La grande quantità di carburante che viene immessa nei motori degli autobus non viene sempre bruciata in modo regolare. È per questo che spesso i veicoli emettono degli improvvisi e violenti sbuffi di residui carboniosi di gasolio incombusto. Degli scoppi sgradevoli che, a seconda della distanza che mi separa dalla loro fonte, mi risultano più o meno traumatici.
Parte dello spavento è determinata anche da quanto io sia assorto nei miei pensieri.
È ancora giovedì. È tardi. Aspetto l’N-92 per rincasare. Mentre rimugino su alcune dinamiche non chiare nel mio rapporto con Greta, lo sbuffo brutale e inaspettato dell’autobus mi fa esplodere timpano e cassa toracica in pochi istanti.
Salgo a bordo stordito, cercando di camuffare la coda di una bestemmia. Anche se, a quest’ora della sera, autocensurarsi è uno scrupolo inutile: quasi nessuno dei passeggeri parla la mia lingua o ha le energie sufficienti per indignarsi di qualcosa. In grado di comprendermi c’è solo un manipolo di italiani pubescenti e sudati, l’audience perfetta per una dose inattesa di imprecazioni notturne. Il resto della platea è composto da sette stranieri, un vagabondo e due donne distrutte che sembrano l’una la badante dell’altra.
Continuo a pensare a Greta. Non in maniera ossessiva, sia chiaro. Sono dieci giorni che non ci vediamo, ma del resto non stiamo assieme. Siamo giusto usciti qualche volta, poi lei è andata per un paio di settimane a New York. Più che legittimo. Aveva i biglietti prenotati da tempo. Per me, nessunissimo problema.
Ci siamo sentiti per telefono dieci minuti fa, poco prima che l’N-92 mi sbuffasse in faccia tutto quel carbonio. Mi ha raccontato della casa newyorkese dei suoi nonni materni (si trattava dei genitori di suo padre, ma lei li definiva materni perché molto premurosi), accanto all’enorme negozio M&M’s di Times Square.
L’entusiasmo che traspariva dalla sua voce mi ha in qualche modo irritato, ma in fondo sono contento di saperla felice, lassù in America.
Dico lassù perché forse l’America l’ho sempre considerata sopra di me. Anche se in questo preciso momento New York è alla mia sinistra. Adesso invece ce l’ho di fronte. Ora New York è a destra. Per un attimo ce l’ho di nuovo a sinistra e poi di nuovo a destra. Di nuovo a destra?
È evidente che l’N-92 sta facendo un percorso diverso dal solito.
«Mi perdoni» chiedo al conducente, «ma questo non ferma più in viale XXI aprile?»
«Viale che?»
«Viale Ventuno aprile.»
«C’è la deviazione! È da una settimana che c’è la deviazione!»
L’autista ha l’insofferenza di chi non ne può più di relazionarsi con un tizio che si ostina a non essere un suo collega. Mi allontano senza ringraziarlo. Trattengo il fastidio fino alla prima fermata disponibile e scendo dall’autobus: un altro sbuffo mi saluta perforandomi il cranio come un proiettile.
Adesso mi trovo in via Tagliamento, una zona lontana da casa mia e mal collegata.
Una zona mal collegata di Roma, non di New York.
Via Tagliamento, non Times Square.
E allora che diavolo ci fa Greta qui, a quest’ora di notte?
È di spalle, a venti metri da me. I suoi capelli rossi ondulati, la sua giacchetta di renna anni Settanta e il fermaglio a forma di ananas non lasciano dubbi. È lei.
Greta è lì, da sola. Mi ha mentito sul suo viaggio a New York, mi ha mentito quando ha detto d’esser partita e mi ha mentito anche mezz’ora fa quando ci siamo sentiti per telefono.
Una bugiarda, ecco cos’è.
Non so se sentirmi più ferito o sconvolto. Prendo coraggio e le vado incontro. Lei non si è ancora accorta di me. La chiamo con un tono calmo ma severo.
«Greta!»
Lei si volta, rivelando un volto totalmente inaspettato: pelle rugosa, occhi neri anziché verdi, denti sporgenti e un paio di occhiali da vista che Greta non ha mai indossato prima. Come nel più stantio cliché da commedia americana, ho scambiato una donna di spalle per un’altra.
«Santo cielo, Greta, scusami davvero, che figuraccia!» dico imbarazzato a quella sconosciuta. «Vedendoti da dietro ero davvero convinto che fossi tu.»
«Ma sei ubriaco per caso?» mi domanda lei. «Ci siamo sentiti mezz’ora fa ed ero dall’altra parte dell’oceano, come potrei adesso stare qui, in via Tagliamento che manco so dove sia?»
«Sì, lo so, hai ragione Greta, ma ti giuro, parevi identica: stessa giacchetta di renna, stessi capelli…»
«E avrei questa faccia da vecchia io?» mi chiede inarcando un sopracciglio. Forse si aspetta un complimento.
«Ma che c’entra? Neanche te l’avevo vista la faccia, eri di spalle! Ma poi, guarda! Hai lo stesso identico fermaglio a forma di ananas. Quante possibilità c’erano?»
L’anziana si toglie il fermacapelli dalla testa e lo ispeziona per qualche secondo. Finita l’analisi, mi guarda dritta negli occhi e comincia a puntualizzare.
«Tanto per cominciare, io ho i capelli molto più lunghi di così, e poi non ho mai avuto un fermaglio del genere. Ti confondi con la spilla a forma di fragola.»
«Ah, oddio, è vero, ricordavo fosse un ananas.»
«Certo» ridacchia, «quando si dice essere attenti ai dettagli…»
«Quando si dice?»
«Cosa?»
«Quando si dice essere attenti ai dettagli?»
«Quando lo si è, tendenzialmente» mi incalza l’estranea. «Ma scusa… Pensavi che non era vero che sono in America dai nonni apprensivi?»
La domanda mi rende ancora più impacciato di quanto io già non lo sia.
Sì, in tutta sincerità a me quel suo viaggio non è andato proprio a genio. Non ho mai avuto il coraggio di dirglielo apertamente, ma una parte di me avrebbe voluto che lei non ci andasse proprio a New York in quei giorni.
«No, Greta. Non lo pensavo assolutamente. Ma cerca di capirmi, avevi anche lo stesso portamento, la stessa cammi-nata.»
«Credevi che mi fossi inventata il viaggio e tutto il resto per non vederti più?»
Pur di mostrarmi meno fragile, la butto sul cinismo.
«Fa schifo questo quartiere, vero?»
«Non ti so dire, sto a New York» mi risponde la vecchia alzando le spalle.
«Che ore sono lì da te?» le chiedo.
«Te l’ho detto prima al telefono, stiamo per cenare, sono le nove adesso. Dai, ci sentiamo uno di questi giorni?»
Faccio sì con la testa, anche se avrei preferito continuare a parlarle per rigirare la conversazione a mio vantaggio. Potrei riuscire a sembrarle più disinvolto e sicuro di me stesso. E invece no, mi sono bastate due parole per lasciare emergere tutta la mia goffaggine e mettermi in una posizione di svantaggio nei confronti di Greta. Proprio adesso che ho capito che mi piace per davvero. Il fatto di sentirmi così paranoico davanti a lei è un segno inequivocabile.
Io e la vecchia con gli occhiali ci squadriamo per qualche secondo, poi ci baciamo in bocca.
Con la lingua, facendo rumore, come nei brutti film italiani.
Dopo qualche secondo, ci stacchiamo. Ancora un paio di sguardi timidi e ci allontaniamo l’uno dall’altra, tenendoci le mani e lasciandocele lentamente. Uno schifo.
Ci sorridiamo e poi ognuno per la sua strada, io verso casa a piedi, la signora non lo so. Mi pare si chiamasse Ersilia o qualcosa del genere, non ricordo, molto gentile peraltro.
Dopo dieci minuti, mi arriva un messaggio di Greta.
«Non mi aspettavo di incontrarti stasera. È stato davvero bello... G.»