Ornamento di separazione

LE ANITRE

Timido e opalescente, un lieve e insolito bagliore comparve nel cielo mattutino di Ulricehamn, un evento rarissimo nella gelida cornice della contea di Västra Götaland. Era il 9 giugno del 1995 quando quel raggio di sole squarciò il grigiore come una luna aliena, rivelandosi del tutto inatteso come un parente lontano a Natale. Come un padre dimenticato che riabbraccia uno per uno i suoi figli senza ricordarne i nomi, regalando loro l’illusione di essere uno di casa, di essere tornato per restare: un volto a cui potranno riabituarsi, e che invece – di lì a poco – sparirà nuovamente, con la vaga promessa di tornare chissà quando. Forse riapparirà a sorpresa, durante un fortunato pomeriggio d’agosto, lasciando nel frattempo spazio a un cielo grigio perlaceo.

Un vento pungente pettinava dolcemente le chiome dei ginepri. Per Ludwig Möndell, quella poteva quasi definirsi estate.

Al centro del giardino della sua casetta sorgeva un laghetto artificiale di pochi metri quadri. In quella piccola pozza, lanciandosi da un tronco mozzato che usavano come trampolino, Ludwig e i suoi fratelli avevano vissuto alcuni dei momenti più allegri della loro infanzia, sguazzandovi tutte le rare volte che l’inclemente clima svedese glielo aveva concesso.

«È estate! Se non lo faccio ora, quando?»

A questo pensava Ludwig, mentre prendeva la rincorsa per montare sul tronco e tuffarsi nell’acqua gelata.

Che fosse un po’ fuori di testa lo sapevano tutti. Lo sapeva anche Annie, la sua ragazza, alla quale aveva chiesto di immortalare la scena con la loro videocamera Yashica. Una corsa, un salto, uno strillo di entusiasmo, il volo e poi… il tonfo sordo del cranio (risate), delle spalle, dei talloni e dell’addome che – come un unico sgraziato ammasso – si abbattono su una lastra di ghiaccio dura come il marmo (risate).

Quel marmo che Ludwig credeva poter ancora essere acqua, magari gelata, ma liquida.

In quella che, per Ludwig, doveva quasi definirsi estate.

Il brano è giunto alla sua conclusione, ma per qualche secondo l’attore Giuseppe Battiston tiene ancora lo sguardo sul leggio. Poi alza gli occhi verso il pubblico che, puntuale e garbato, tributa il suo applauso alla scrittura e all’interpretazione.

Con un professionale movimento del braccio, l’attore udinese si premura di far confluire l’applauso anche in direzione delle tre violoncelliste che hanno accompagnato la lettura. Lo studio si illumina di colpo e Battiston cede il palco a Valerio Mastandrea: folta barba rossa, occhiali da vista con montatura in osso e una camicia bordeaux lievemente larga. L’attore romano è pronto per leggere la breve vicenda di un ciclista ucraino che, distrattosi a pochi istanti dalla vittoria, si cappotta in curva sul guardrail e cade rovinosamente in una scarpata di quattro metri.

Un esperimento coraggioso, ma non così azzardato, quello di Rai 3. Mandare in onda in seconda serata il progetto che, da anni, giaceva nei cassetti di viale Mazzini: Paperissima Chic. Una striscia giornaliera di venti minuti che offre una rivisitazione del grande classico di Antonio Ricci in una chiave finalmente di sinistra.

La storia del progetto Paperissima la conosciamo tutti. Il programma nacque in Fininvest nel 1990, liberamente ispirato alla celebre raccolta di novelle Le Anitre di Salvatore Ronciglioni (Jurij Edizioni, Genova 1978). Per anni e anni, l’opera del Ronciglioni è stata riproposta sulle frequenze del quinto canale. Grazie ad abili stuntman, location grottesche e cineprese amatoriali, tutti gli incidenti, le gaffe e le strambe situazioni tra animali domestici che la felice penna dello scrittore ligure aveva messo su carta sul finire degli anni Settanta, sono stati messi in scena quotidianamente per la gioia di tante generazioni di telespettatori.

La Rai, Radiotelevisione Italiana, ha voluto finalmente restituire al capolavoro ronciglioniano il tratto marcatamente letterario della sua forma originaria. Quello stile che col tempo il pubblico della televisione generalista aveva iniziato a dimenticare.

Durante i titoli di testa non possono certo passare inosservati i nomi rimescolati dei due conduttori: Serena Fazio e Fabio Dandini. Una stranezza in grado di lasciar sbigottiti anche gli spettatori più reattivi, ma dopo neanche due secondi, nomi e cognomi vengono rimessi al loro posto grazie a un provvido giuoco di grafica. Un espediente che fin da subito sottolinea la natura e l’intento del format: un programma basato sulla svista, sull’incidente di percorso, come nei piccoli disastri del quotidiano che Ronciglioni aveva magistralmente raccontato nelle sue pagine.

Memorabile la chiusura della prima puntata, nella quale una radiosa Serena Autieri – senza farci rimpiangere la sua interpretazione di Elvira Donnarumma, indiscussa regina dei café-chantant napoletani d’inizio Novecento – ci regala la sua personale lettura de La gatta fin troppo affettuosa, fulminante novella che chiudeva la raccolta de Le Anitre.

Non erano nati per stare assieme. No no no… Ma quello proprio non ne voleva sapere.

Non erano nati per amarsi. E, anzi, la natura li voleva nemici, preda e predatore.

Sissignor’, prer’ e prerator’, uh!!

Ma l’inerzia… l’inerzia era tutto per Rambo: un pigro, pigrissimo labrador retriever.

Mentre Sophie no. No, quella, Sophie, era una gatta persiana sciantosa di due anni, sissignore! Dùje anne!!! E teneva una spasmodica voglia d’attenzioni!

«Vavatténne, io non ti voglio» abbaiava annoiato Rambo. Ma a nulla serviva quell’imperativo, perché Sophie non ci voleva sentire e continuava a cercarlo.

«Fammi stare qui. Noi dobbiamo rimanere uniti. Je te vògghju bbène… Dobbiamo stare vicin’… vicin’ vicin’…

«V’cin’…

«V’cienz’…»

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