I ricordi più nitidi della mia infanzia si collocano quasi tutti tra il 1997 e il ’98. I film, le trasmissioni televisive e i fatti di cronaca che più hanno lasciato un segno nel mio immaginario appartengono a quel biennio. Ogni momento di quello che per me fu il periodo di transizione dalle elementari alle medie era cadenzato dai singoli del sottovalutatissimo album “Be Here Now” degli Oasis, dall’encomiabile “Urban Hymns” dei Verve, dall’intero LP di esordio degli Aqua e da qualche canzone bella dei Radiohead di cui ho sempre faticato a ricordare i titoli.
Se il tempo fosse un punto nel mondo e il pop fosse il blues, quel periodo sarebbe New Orleans. Ma per me il vero sottofondo di quel periodo non erano i dischi britpop. Erano i telegiornali. In una casa con due genitori e un solo televisore, i tg erano una minaccia costante, sempre pronti a interrompere un bel cartone animato con le loro notizie, che non sia mai ce le dovessimo perdere.
«Cambia canale, sul primo c’è il tiggì!»
«Metti sul terzo, fanno il tiggì adesso!»
«C’è sempre un tiggì!»
«C’è un tiggì bello? Cambia canale che dall’altra parte c’è un tiggì peggio, così ci vediamo quello!»
Non amavo i notiziari all’epoca (in realtà nemmeno adesso), ma alcune delle news e delle parole chiave che sentivo ripetere in quei mesi sono rimaste impresse nella mia memoria. Ancora oggi, nomi come Yasser Arafat e Slobodan Milošević mi suonano familiarissimi, pur non sapendo associarvi dei volti. Era il periodo dei terremoti in Umbria e nelle Marche, della vittoria dei Jalisse al Festival di Sanremo, della morte di Madre Teresa di Calcutta e quella dell’autista Henri Paul (con lui in macchina durante l’incidente c’erano anche Dodi Al-Fayed e la sua fidanzata Diana Spencer).
Avevo undici, dodici anni e ricordo che negli Stati Uniti d’America il presidente si chiamava Bill Clinton. Era stato coinvolto in uno scandalo sessuale. Si era unito carnalmente a una femmina diversa da quella che aveva sposato. Una cosa del genere nell’anno centomila non sarà più un problema, ma nel lontano 1997 lo era eccome, specialmente se c’era di mezzo il presidente americano.
La donna coinvolta nell’adulterio era una stagista molto giovane, una ventenne che, di colpo, si ritrovò catapultata davanti al mondo intero. Per anni e anni, fino ai giorni nostri, i media hanno calpestato l’identità di quella donna in tutti i modi, depauperandola di qualsiasi sfumatura di personalità. Un pupazzetto monodimensionale da associare, per tutta la vita, solo al cosiddetto Sexgate e al relativo «sessoràle».
Internet già c’era: si era insidiato timidamente da poco tempo. Quel poco che bastava a mietere le prime giovani vittime, come quella stagista, ma non a sufficienza per permettermi di scoprire (con chissà quali lerci risultati) cosa significasse l’espressione «sesso orale». La sentivo pronunciare costantemente nei tiggì, con quella stessa disinvoltura con cui fino a un mese prima dicevano «Slobodan Milošević».
E non si trattava di peccaminosi telegiornali trasmessi su Tele Saturno a notte fonda e condotti da un magnaccia, ma telegiornali normalissimi. Quei notiziari pomeridiani di Rai 1 che bisognava guardare per forza, a costo di interrompere i ben più divertenti telefilm che guardavo sui canali dell’all’epoca sessantaduenne Silvio Berlusconi.
Giornalisti veri, professionisti incravattati, mezzibusti rispettabili come Marcello Sorgi e Giulio Borrelli si trovavano costretti in questo limbo tra la politica estera e il peggior gossip. Dovevano, per contratto, parlare di questo sesso orale che veniva dall’America. E cercare di non tradire emozioni, risolini o rossori nel pronunciare quelle parole. Proprio come se stessero dicendo «Fausto Bertinotti».
Io ero un bambino e non avevo idea di cosa significasse quell’espressione, tema centrale di una vicenda dalla quale sembrava dipendessero le sorti dell’Occidente. Sulle prime, mi sembrò d’aver sentito «sesso ovale», magari come riferimento alla stanza in cui Clinton e la giovane stagista si incontrarono.
Di che cosa fosse il sesso, un’idea vaga me l’ero fatta. Alle elementari ci avevano mostrato delle diapositive agghiaccianti. Ce le fece vedere una suora più spaventata di noi. Facevano effettivamente schifo. Del sesso orale, però, non si era mai parlato prima.
Così, l’ennesima volta che sentii quelle due parole uscire dalla bocca di un anchorman, decisi di chiedere cosa volessero dire. Non mi trovavo a casa mia, ma a pranzo da Manuele Tanzillo, un mio amico dell’epoca. Manuele e io frequentavamo lo stesso oratorio la domenica pomeriggio e la sua famiglia era amica della mia. Quel giorno ero a pranzo con lui, con i suoi genitori e la sorella più grande.
«Ma che significa “sesso orale”?»
Lo chiesi candidamente, accavallandomi al flusso di parole del Tg1.
Manuele mi fece eco: «Sì, davvero, che significa?» evidentemente solleticato dalla stessa curiosità.
Al tempo non potevamo rendercene conto, ma i genitori di Manuele si guardarono tra loro imbarazzati: avrebbero fatto volentieri a meno di sentirsi porre quella domanda. Perlomeno quel pomeriggio.
«Sesso orale… è sesso parlato. Fatto a voce» disse il papà di Manuele. «Magari al telefono… orale in quel senso… Tutto qui!»
Quella risposta aveva disteso gli animi di tutti. Le donne presenti sembravano sollevate, il timore del gelo incombente era stato spazzato via. Anche Manuele e io eravamo piuttosto soddisfatti e rasserenati. Ci spiaceva solo per Clinton e la sua amante, rovinati e messi alla gogna per aver scambiato due chiacchiere.
Il dubbio, però, riemerse pochi secondi dopo.
«In che senso parlato?» chiesi ancora al papà di Manuele.
L’uomo dette l’ultimo morso alla sua scaloppina al limone, guardò di nuovo la moglie in cerca di un aiuto per condire meglio quella menzogna a fin di bene.
«Significa che non hanno fatto sesso» tagliò corto. «L’hanno fatto solo in maniera retorica. Sesso parlato… Capito? Praticamente… è come quando tu dici a un’altra persona delle frasi tipo: “Ti vorrei prendere e spogliare, leccarti lì dove tu neanche credevi fosse possibile, vedere la goduria nei tuoi occhi, ascoltarla nei tuoi gemiti, impregnarmi del tuo odore. Vorrei affondare dita, mani e lingua negli anfratti più reconditi del tuo corpo bollente e lussurioso e poi fotterti, Dio santo! Fotterti fino a farmi implorare di smettere e continuare al contempo, mandarti in un’estasi di lussuria e godimento, prenderti come fanno i cani, far fondere il tuo pianto con la tua gridata lussuria, e poi continuare, continuare, ancora e ancora finché il piacere ci avrà divorati, e allora esausti ci stenderemo sulle nostre schiene imperlate di sudore, finalmente in sincrono con il respiro del mondo…”»
«Ho capito» risposi.
Tornammo a mangiare le scaloppine al limone.
Dopo qualche mese, Clinton dovette pagare una multa e cambiò lavoro.
La famiglia Tanzillo non la vidi mai più. Mia mamma diceva che erano gente da allontanare.