molto italiana. Quando si muove, quando cammina, è l’Italia che cammina. Vedete muoversi la Sicilia, la Toscana, la Lombardia. E poi Milano, Firenze, Napoli, la torre pendente di Pisa, il Colosseo, la pizza, gli spaghetti, Totò, De Sica, c’è tutto dentro di lei.»

Le parole non sono niente in confronto ai gesti, alla mimica, alla comicità insita in ogni respiro di Roberto Benigni. Non contento, il grande comico, nel travolgente videomessaggio che mandò per la serata, attaccò a cantarmi una canzone sulle note di ’O Sole mio, per concludere con un saluto malandrino: «Grazie Sophia, amore mio, corpo inesauribile. Bye bye».

Meno male che c’era lui a buttarla sul ridere, altrimenti il fiume di lacrime non si sarebbe fermato più. Quella serata è stata per me come un terzo Oscar, per gioia, per importanza, per commozione. I miei figli a farmi da paladini, le mie nuore a rassicurarmi, Billy Crystal a condurre, John Travolta e Rob Marshall, Christian De Sica, Jo Champa, Sid Ganis e tanti amici a ricordare i nostri anni insieme. Tutto quanto un’attrice, una donna, una mamma possa desiderare.

Quello stesso anno, il 12 dicembre, all’Auditorium della musica di Roma, i ragazzi e io ricordammo Carlo e il nostro amore per lui in quello che sarebbe stato il suo novantanovesimo compleanno. Seduta in platea, guardando Carlo jr che dirigeva la colonna sonora della nostra vita, con la sua energia e la sua bravura, e Edoardo che le commentava con un breve e commovente discorso in forma di lettera, per un momento sentii placarsi il vuoto che la sua morte aveva lasciato. Sulle note del Dottor Živago, della Ciociara, della Strada, in compagnia della musica di Armando Trovajoli e Nino Rota, la nostalgia si trasformò in gratitudine per tutto quello che ci aveva condotti fin qui. E per un attimo fummo ancora tutti e quattro insieme.

Con le parole Edoardo dipinse Carlo più intensamente di qualunque immagine, di qualunque spezzone di film. Rievocò i nostri pomeriggi d’amore ad ascoltare Čajkovskij, le cene con Fellini, tra aneddoti toccanti, barzellette grevi e perle di saggezza innaffiate di vino, il tocco delicato delle sue grandi mani, che a lui bambino davano sicurezza. E, ancora, ci offrì un’immagine di lui di spalle, in vestaglia e pantofole, con le gambe al vento, mentre usciva di casa nella nebbia del mattino presto, per andare a vedere il suo roseto. Quel giardino era il suo orgoglio e la sua gioia: filari di rose rosse, rosa, bianche e gialle. Le curava tutte con quella sua attenzione, forte e delicata al tempo stesso.

«Perché ami tanto le rose, papà?»

«Perché le rose sono un po’ come i sogni, quelli grandi richiedono pazienza e duro lavoro.»

Carlo non c’è più, ma continua a ispirare le nostre passioni e a tenerci uniti nel suo ricordo. Io e i ragazzi viviamo lontani, ma ci vogliamo bene, ci seguiamo e ci inseguiamo per il mondo, ci pensiamo, ci aiutiamo, ci telefoniamo. E a volte ci facciamo dei regali bellissimi.

ALLA RICERCA DELLA VERITà

Alle soglie di questo mio compleanno così importante, Edoardo mi ha portato in dono un mio sogno di ragazza, un sogno che forse, almeno una volta, ha sfiorato tutte le attrici. Ma non si è limitato a questo. Lo ha pensato e ripensato con amore. Ed è questo suo amore il regalo più bello, coltivato con calma, per anni, in attesa che i tempi fossero maturi.

Oggi, dopo aver lavorato tanto, Edoardo è un regista sensibile e rigoroso, che fa dell’empatia la sua maggiore forza. Ama la gente, cerca di capirla, di interpretarne il viaggio. È quello che gli interessa: la verità dei sentimenti comuni.

A volte basta una conversazione di poche ore per darti il la e indicarti la strada.

A lui era successo con Miloš Forman, il grande regista di Hair e di Amadeus con cui ebbe la fortuna di parlare un pomeriggio ormai lontano. «Non importa che il dramma sia drammatico o che la commedia sia divertente» gli disse il Maestro quel giorno, con la semplicità che è solo dei grandi. «L’importante è che sia tutto vero.»

Edoardo non se l’è mai scordato e se lo ripete ogni volta che dice: «Motore, azione!».

Nel 2001 mi aveva diretto in Cuori estranei, la sua opera prima. Avevamo girato a Toronto, nel cast c’erano Mira Sorvino, Malcolm McDowell, Klaus Maria Brandauer. E soprattutto c’era lui, Gérard Depardieu, uno dei più straordinari attori che mi sia capitato di incontrare. Come Alec Guinness, come Peter O’Toole, Gérard appena apre bocca crea un mondo, con tutti i suoi rilievi e i suoi chiaroscuri.

Se nella vita è inquieto e sregolato, sul set è un grande professionista, gentile e concentrato. Al genio, al talento, unisce la precisione dell’artigiano. Conosce talmente bene la propria faccia che gli basta agire su un piccolo muscolo per cambiare completamente espressione. Proprio come il mio primo maestro, Pino Serpe! E poi il ritmo… Ha un tale senso del ritmo che non ha bisogno di prove: ogni sua prima scena girata potrebbe già essere quella buona.

In un’altra occasione, mi sarei persa a guardarlo, ad ammirarlo, a recitare con lui. Quella volta, però, avevo altro per la testa. Lì, a dirigermi, c’era mio figlio e non era un particolare da poco.

Non mi era stato affatto facile trovare il giusto equilibrio tra la mamma e l’attrice. Ancora più del solito, sentivo la responsabilità di dare il meglio in questo debutto di Edoardo, che aveva pensato una storia complessa, intrecciando le vicende di tre donne che si incontrano per caso all’aeroporto. Poi, una mattina, avevo capito quello che dovevo fare: era più semplice di quanto credessi.

Sembra buffo da dire, ma era stato tutto merito di un cane.

Quel giorno giravamo una scena che prevedeva il passaggio di un barboncino, da un lato all’altro della strada. Era un dettaglio banale ma importante, a cui Edoardo teneva molto. Bene, quel barboncino non ne aveva voluto sapere. Partiva, sollecitato dai suoi addestratori, ma poi in mezzo alla scena si fermava. O meglio, si impuntava. Non c’era niente da fare. Né biscotti, né croccantini, né urla, né strattonamenti, né guinzagli trasparenti. Niente, quel barboncino si paralizzava, lì in mezzo a tutti, forse per paura, o forse perché semplicemente gli andava così.

La sua testardaggine ci aveva costretti a rifare la scena tante volte, finché eravamo andati in automatico. Era stato proprio quell’automatismo quasi ipnotico a sciogliere finalmente il mio nodo di inquietudine. Guardavo Edoardo che, con pazienza, ricominciava ogni volta da capo. Era completamente assorbito dal suo ruolo. Non c’erano né madri, né mogli, né famiglie, per lui. In quel momento, c’erano solo il suo film, i suoi attori, la sua troupe.

Avevo compreso in quell’istante che sul set non contava la nostra parentela. Edoardo era il regista, e io l’interprete. Lui dirigeva e io dovevo limitarmi a recitare. Era sufficiente che lo ascoltassi e mi lasciassi andare. Era stato così che mi ero spogliata dei panni materni per concentrarmi sul copione e sulla mia verità di attrice.

Fu un’esperienza importante per entrambi, che ci arricchì come professionisti e rafforzò il nostro rapporto preparandoci ad affrontare insieme, più di dieci anni dopo, un’altra grande sfida, il suo regalo per me. La storia di una donna matura che, chiusa nella sua stanza, in una drammatica telefonata fatta di parole, di esitazioni, di silenzi, perde l’ultimo amore della sua vita e si sente finita.

MELANZANE ALLA PARMIGIANA

La prima volta che me ne accennò al telefono mi prese alla sprovvista.

«La voce umana? Intendi quella della Magnani, della Bergman, di Simone Signoret? Quella di…»

«Mamma, è inutile che mi fai tutto l’elenco. Certo che intendo quella. La voce umana. Di Cocteau.»

Dentro di me esplose, come al solito, la guerra.

«Che bello, la sogno da sempre, da quando ragazzina la vidi fare a Nannarella!» E subito, puntuale, il controcanto: «Ma sarò all’altezza?».

Conoscendomi bene, sfrondai questo groviglio da tutti i suoi orpelli e mi tenni il suo cuore più prezioso: quell’entusiasmo di novità, quella paura “della prima volta” che mi porta a recitare ogni film come se fossi un’esordiente. Mentre lavoravo su di me, Edoardo pensava alla produzione, alla location, alla sceneggiatura, al taglio che voleva darle.

Cominciò tra noi quel discorso che si sviluppa intorno all’embrione di un progetto e va crescendo in cerchio. Un discorso pieno di divagazioni, vitale e creativo, che sempre accompagna la nascita di un film e accende l’immaginazione, i sentimenti.

Tutto dentro di me era illuminato. Era da molto che non mi succedeva.

Mi venne la tentazione di rivedere le interpretazioni delle tante attrici che l’avevano fatta, pensando che mi avrebbero dato degli spunti.

«No, mamma, non ti fare influenzare» diceva Edoardo. «Ogni attrice ne dà la sua versione.»

Io ubbidivo, cercando di dire il meno possibile per ascoltare, dalla sua voce, che cosa si aspettasse da me.

Un giorno se ne uscì di punto in bianco: «E se fosse in napoletano?».

Non ci volevo credere. Era un pensiero così ardito, così delicato, così vicino a me, che mi commosse.

Edoardo, dall’altro capo del filo, intuì il mio silenzio e non se ne lasciò spaventare: «Sì, perché una donna abbandonata non può che parlare la sua lingua madre, la lingua di quando era bambina».

A tradurre la pièce di Cocteau fu Erri De Luca. Chi meglio di lui avrebbe potuto farlo? Sia io sia Edoardo lo amavamo come scrittore e ci fidavamo della sua penna limpida e asciutta, capace di scavare nel profondo. Ne parlammo con lui intorno a un tavolo e, poco tempo dopo, il testo era scritto.

«Ma come hai fatto, Erri, come hai fatto a fare così in fretta?» gli chiesi ammirata.

«Pensavo, sentivo la tua voce, e la tua voce mi dettava le parole» rispose lui con la sua scarna semplicità.

Ora stava a me interpretarlo al meglio. Questa volta, però, capii che il mio istinto non sarebbe bastato. Provammo per un mese e mezzo di fila, quasi fossimo a teatro. Attenti, concentrati, chiusi in una stanza d’albergo come in un camerino. E poi, finalmente, fummo pronti – ammesso che si sia mai davvero pronti – a cominciare.

Girammo a Roma nello studio De Paolis, quello di Una giornata particolare, poi a Ostia, la stessa spiaggia di Peccato che sia una canaglia, e poi finalmente a Napoli, tra Palazzo Reale, i vicoli del Pallonetto di Santa Lucia, lo storico rione Sanità, il Belvedere Sant’Antonio e Posillipo.

Sì, perché Edoardo, oltre al dialetto, aveva scelto di aprire la “stanza dell’abbandono”, in cui Cocteau aveva volutamente confinato il suo personaggio, alla città, al mare, a quei ricordi affilati – un profumo, uno squarcio, un tocco – che, come frecce, il cuore ti manda alla fine di un amore. Sono brevi flashback che si aprono fulminei per poi richiudersi subito sul filo di quel telefono che si attorciglia intorno alla stanza e al dolore di Angela. Al cuore di quei ricordi c’è l’amante, un Enrico Lo Verso che non a caso viene inquadrato solo di profilo, di nuca, da dietro, mentre la bacia appassionatamente quando ancora sono felici. Un uomo che viene dal Nord e spesso non capisce neppure la sua parlata dialettale. Un altro modo per dire che non può comprenderla e forse, anzi certamente, non la merita.

Lavorammo tanto, vincendo ritrosie e imbarazzi. Al nostro fianco Carlo, che ci sostenne nella scelta della musica, Guendalina, produttrice associata, Alex, che si è speso tanto nella post produzione del dvd. Ogni volta che mi giro a guardarci tutti insieme mi emoziono. Nella vita i dolori non si possono evitare ma si possono risolvere. E noi siamo diventati, nel tempo, una grande famiglia unita. Quanto a me, ormai avevo capito che dovevo essere attrice e non madre, ma non fu scontato lasciarmi andare davanti a Edoardo in un ruolo così esposto. Quando si viene abbandonati si rimane nudi, una nudità che dovetti smuovere dentro di me per poi recitare di fronte a lui, superando quel pudore che un figlio di solito richiede.

Anche lui, immagino, avrà fatto fatica. Da regista, cercava la verità. E, conoscendomi bene, mi ha spremuto fino a trovarla. Fu così che, al termine di una scena particolarmente dura, continuai a piangere anche dopo lo «Stop!». Piangevo e piangevo, ma non ero la sola. Andandogli incontro, mi accorsi che stava piangendo anche lui.

Nel film, rispetto all’originale, c’è anche un’altra apertura, che non dà speranza ma, come un contrappunto tutto napoletano, misura la distanza tra la disperazione e quella normalità ormai perduta. Mentre il dolore si trasforma in lutto, nell’altra stanza la governante apparecchia la tavola per due e, come ogni martedì, sforna le sue melanzane alla parmigiana. Il piatto della casa, dell’amore, della condivisione. Il piatto che rappresenta la forza, la determinazione di Angela, pur nella sconfitta. Il piatto che ha condito la mia vita e che oggi rende ancora più umana la mia voce.

«Signo’, sono le otto e un quarto. Io me ne vado…»

C’ERA UNA VOLTA

In fondo a questa lunga strada si apre il futuro, ancora pieno di sogni. Tornare a Napoli, nella mia amata città, tra la mia gente che mi acclamava festosa dai balconi, mi ha fatto tornare ragazza, mi ha reso felice. Ma se mi ritenessi del tutto appagata sentirei il peso della vita. Vivere invece è proporsi ogni giorno nuovi traguardi.

Mi lascio andare ai miei pensieri, inciampo in un progetto che sto coltivando da un po’… Ma ora è tardi, bisogna che provi a dormire qualche ora. Domani è la Vigilia di Natale, la mia famiglia mi aspetta.

Sto per chiudere il coperchio del mio baule quando mi ritrovo in mano due fogli stinti, che parlano di me. Forse li ho scritti io, chissà quando, chissà perché. Inizio a leggere mentre fuori il mondo si addormenta nella neve.

C’era una volta una bambina dalle gambe magre, gli occhi immensi, una bocca inquieta.

C’era una volta una bambina che amava ogni filo d’erba esistente della natura, il brutto, il bello.

C’era una volta una bambina nata in un nodo di radici amare nel cui fiore scoprì il mondo – montagne da scalare – strade da percorrere.

C’era una volta una giovane che amò l’ampio universo tutto suo – tutto da percorrere.

C’era una volta una donna che volle vincere tutte le paure e vivere nel mondo con gli occhi immensi e la bocca inquieta.

C’era una volta una donna che diventò attrice dando nello spettacolo per gli altri i mille volti sognati e forse mai vissuti.

C’era una volta una donna che volle esser moglie – fu così dura e difficile da raggiungere.

C’era una volta una donna che volle essere madre come tutte le altre donne e avere dei bambini tutti suoi.

C’era una volta un’attrice che interpretò molti film – furono tutte vette da raggiungere. Non tutte le vette sono l’Himalaya, come non lo sono tutti i film… Ma tutti furono degni di essere vissuti.

C’era una volta una vita amara e stupenda che una bimba, una donna e un’attrice continuano a ripetersi.

Ci sarà sempre una volta per ogni bimba che guarderà il mondo con occhi immensi e con questa ansia di vita.