«Noi qua ce conuscemu tutti! Qua è bello perché stamu tra de nui! Qua semu tutti parenti! Se sta bene, semu tutti parenti tra de nui!»
Più un paese è piccolo, più è probabile che molti degli abitanti siano parenti tra loro. E nella ridente frazione di Botrugno questa diffusa comunanza di lignaggio era divenuta col tempo motivo di vanto.
Metodicamente, dal 1200 circa, a Botrugno ci si accompagna solo tra consanguinei «Non c’è cosa più divina…» recitava un ferino adagio atto a giustificare, grazie alla ferrea logica della rima, l’accoppiamento tra cugini. Un detto pressoché inutile a Botrugno, dove non è mai stato necessario che qualcuno dicesse «Non v’è cosa più bella…» perché si figliasse tra fratello e sorella. Era così e basta.
«Pecché quà funziona cusì, quà simu tutti parendi tra de nuj.»
Tutto questo li faceva sentire ancora più legati nell’intera comunità. Compatti. Affidabili. Uniti. La popolazione seguitava a svilupparsi così, senza contatti con l’esterno, prediligendo per gli accoppiamenti i compaesani più prossimi nella linea di sangue.
«P’cké kuà simu tutti parendi tra de nuje, ce cunuscèmu tutti cuànti!»
Nonostante scienza e religione siano d’accordo sul condannare questa loro secolare usanza, intere generazioni di botrugnani hanno scelto di andare controcorrente.
Avevo sentito parlare di Botrugno e dei suoi costumi dai miei nonni, quando erano ancora vivi. Anni dopo, spinto dalla curiosità, decisi di andarci di persona, ma non trovai più nessuno. Era passato del tempo e gli incestuosi indigeni di quel territorio erano completamente scomparsi. Botrugno era ormai divenuto uno dei tanti borghi fantasma della nostra penisola. Rimanevano le casine in granito abbandonate, disposte a scacchiera, le stradine di ciottoli dismessi. Neanche una strada asfaltata, solo una lunga mulattiera e una minuscola chiesa che nel corso dei decenni aveva perduto, assieme alla luminosità degli affreschi, anche la sua aura di sacralità.
I botrugnani si erano estinti, come moltissimi mesi prima avevano fatto gli pterodattili. Avrei voluto parlare con loro, confrontarmi con quelle persone che, per secoli, avevano evitato contatti con persone fuori della loro cerchia familiare. Gente semplice di campagna che, con la scusa che «ccuà shìmu tuttә parendә», ha messo al mondo generazioni e generazioni di infelici. E di generazione in generazione l’infelicità assumeva una forma precisa o, meglio, dei caratteri dominanti. Le specifiche classi di deformità di questi esseri, infatti, hanno permesso agli studiosi di catalogare e documentare in ordine cronologico le ondate riproduttive dei botrugnani.
Prima generazione: Erano i primi abitanti di Botrugno, persone normali. Provenivano da paesi circostanti, fondarono le case, erano tutti parenti.
Seconda generazione: Presentava uno strabismo diffuso.
Terza generazione: Con l’incremento dell’endogamia, cominciarono a presentarsi numerosi casi di grave emofilia.
Quarta generazione: Largo spazio tra i denti, fronti più ampie, porfiria cutanea giovanile.
Quinta generazione: Comparsa di minuscole braccine fatte di sola pelle tra un dito e l’altro dei piedi. Balbuzie, incapacità di battere le palpebre senza provare dolore.
Sesta generazione: Voce cavernosa, cassa toracica «a coppetta», sopracciglia interne, guance piene di uovo.
Settima generazione: Nota come «fase colpo di scena»: tutti bellissimi.
Ottava generazione: Pappagorgia, gobbe purulente ondulate, comparsa intermittente di peluria ispida sulle gengive, genitali fluorescenti (tranne le palle), lembi di pelle di 20 cm2 in eccesso su gomiti e ginocchia.
E così via. Fino a scomparire.
«Achkà shìmu tutte pariènde!»
Poco importava se col tempo le deformità passassero dal grottesco al raccapricciante. Andava bene così. Erano tra di loro, in famiglia, al sicuro, autosufficienti, tra gente semplice e genuina. Gente senza troppi grilli per la testa (salvo verso la quindicesima generazione, che vide molti botrugnani nascere con piccole mantidi inanimate che fuoriuscivano dalla pelle all’altezza delle tempie). Avrebbero anche avuto tutti lo stesso cognome se solo in paese ci fosse stata l’anagrafe.
Botrugno era sempre stato uno di quei luoghi lontani, senza un’identità. Piccole strutture con qualche albero che vedi di sfuggita dal finestrino di un treno velocissimo diretto da tutt’altra parte.
Il giorno che decisi di visitarla, era un pomeriggio d’estate, indossavo una camicia a maniche corte e un paio di jeans. Il borgo sembrava un vecchio diorama incompleto. Camminavo senza fretta su quei ciottoli cercando di immaginare la vita e le giornate di queste persone umili e ignoranti che, da sempre, si sono accontentate di se stesse. Bastandosi.
Attorno a me piccole case vuote, porte semichiuse, bar abbandonati e magramente colorati da cartelli arrugginiti di gelati anni Ottanta, tavolini di plastica sbiaditi dalla pioggia, vecchi manifesti miracolosamente ancora leggibili, qualche altalena.
Passeggiai un’oretta per quelle stradine deserte, fino a che, annoiato da quel panorama immobile, mi incamminai verso la macchina. Era ora di tornare a casa, niente avrebbe animato quello scenario senza vita. Aprii la portiera e il clack della serratura si fuse al suono leggero di un piccolo crollo, come di sassi smossi. Mi voltai di scatto e notai che uno dei ciottoli della stradina alle mie spalle era completamente divelto, lasciando una buca nel selciato. No, non ero stato io a prenderlo a calci, né poteva essere stata una scossa di assestamento: la terra non aveva vibrato. Mi avvicinai e, intorno alla buca, altri ciottoli presero a muoversi, morbidamente, come se stessero levitando a poco a poco. Dalle fughe del selciato una strana umidità che presto si tramutò in un liquido. Una malata spuma color sabbia.
Era come se la strada stesse schiumando. Se si trattava di un fenomeno naturale, non ne avevo di certo mai sentito parlare. Nel giro di pochi istanti, la strada si riempì di un’informe sabbia mobile. Ma anziché inghiottirmi dentro di sé, quell’impasto di terra, pietre e schiuma si innalzò al disopra della mia testa come la volta di un tunnel.
Alcuni ciottoli gravitavano più in basso, a mezz’aria. Si erano fatti più grossi e tondi, non più sassi, ma bulbi pulsanti che continuavano a rilasciare quel liquido sabbioso. Più schiumavano e più si facevano morbidi, come gomiti che si liberano dalle croste di una secolare psoriasi.
I bulbi presero a volteggiarmi intorno, mi circondavano in un lento turbinio, costante e concentrico, così perfetto da essere ipnotico. Li accompagnava il suono d’un battito metronomico, un pesante accordo minore generato da quello che scoprii essere nient’altro che un respiro.
Quando i bulbi si fecero ancora più grandi e carnosi, mi accorsi che si trattava di una miriade di torsi obesi, sprovvisti di arti, in ognuno dei quali si apriva una serie di ombelichi secernenti materia guasta. Era impossibile individuare gli occhi in quei globi carnosi, eppure ero certo che quegli esseri mi stessero fissando.
Via via che mi volteggiavano attorno, il loro vortice si fece più stretto, sempre più vicino al mio corpo immobile e terrorizzato. Le creature iniziarono a schiacciarmi. Sentii le mie gambe spezzarsi e le mie grida impotenti soffocare sotto un suono grave che proveniva dai nuclei di quelle bolle indecenti. Era un lungo soffio assordante, incomprensibile, sofferente, marcio e continuo che ripeteva:
«Kkkkkkkkkaaaa siiimmm touuuttәәә paaarijènndә…»