Ornamento di separazione

ANGELO

A Sebastiano bastarono un paio d’occhiatacce veloci per squadrare lo spiazzo e dare il via libera a Ottavio. I fasci di luce emanati dagli unici due lampioni funzionanti incorniciavano nuvole di pulviscolo, fendendo lo squallido buio del parcheggio notturno di piazzale Clodio.

Ottavio era un randagio che digrignava i denti nel sonno e nella veglia, aveva le iridi di due colori diversi, sulla nuca una beretta tatuata malissimo e un taglio di capelli mutuato da qualche calciatore. Sputò del catarro denso e bianco sul lastricato e vide un ciottolo incastonato in maniera piuttosto precaria.

Non ci pensò due volte e lo divelse definitivamente. Sarebbe stato ottimo per sfondare qualche parabrezza. Perché non proprio quello della Suzuki Liana grigia che lui e Sebastiano avevano di fronte? Il loro intento principale era fracassare un bel vetro, l’ipotesi di rovistare all’interno dell’auto era quasi marginale.

Davanti agli occhi ebeti e compiaciuti di Sebastiano, Ottavio lanciò la pietra verso l’automobile con una torsione perfettamente identica a quella attuata nell’agosto del ’90 dall’ex pesista statunitense Randy Barnes in una gara a Malmö: una coincidenza che nessuno dei presenti fu in grado di cogliere.

Un istante dopo, erano entrambi accovacciati a terra dando le spalle al veicolo, in previsione della fragorosa collisione e dalla lancinante nenia dell’antifurto.

Ma non sentirono nulla.

Neanche il tonfo deludente del sasso che rotola a terra senza aver colpito nulla.

Quando capirono quel che era successo, le loro bocche espettorarono un paio di bestemmie camuffate più per mancanza di fantasia che per devozione.

Tra loro e la macchina si era stagliato Angelo.

170 centimetri di fierezza che si concludevano in uno zuccotto giallo su un manto di capelli biondo cenere, ricci e untissimi. Angelo sorrideva, il suo volto era liso e non più acerbo da anni, le sopracciglia nere e folte come siepi nella notte.

Col braccio e la mano tesi, aveva appena bloccato il ciottolo poco prima dell’impatto con l’auto. L’uomo era lì dalle nove di sera. Li stava aspettando. Era quello il suo lavoro.

Poco prima, tra lui e il proprietario della Suzuki Liana c’era stato un patto. Avrebbe controllato quella macchina in cambio di qualche moneta, giusto il prezzo di un caffè: non avrebbe mai tradito la sacra promessa fatta a quell’uomo che, fin da subito, aveva chiamato con deferenza «capo».

Gli animi dei due teppisti non sapevano ospitare più d’un’emozione per volta e così, sfrattato lo stupore, fecero spazio alla solita cara vecchia rabbia cieca. Ottavio aggrottò il suo monociglio in direzione di Angelo, si schiaffò la mano violentemente sul cavallo dei pantaloni come per placare un prurito più mentale che pubico e avanzò minaccioso.

«Che cazzo fai, eh?» strillò Sebastiano da dietro, la sua voce ricordava quella di Kim Rossi Stuart in Cuore cattivo, ma nessuno se ne accorse.

«State lontani da questa automobile, ragazzi» sentenziò Angelo, lasciando cadere a terra il sasso. «Anzi, state lontani da tutte queste macchine. Dritti a casa, forza!»

Sordo ai moniti di Angelo, Ottavio tentò di sferrargli un destro sul volto, ma l’uomo lo evitò. Con una piroetta repentina, schivò anche il pugno che Sebastiano aveva indirizzato al suo stomaco. Sebastiano indietreggiò pur continuando a provocarlo: «Vieni qua, pezzo di merda! Vieni! Coraggio! Sto qua!»

Angelo non se lo sarebbe fatto ripetere due volte ma, compiuto il primo passo, Ottavio gli si parò di fronte. Protese il mento verso il nemico e continuò impunito: «Che cazzo vuoi, eh? Questo cesso di macchina è tuo?»

«È sotto la mia cura. Vai a giocare col tuo amichetto da qualche altra parte!»

Sempre più allergico alle paternali, Ottavio puntò la sua testa verso la fronte di Angelo. Come in uno scontro tra due alci, dalle fronti dei due si generò il perno per una vorticosa spirale fatta di manate e spintoni.

Sebastiano ne approfittò per correre iracondo verso la Suzuki Liana. Se prima l’intento di svaligiarla era secondario, ora era stato del tutto soppiantato dal bisogno di sfondarla. Stava per sferrare la rabbia del suo tallone contro lo specchietto retrovisore, ma Angelo non gli permise neanche questo. Tramortì Ottavio con un cazzotto sulla bocca, così da liberarsene definitivamente, poi scivolò verso l’auto, bloccò la gamba di Sebastiano con le sue braccia, lo tirò a sé con vigore e riuscì a fracassarlo addosso al corpo lagnante di Ottavio.

Pochi minuti dopo un’ambulanza raggiunse il parcheggio per raccogliere i due delinquenti. Ottavio e Sebastiano rifiutarono ogni tipo d’assistenza. Sbiascicando frasi incomprensibili, spiegarono ai portantini che si era trattato di una semplice scazzottata tra loro due, una «rissa tra amici», come è d’uso tra miserabili. Mai avrebbero ammesso che a ridurli così era stato un uomo di mezza età che voleva impedirgli di vandalizzare un’auto. Quello stesso uomo di mezza età che si era premurato di chiamare i soccorsi per loro due.

Angelo studiò la colonnina con gli orari degli autobus, era l’ora di tornare a casa. Ma prima si accertò che l’uomo che aveva chiamato «capo» tornasse alla sua macchina. Lo vide arrivare assieme a una donna, certamente sua moglie. I due si tenevano per mano come due giovani innamorati.

La visione del loro amore non lo lasciò indifferente: Angelo si sentì riempire d’orgoglio. La loro Suzuki Liana era sana, salva, al sicuro. Come doveva essere, come era giusto che fosse.

Senza farsi notare, si allontanò. Sul suo volto si dipinse un sorriso malinconico. Il «capo» e sua moglie non avrebbero mai saputo del suo lavoro di quella notte, dei rischi che aveva corso per proteggere la loro macchina, per rispettare quel patto di fiducia. Ma in fondo era giusto così. Mettere ogni giorno a repentaglio la propria incolumità per difendere le auto di perfetti sconosciuti era il suo lavoro, la sua missione. A quegli sconosciuti doveva tutto.

Di persone come Angelo ce ne sono tante, vegliano giorno e notte sulle nostre auto senza invidiarcele. Difendono valorosamente le nostre Suzuki Liana, come se fossero il loro bene più prezioso. E in cambio non chiedono nulla, se non due euro per un caffè, capo!

Senza mai insistere, senza mai farcelo pesare.

E poi mai oppressivi. Zero proprio.

Come fai a odiarli?

Ornamento di separazione