Da qualche anno lavoro in Rai. Non come stipendiato fisso, ma come collaboratore occasionale, nel senso che ogni tanto mi chiamano per condurre un programma o esserne tra gli autori. E in più di un’occasione, durante quelle esperienze, ho incrociato delle persone alle quali mi sono presentato molto superficialmente.
«Molto piacere.»
Si trattava sempre di signori coi capelli a volte bianchi, a volte brizzolati, a volte neri. A volte con gli occhiali, a volte senza. A volte alti e a volte bassi. Questi individui che ho brevemente incontrato avevano una cosa in comune: erano tutti il capo della Rai.
Una volta ero a Rai 1 per una delle mie prime esperienze da autore e in studio arrivò un signore a controllare che tutto andasse per il meglio. Me lo presentarono e, quando andò via, mi dissero: «Capito chi è quello? Quello è il capo della Rai».
In seguito, sempre come autore, lavorai a un piccolo programma per famiglie che andava in onda la domenica (una roba che mi permise d’acquistare diverse confezioni di tisane calde per l’inverno). Anche lì incontrai un signore. Un altro signore che mi dissero essere il capo della Rai.
«Piacere mio.»
Tempo dopo lavorai come autore e attore all’interno di alcuni sketch per un programma di Rai 3. All’interno delle sceneggiature che avevo consegnato al capoprogetto comparivano vari nomi e cognomi di personaggi di fantasia. Uno di questi si chiamava come un mio amico dell’università. Mi chiesero di cambiarlo poiché aveva lo stesso cognome del capo della Rai e poteva sembrare una cosa fatta apposta. Si chiamava comunque diverso dai primi due che avevo incrociato in precedenza.
Giunsi poi a Sanremo, in occasione del (passatemi il termine) festival della bella canzone italiana. Stavo presenziando alla conferenza stampa in quanto parte del cast del Dopofestival e qui mi presentarono un signore alto e con addirittura la cravatta. Dopo un po’ mi dissero che era il capo della Rai.
Al termine della kermesse ci fu un vincitore e a dargli il premio fu un altro individuo ancora che il presentatore definì a gran voce «il capo della Rai».
Mesi dopo, condussi finalmente il mio primo programmetto televisivo. Poco prima della messa in onda della prima puntata, mi arrivò un sms di «in bocca al lupo». Mi arrivò da un numero sconosciuto che mi spiegarono essere il numero del capo della Rai.
Ma come faceva ad avere il mio numero?
«Gliel’ho dato io!» mi rispose una persona che avevo di fronte. Aveva le sopracciglia grigie ed era calvo e con la testa a rettangolo. «Sono il capo della Rai» aggiunse.
L’uomo andò via e, una volta scomparso, due tizi mi vennero a dire: «Capito chi è quello? È il capo della Rai».
In questo fantastico mondo del jet-set (che si scrive senza il trattino in mezzo ma non posso tornare indietro per cancellare) è così: non si fa in tempo ad abituarsi e, perché no, ad affezionarsi a nessun capo della Rai.
Ho imparato che ci sono stati dei momenti della mia vita in cui anche io, probabilmente, sono stato il capo della Rai agli occhi di qualcuno.
Lo siamo stati e lo saremo tutti: noi, i nostri genitori, la ragazza che ci piaceva alle elementari, il bullo delle medie o il nostro collega più silenzioso.
Almeno una volta, nei nostri lunghi archi vitali, c’è stato un momento in cui abbiamo stretto la mano a qualcuno e subito dopo è arrivato un altro, di sottecchi, a dirgli che noi eravamo il capo della Rai.
Molto spesso un rumeno.
Senza generalizzare.