Con i suoi palazzoni dell’anteguerra, le scale antincendio arrugginite e i marciapiedi coperti di sacchi della spazzatura, Brighton Beach, a Brooklyn, era un angolo di periferia fatiscente fronte mare.
Quel martedì a mezzogiorno ero a bordo di un mezzo dell’FBI in Ocean View Avenue, in una zona abitata in prevalenza da russi. Con me c’erano Paul Ernenwein e due agenti della sede FBI di New York esperti in malavita russa. Oltre a noi c’era anche una seconda auto, ferma dietro l’isolato, con altri due agenti.
Stavamo tenendo d’occhio un ristorante russo molto popolare, che si chiamava Sochi’s e aveva una tenda rossa e oro assai vistosa.
C’era stata finalmente una svolta nelle indagini. A Riverdale, nel corso della perquisizione nella casa di Pavel Levkov, ancora ricoverato in ospedale, i federali avevano rinvenuto uno smartphone nascosto dietro un doppio fondo nella soffitta. Uno dei numeri in rubrica era di Maxim Kuznetsov, noto boss della mafia russa.
Ex campione di boxe nella categoria pesi massimi, Kuznetsov era sospettato di aver ucciso un certo numero di cittadini russi e naturalizzati americani nell’arco di una decina di anni. Attraverso il fratello maggiore, aveva legami con il GRU, il servizio informazioni delle forze armate russe. Era anche uno dei proprietari del Sochi’s.
Mentre stavamo lì a sorvegliare il ristorante, cominciò a nevicare. C’era neve sulla passerella di legno lungo il mare e persino un pupazzo mezzo sciolto sulla spiaggia, sotto il cielo color del piombo.
«Sarò fatto male, ma quando sento parlare di spiaggia, tendo a pensare a gente in costume da bagno sotto il sole» dissi.
«Benvenuto in Siberia» replicò Paul, guardando nel binocolo. «Aspettate» disse un momento dopo. «Sta arrivando una macchina. Un suv BMW, per la precisione.»
La radio di Paul gracchiò.
«Lo vediamo. È Kuznetsov» ci informò uno dei federali sull’altra auto.
Dieci minuti dopo entrammo nel ristorante, dove i dipendenti stavano lucidando i tavoli e passando l’aspirapolvere. Eravamo in sei, in assetto antisommossa.
Era tutto dorato: la fodera delle sedie imbottite, le cornici degli specchi, le ringhiere in ottone e persino i soffitti, da cui pendevano enormi lampadari di cristallo, sobri quasi quanto gli orecchini di Cleopatra.
Kuznetsov era nella cucina, interamente di acciaio inossidabile, perfettamente pulita. Alto un metro e novanta se non di più, dimostrava una cinquantina d’anni e aveva un grembiule sopra la camicia bianca firmata e i pantaloni di un completo di seta grigio. Stava tritando un mucchietto di basilico con un coltello da venticinque centimetri e la mano esperta.
«Maxim Kuznetsov?» chiese Paul Ernenwein.
Il marcantonio si voltò e posò lentamente il coltello. Era scuro di capelli, una sorta di bel tenebroso. Si asciugò il sudore dalla fronte con una salvietta. Dalla padella alle sue spalle si sprigionava un profumino delizioso di pollo che rosolava nel burro.
«Sì, sono io. Avete bisogno?» chiese. Non aveva la minima traccia di accento straniero.
«Dobbiamo rivolgerle alcune domande in materia di sicurezza nazionale» spiegò Paul. «Venga con noi, per cortesia.»
Kuznetsov ci guardò con i suoi occhi scuri.
«Devo chiamare il mio avvocato?»
Paul sorrise.
«Potrebbe rendersi necessario» rispose.