Ornamento di separazione

GOOD LUCK BAR

C’era sempre uno strano viavai al 1154 di Hillhurst Avenue. La fauna del Good Luck Bar era nota anche oltre il circondario. Chi poteva, quando poteva, se ne teneva lontano. I buoni padri di famiglia, costretti a passarci davanti ogni giorno, conoscevano a memoria la planimetria di pozzanghere e crepe nell’asfalto della banchina di fronte al locale. Chi non era in cerca di grane, davanti a quel postaccio, teneva sempre lo sguardo basso.

Da più di quarant’anni il Good Luck Bar costituiva un vero coacervo di tirapiedi, puttane e figli di nessuno. Tutti in costante ricerca di un modo per guadagnarsi da vivere fottendo il prossimo e schivando la legge il più possibile. Un complessino di jazzaroli, non malaccio e del tutto fuori posto, faceva da accompagnamento a una cantante nera fin troppo elegante per il suo pubblico. Bernadette. Qualche decina di chili prima, la donna posava per «Harper’s Bazaar» e ora era lì, controvoglia, a cantare standard nel locale del suo ex, Joe Pantalei, mentre con un leggio d’acciaio di fronte alla faccia si schermava, per quanto possibile, dalle nuvole di fumo che decine di clienti noncuranti le sputavano addosso.

I musicisti avevano concluso incerti I Think It’s Going to Rain Today di Judy Collins per poi attaccare subito dopo con Is That All There Is? di Peggy Lee. Nella sua versione, Bernadette aveva scelto di omettere le parti talking.

La porta principale si aprì di scatto, lasciando entrare nel locale un lieve bagliore di luce accompagnato da Steeve Quintavalle e gli inseparabili gemelli Tango.

Con la stessa puntualità di una campanella all’ingresso in un negozio d’alimentari, l’arrivo dei tre venne segnalato dalla risata sdentata di Joe Pantalei.

«Steeve? Non ci credo! Steeve Quintavalle! Vecchio figlio di una grandissima puttana, che cazzo di fine hai fatto?»

«Joe Pantalei!» Steeve non faticò a riconoscerlo dalla risata. «Sentivo puzza di merda qui fuori e ho pensato: “Oggi Joe sarà di certo in quel cacatoio dove lavora!”»

«Vieni qui e fatti abbracciare, dannato spastico della minchia!»

«Hey, hey, hey, Joe! Forse ti sei scordato che io abbraccio solo belle fiche e non un cazzo finocchio sdentato come te!» esclamò Steeve ridendo. Un molare d’argento brillò sotto la debole luce del Good Luck Bar. I gemelli Tango intanto, dopo aver studiato le vibrazioni circostanti, si scambiarono uno sguardo d’intesa e iniziarono a sorridere anche loro, imitando l’atteggiamento sereno del loro capo Steeve.

Nonostante avesse una pessima reputazione, Joe ci teneva a risultare un buon padrone di casa di fronte ai suoi amici di vecchia data. Chiamò a gran voce uno dei suoi ragazzetti tutto fare perché portasse qualcosa da bere ai suoi ospiti. Amava ostentare il potere di cui godeva tra quelle quattro sudicie mura.

«Hey, Ruth! Mi spieghi quale cazzo avvizzito devo spompinare per far avere un whiskey decente a quel grumo peloso di catarro di Steeve?»

Un garzone prese a riempire due bicchieri di Strathmill, sorvolando sul fatto che nessuno lì dentro si chiamasse Ruth.

«Steeve è un cazzo di fratello per me» gridò Joe, come per farsi sentire da tutti i clienti. «Ma siamo nati da due diverse chiavate, cazzo!»

La battuta fece ridere di gusto gli amici di Joe, ci mancò poco che soffocassero.

Steeve mandò giù il suo whiskey e rincarò la dose.

«Sei fortunato, Joe! Con tutti i cazzi che si è presa tua madre, tu sei l’unico spermatozoo che le sia finito sulla faccia!»

Le sedie di Joe e dei fratelli Tango tremarono sotto le scosse delle loro risate.

«Cazzo, Steeve! Me l’ero scordato il tuo umorismo da coglione. Perché non metti qui le tue luride chiappe ripiene di tranci di fecaloma e sangue purulento! Non vorrai mica usarle solo per stringere cazzi, eh?» Era il classico modo in cui Joe invitava qualcuno al suo tavolo. Steeve gli andò incontro, ma di colpo si accorse di non aver ancora presentato i gemelli Tango al padrone del Good Luck Bar.

«Joe, li conosci questi due? Loro sì che sono nati dalla stessa scopata! Sono uguali, cazzo! Brutti da far schifo, è vero, ma in gamba come dei figli di troia. Sono i gemelli Garcia e Juan Tango, non mi chiedere chi cazzo sia l’uno e chi l’altro. Ci sanno fare, però, ’sti due sudamericani di merda… Due luridi insaccati di pus e diarrea!»

Joe li esaminò per poi promuoverli subito dicendo: «Be’, ragazzi, se siete a posto per Steeve, siete a posto anche per me. Certo, se vi divertite a girare con questo grumo di smegma, cerume e tartaro allora non siete altro che dei leccapalle come il sottoscritto! Magari un filo meno stronzi!». E voltandosi verso un tavolo di clienti fissi del bar, continuò a tessere le lodi del suo vecchio amico Steeve. «Sapete? Questo figlio di pompinara sarà anche uno sgranocchia cazzi come sua madre, ma in fatto di pezzi di merda ne capisce. Cazzo, se ne capisce!»

E ancora: «Ruth! Porta altri due whiskey ai gemelli Fregna o come cazzo si chiamano questi due scimpanzé».

«Chiappe!» ululò da lontano un cliente. Il batterista all’improvviso fece uno stop e rispose a gran voce: «La piscia!»

Steeve capì che era ora di parlare di affari e, facendosi serio, disse a Joe: «Per tutti i peli delle mie palle sudate, che Dio mi fulmini se non me ne vado a ’fanculo seduta stante, ma…»

In quel preciso istante, dall’oscuro fondo del locale, una testa spuntò da dietro un piccolo Mac portatile. «Ragazzi» disse quella misteriosa figura avvolta dalle tenebre, «se magari moderassimo un attimo il linguaggio… grazie, eh. Io starei scrivendo la tesi per il dottorato.»

Joe, Steeve, i fratelli Tango e tutta la combriccola si voltarono verso il giovane ricercatore e fecero un cenno di scusa con la mano. In effetti quand’è troppo è troppo. Non s’erano resi conto.

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