Non ho mai amato le feste di Capodanno. Spero sempre che tutti quelli che mi circondano si distraggano e dimentichino di fare il consueto countdown. Purtroppo, non è mai accaduto. A volte capita di andarci vicino, ma c’è sempre qualche guastafeste che una ventina di secondi prima avverte tutti.
Tuttavia, a una certa età, bisogna imparare a dosare il proprio anticonformismo affinché non diventi idiozia. Perciò, una volta l’anno, preferisco tapparmi le narici e andare all’ennesimo veglione piuttosto che oppormi sterilmente a quest’usanza. Rimanermene a casa sarebbe un sogno, ma a che prezzo? Risultare il tipo di persona che si vanta di non avere la tv dentro casa, di non bere Coca-Cola, di aver chiamato la figlia Elsa in omaggio alla Morante (figuriamoci, io e il mio compagno neanche la conoscevamo questa scenetta di Verdone, abbia pazienza).
Ed ecco perciò che oggi, 31 dicembre, mi son fatto convincere, senza opporre troppe resistenze, ad andare in una casa.
Casa di gente. Amici di amici. Individui che personalmente non conosco.
Assieme a me, alcuni amici di primo grado, bottiglie di spumantacci da supermercato con dei nomi che sembrano presi a culo da un citofono, un panettone che mangeremo solo noi per sicurezza, un cellulare fortunatamente ben carico, tante buone maniere e quel sano senso di inadeguatezza di chi sta per varcare pianerottoli non familiari.
Ci apre la porta una ragazza con un bicchiere di vino in mano. Sulla fronte ha un post-it dove qualcuno, con una pessima grafia, ha scritto «Paolo Borsellino». La sua voce è eccessivamente squillante. Non è la padrona di casa, ma ci accoglie con un caloroso «Ciao, raga! Benvenuti!!! Non mi dite il nome sul foglietto, please». Capiamo da come è vestita che, una volta dentro, sentiremo uno sbalzo climatico importante.
Dietro di lei vedo passeggiare, con una sicurezza che mi indispone, i vari invitati al party. Tutti con le loro brave birre nei bicchieri di plastica. Alcuni con dei post-it in fronte con su scritto «Camihawke» e «Diego Bianchi». Probabilmente non sono tutti amici tra loro, forse molti di loro si sono intrufolati quanto e più di noi. Non ha rilevanza. Ai miei occhi tutti quelli che stanno qui dentro sono amici tra loro, fratelli, sono una gigante comitiva fatta di legami indissolubili. Nella mia testa questi hanno tutti scopato tra loro, hanno fatto assieme degli Erasmus di merda in Spagna, ma prima ancora hanno fatto materna, elementari, medie, liceo, università e conservatorio nella stessa aula. Sono convinto di essere l’unico che non è presente tra i contatti Facebook di nessuno di loro. Se un pazzo stanotte li dovesse trucidare, questo appartamento si allagherebbe di sangria.
Mi presento ad alcuni degli altri invitati, sono così impegnato a pronunciare bene il mio nome che dei loro non ne memorizzo neanche uno.
Adagio sciarpa e cappotto su un lettone su cui sono accatastati effetti personali di altri sconosciuti. Ritengo saggio togliere dalle mie tasche alcune cose come: le chiavi di casa, quelle della macchina, l’insulina, le fialette di Tirosint, il portafogli, le sterline d’oro, la custodia per gli occhiali, l’orologio a cipolla per far scena e il caricatore del cellulare che non si sa mai.
Con le tasche dei jeans piene di roba, cammino per la casa come se avessi le cosce incinte di due Transformer giganti.
La musica in filodiffusione mi fa vomitare. Non saprei neanche dire che genere sia e mi stupisce come, per tutti i presenti, sia una playlist molto più che accettabile, quasi entusiasmante. Ballano felicissimi e mi chiedo quand’è che si siano innamorati di quelle canzoni. Dove le hanno sentite la prima volta?
Non so ancora chi sia il padrone di casa.
Sarebbe giusto e carino che io mi presentassi, anche solo per ringraziarlo. Nel frattempo mi mimetizzo tra pizzette, rustici, pezzi di panettone secco e lenticchie che una pazza mi dice «vanno mangiate con le mani perché portano soldi». Che schifo.
Noto un certo andirivieni in una delle stanze della casa, capisco subito che si tratta del classico andirivieni della cocaina. Sempre guardinghi, i cocainomani. Circospetti anche nelle feste in casa, quando ogni loro azione è acclarata. Amanti del sotterfugio a tutti i costi, come se nella stanza affianco ci fosse la guardia di finanza e bastasse una porta chiusa per stare al sicuro. Me li immagino a casa da soli che, prima di sniffare, si puntano una webcam addosso giusto per spegnerla nel momento dell’assunzione.
Vorrei entrare nella stanza della cocaina solo per godere del silenzio che la pervade. Purtroppo, però, c’è una piccola fila per entrare. Se devo aspettare, tanto vale che prenda la polverina bianca, ma non me la sento. Ho il mal di testa e poi non conosco nessuno, non vorrei fare brutta figura.
Mi siedo nella stanza affianco, sul lettone con i cappotti degli altri.
Qui faccio finalmente la conoscenza di Gabriele, l’effettivo padrone di casa.
Gabriele è un ragazzo di ventotto anni, un belloccio perennemente abbronzato, ha la camicia sbottonata e probabilmente va in palestra quel giusto che basta a non far pensare alle ragazze che sia ossessionato dal suo aspetto fisico.
Ha lo stesso mio accento, ma con alcuni intercalari per me alieni e che non riesco a codificare. Non è antipatico e, anzi, sembra una persona gentile. Quanto a me, credo che si veda anche dalle pieghe dei miei gomiti quanta poca voglia io abbia di stare qui oggi, ma cerco di non farglielo notare. Anzi, lo ringrazio tanto per aver messo casa sua a disposizione di così tanta gente.
Per il mio settimo compleanno, i miei genitori organizzarono una festa nella mia casa natale, invitando tutti i miei compagni di classe. Ricordo che, nel caos, si persero alcune figurine e un paio di pupazzetti. Nei decenni a venire ho sempre evitato di far entrare nella mia abitazione più di due persone per volta. Almeno finché non ritrovo le figurine e i pupazzetti. Gabriele evidentemente non ha avuto traumi del genere.
«Qui ci abito da quando ho diciotto anni» mi spiega. «Era di mia nonna, questa casa. Mi ci sono spostato perché con mio padre non è che ci prendessimo proprio come caratteri. In fondo è per questo che sono così autosufficiente.»
Parla come se, agli occhi di chiunque, non possa non palesarsi questa sua famosa autosufficienza.
Mi destreggio nel discorso inanellando una serie di «capisco», «certo» e «no, ma ti credo», mentre Gabriele mi spiega la sua vita, le sue avventure e l’immancabile Erasmus a Barcellona (che lui chiama Barça). Dice che ha una grande passione per i tatuaggi, al punto che se n’è addirittura tatuato uno addosso. Per lui organizzare feste è la prassi. La sua casa, mi rivela, è un punto di riferimento per un casino di persone e, diciamocelo, anche per un sacco di ragazze.
«Certo che» aggiunge sornione guardando la sua stanza, «se queste mura potessero parlare…»
Memore delle imprese sessuali compiute in quello che non escludo lui definisca il suo scannatoio, Gabriele mi contagia un quesito davvero interessante.
Cosa direbbero davvero queste mura se potessero parlare?
Se, accompagnato dal dono del pensiero, venisse concessa a queste quattro pareti la capacità di parlare, come la userebbero? Riuscirebbero a capire il valore di questo dono divino che è il verbo? Nessun essere inanimato prima di esse avrebbe mai goduto di una simile possibilità. Lo saprebbero di essere le prime, dopo gli uomini, a poter parlare?
Loro, le quattro mura di quella stanza al centro di Roma, fatte di cemento armato e probabilmente esistenti da prima degli anni Settanta, si troverebbero finalmente a poter parlare tra loro. Se un Dio altissimo e onnipotente decidesse, così per gioco, di far emettere loro dei suoni puliti, suadenti, in grado di esporre concetti nuovi, cosa direbbero?
Si chiederebbero tra di loro il perché di quel che è successo, si chiederebbero cosa succede al di fuori dell’impasto di elementi lapidei e tondini d’acciaio che da sempre contengono.
«Cosa succede a voi uomini e a voi donne» ci domanderebbero, «quando piangete e quando ridete? Perché spesso fate le due cose assieme, nonostante sembrino momenti così diversi del vostro io? È la medesima magia a muovere in voi queste opposte reazioni? L’amore forse? Quello di cui parlate tra di voi quando siete vicini. O forse l’odio? Quello a cui accennate quando vi allontanate. Che strane le parole, se non fosse per esse voi stareste immobili come sempre siamo state noi. Eppure vi piace parlare, vi piace usare le parole, spesso anche per farvi del male.
«Noi, da anni ricoperte da pessima carta da parati, intonaco e manifesti, vi spiamo costantemente. E perché mai stiamo pensando solo a quella strana cosa che è la vita? Voi, al contrario di noi, ne disponete, eppure morite. Noi, che la vita non l’abbiam mai conosciuta, vi sopravvivremo.
«Ma voi che potete, come riuscite a trattenerla senza che vi sfugga per sempre? Da decenni abbiamo visto vite abbracciarsi, sfuggirsi, spegnersi nella notte e accendersi alle prime luci del mattino, darsi per scontate in alcuni momenti e struggersi mano nella mano in altri.
«Vi abbiamo visti invecchiare assieme, abbiamo visto scomparire vite e nascerne di nuove, ma cos’è davvero questa vita? Cosa significa per voi che la possedete, per voi che sapete che un giorno non l’avrete più? A intervalli regolari vi radunate, sotto la nostra protezione, per ridere e festeggiare un tempo mietitore che stringe. Gioite con cerimonie gaudenti per un futuro sempre più risicato e per un passato fatto di intangibilità. Gli anni che passano, i ricordi che svaniscono, gli amori struggenti che verranno ignorati dai figli dei vostri figli che non ricorderanno i vostri nomi. Eppure, sorridete di tutta questa vita. Questa assurda e meravigliosa vita che giorno dopo giorno vi sfugge dalle mani.»
Chissà se direbbero cose del genere queste quattro mura se davvero potessero parlare.
Secondo Gabriele no. Secondo lui la prima cosa che direbbero sarebbe quanto scopa lui qua dentro.