Il fatidico sabato è arrivato. Sarà il giorno più bello della nostra vita.
Ieri sera ho programmato quattro sveglie per le otto e mezza del mattino: una sull’orologio da polso, una sulla radio in cucina, una su Alexa e una sul cellulare. Eppure sono già in piedi, mezz’ora prima che inizi l’inevitabile polifonia di allarmi.
Mi butto sotto la doccia, l’acqua è della mia temperatura preferita. Con l’immaginazione batto il cinque al me stesso di ieri sera che si è ricordato d’accendere lo scaldabagno prima di andare a dormire. Mi svuoto in testa mezzo flacone di shampoo alla biotina e penso a lei, che forse è già sveglia da tre ore, circondata dalle sorelle. Mi strofino la cute con del balsamo rigenerante all’olio d’argan e mi chiedo se qualche sua amica invadente non stia cercando di farle cambiare idea proprio adesso. Mentre la moringa e la cheratina donano elasticità al mio capello, io non vedo l’ora di essere con lei. Vorrei baciarla subito, far partire in questo stesso istante l’inizio della nostra vita insieme. Ma non mi è concesso, devo aspettare il momento dell’altare, quando la vedrò – magnifica! – arrivare accompagnata dal papà Rodolfo. Lui non ha mai voluto che io lo chiamassi papà, chissà che non cambi idea proprio oggi.
Oggi che diventerò un uomo.
«Uomo.»
È scritto a caratteri cubitali sull’elastico delle mutande pulite che sto per indossare. È l’unico mio indumento di oggi per il quale non ho speso uno stipendio. Sulla sedia ai piedi del letto, pronti da ieri pomeriggio, appaiono in ordine: pantaloni Wilvorst grigi in pura lana vergine, camicia bianca da smoking Henk ter Horst in fine popeline, gilet tight Trussardi color ghiaccio, blazer Ralph Lauren nero con cravatta grigia che fu di mio nonno. Indosso tutto con attenzione, mi guardo allo specchio e prima di uscire di casa provo un inedito orgoglio. Entro nell’ascensore e premo il tasto T, dalla porta vedo scorrere verso l’alto il quarto piano, il terzo, il secondo, il primo, premo Alt, torno al quinto. Ho dimenticato di mettermi le scarpe.
Derby nere in pelle di vitello Dior. 224 euro.
Riparto.
La Braccianense è semideserta e la mia Volkswagen Tiguan di seconda mano la percorre alla velocità moderata di sempre. Arrivare prima non serve a nulla, se la sposa è sempre l’ultima ad arrivare. In trentasette minuti raggiungo il parcheggio accanto alla Chiesa della Vergine delle Grazie. È stata costruita nel 1400 dalla famiglia baronale dei Prefetti, Signori di Vico, originariamente come cappella. Nel 1724 fu ampliata per poter ricevere più fedeli.
La chiesa l’ha scelta lei: ne voleva una che avesse una villetta non troppo lontana, per fare il ricevimento subito dopo, senza doversi rimettere tutti in macchina. Nella decisione della location, chiaramente, non ho avuto voce in capitolo. Tuttavia, devo ammettere che la sua scelta si è rivelata piuttosto razionale. Anche perché, per me, una chiesa vale l’altra.
Sono arrivato per primo. Studio l’interno della struttura disegnando col pensiero il momento esatto in cui la prenderò, la bacerò davanti a tutti e la farò mia per sempre. Davanti ai genitori, ai nostri amici, alle sue amiche, davanti a quel cretino di Elio Rossano, davanti al prete e all’organista.
Il giorno più importante della nostra vita.
In una mano ho il cellulare, inserisco ripetutamente il pin e spengo lo schermo, riaccendo lo schermo e rimetto il pin; con l’altra mano mi trovo a tormentare un lembo del mio gilet Trussardi ghiaccio in un punto dove comunque non si noterebbero eventuali logorii. Spengo il cellulare, vado verso una fontanella. L’erogatore è di quelli in inox che spruzzano acqua calda ovunque. Bevo, sputo, lascio scorrere, bevo di nuovo, inghiotto mezzo litro di calcoli renali in brodo, faccio tre volte il giro della chiesa, ne esamino il perimetro per capire in quale punto fu fatta l’opera d’ampliamento del 1724, salto quattro volte su me stesso, comincio a pensare a lei, ai suoi capelli, penso alla chiesa, al buffet, alla Braccianense deserta, alle scarpe di Dior, alle amiche di lei, ai messaggi sul cellulare, alla paura, alla vita assieme, al parto, al parto cesareo, ai figli piccoli, ai figli grandi, ai fratelli piccoli, alla gelosia, alla scuola, ai colloqui con gli insegnanti, al futuro anteriore, ai vaccini, alla salute, alla malattia, alla morte che non ci separi, al cancro, alle analisi, ai litigi, al lavoro, al sesso dopo i litigi, alla disoccupazione, alla fine del sesso, alle sedute psicoterapeutiche individuali o di coppia, alle cene con gli amici con cui non hai più confidenza, alla bottiglia di vino in regalo, non dovevate, alle cene coi suoceri, agli anniversari dimenticati, alle telefonate troncate rientrando a casa, ai parenti che muoiono, alla vecchiaia, dica lo voglio, lo voglio.
Voglio andare via, che ci faccio qui? Sparisco e da domani sono una persona normale. Sono pazzo a pensarlo, non sono pazzo. Sto tranquillo. Tranquillissimo. Io la amo e questo è il giorno migliore di tutti. Il mio, il suo, il nostro.
È tutto nella prassi. Si chiama panico dell’ultimo minuto: una cosa normalissima. Ci fanno i film su quelli che hanno i dubbi all’ultimo minuto.
Nel frattempo stanno arrivando gli invitati. Sono troppi, alcuni neanche li riconosco. Carico un’ansia nuova e diversa dalla prima, mi nascondo per un po’. Riaccendo il cellulare, modalità aeroplano e metto un giochino. Se frantumo tutti i mattoncini vinco un milione ed è il giorno più bello della nostra vita, se perdo tutte e tre le palline mi caco addosso in televisione. Passo trenta minuti giocando e pensando a queste cose mentre intanto la chiesa si è riempita.
E sono dentro anche io, sorrido. Non sono più nervoso. Anche se tutti mi guardano, io sono tranquillo. Lei sta per entrare. Preceduta da paggetti e damigelle, eccola lì.
È tutto come lo immaginavo, tranne la musica. Nella mia testa questa scena aveva come sottofondo la marcia di Wagner fusa con quella di Mendelssohn, non di certo con il ricercatissimo e ben più elegante Canone in Re Maggiore di Johann Pachelbel. Questa cosa mi scombussola il progetto, ma resetto tutto e ritorno nel presente. Lei è qui. C’è un sottofondo diverso da come l’ho sognato in tutti questi anni, ma non cambia niente.
Mentre dolcissima alza lo sguardo, io le sorrido e i suoi occhi si gonfiano terrorizzati. Si chiama panico dell’ultimo minuto, ordinaria amministrazione, ci fanno i film per quanto è comune. Ne ho visti tanti di film, in televisione, al cinema, in videocassetta, in dvd, ma mai in blu-ray, io li odio i blu-ray.
Rodolfo alza gli occhi verso di me, lo chiamo papà e lui, con lo sguardo cerca nervosamente qualcuno tra i banchi della chiesa. Lei gli stringe le mani mentre continuo a guardarli. Guardo lei, guardo lui, guardo il nostro futuro assieme. Mi avvicino tra le strilla delle amiche che da sempre hanno remato contro di me, ma non oggi, amore mio! Accettino il nostro amore, quelle troie! Oggi siamo io e te, il resto del mondo saremo noi a seppellirlo.
Il prete non sa dove guardare. All’altare c’è Elio Rossano. Vestito da sposo sembra ancora più patetico del solito. Ci guarda e non sa che fare! La sua famiglia mi guarda, sono dei vermi da sempre. Lascia che mi guardino, lasciati andare, amore! Falli guardare, quei vermi!
Baciami, amore!
E voi levatemi queste mani di dosso!
Non vi conosco!!!
Fuggi con me, tesoro!!!
E voi, lasciatemi!!!
Lasciateci vivere il-giorno-più-bello-della-nostra-vita!