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L’indomani mattina verso le dieci, Paul Ernenwein e io eravamo in Park Avenue, soleggiata e spazzata dal vento, diretti a una riunione a sorpresa con il Secret Service.

Era stata una convocazione dell’ultim’ora ed era strano perché il Secret Service fino a quel momento aveva sempre dichiarato di voler indagare autonomamente sull’attentato al presidente, e non di concerto con noi.

«Ho sentito che il nostro amico Kuznetsov non ha abboccato» dissi a Paul mentre attraversavamo East 31st con due caffè fumanti comprati a un banchetto lungo la strada.

«Hai sentito bene» replicò il corpulento agente dell’FBI di Boston, scostando la manica della giacca per guardare l’ora. «Lo abbiamo lasciato andare verso le undici di sera, quando si è presentato il suo legale. Sostiene di non conoscere Pavel Levkov. Dice che gli capita spesso di prestare lo smartphone ai clienti del ristorante e che il suo numero può essere rimasto sul cellulare di Levkov per una chiamata fatta da chiunque di loro.»

«Ah, be’... Questo spiega il suo ruolo nell’attentato al presidente Buckland.» Alzai gli occhi al cielo. «Ha semplicemente prestato il suo cellulare alla persona sbagliata. Scusi tanto, errore nostro.»

«Non ti preoccupare» replicò il rosso con un sorriso. «Prima di congedarlo gli abbiamo fatto capire chiaramente che sottoporremo a scrupolosi controlli lui e la sua organizzazione finché non deciderà di mostrarsi lievemente più collaborativo. Non mi è sembrato granché spaventato, ma vediamo che cosa succede.»

Entrammo nell’atrio tutto marmi di un palazzo dell’anteguerra e mostrammo le credenziali alla reception. Ci venne aperta da remoto una porta priva di targhe all’ottavo piano ed entrammo in una sala nella quale venti o trenta uomini dall’aria stressatissima erano impegnati davanti a computer, schedari e tritadocumenti.

Paul salutò uno degli agenti, che ci accompagnò in un ufficio sul retro, dove una donna mora seduta alla scrivania guardava gli schermi di due portatili rosicchiando una matita.

«Paul, Mike. Sono Margaret Foley. Grazie di essere venuti.» Era alta, graziosa, fra i trenta e i quarant’anni. Si alzò in piedi sorridendo e ci strinse la mano.

Paul mi aveva spiegato che Foley era stata di recente nominata responsabile del Secret Service per la città di New York. Aveva fama di essere ambiziosa, ma corretta. Era apprezzata dai suoi sottoposti.

Ci indicò i due computer sulla scrivania.

«Senza tanti giri di parole, vi dirò che siamo a un punto morto nelle indagini sull’attentato al presidente e forse sarebbe meglio unire le forze. Lo ritenete fattibile?»

«Sì» rispose Paul sbottonandosi la giacca. «Finalmente!»

Foley rise e si rimboccò le maniche.

«Sì, ho sentito che il mio predecessore era poco collaborativo. Il mio approccio è diverso.»

Tolse il tappo a un pennarello e si avvicinò alla lavagna nell’angolo.

«Aggiornatemi sulla situazione» disse indicando un collage di stampe e fotografie.

«Fondamentalmente la mattina in cui il presidente è venuto alle Nazioni Unite, all’FBI di New York è giunta una segnalazione da parte di un informatore considerato affidabile» cominciò Paul sedendosi. «Da anni il nostro controspionaggio ha un contatto abbastanza in alto nell’ambasciata russa, di cui ci fidiamo. Costui ha riferito che sei mesi fa era venuto a sapere di un attentato in programma negli Stati Uniti, autorizzato dal governo russo. Non sapeva dove o ai danni di chi. Sosteneva di aver scoperto soltanto quella mattina che il bersaglio era il presidente degli Stati Uniti e di aver chiamato subito.»

«È una follia. Incredibile» disse Foley. «I russi vogliono far scoppiare la terza guerra mondiale? Chi è l’attentatore? Un russo?»

«No, riteniamo si siano avvalsi di un mercenario» rispose Paul. «Perché mandare avanti uno dei tuoi quando puoi mettere la cosa in mano a un tiratore scelto disponibile a lavorare su commissione?»

«Lei che ruolo ha in tutto questo, Mike?» mi chiese Foley, voltandosi verso di me.

«Sono stato affiancato alla squadra di Paul la mattina dell’attentato per cercare il cecchino. L’abbiamo individuato quasi subito. Facevo parte della sorveglianza aerea al corteo presidenziale in arrivo dall’aeroporto e mentre sorvolavamo Manhattan ho notato qualcosa di strano appena sotto il tetto del MetLife Building.»

«La postazione del cecchino» disse Foley indicando le foto del grattacielo. «Quindi siete atterrati sul tetto e avete cercato di catturarlo, ma quello ha sparato al suo compagno di squadra e si è dato alla fuga. E poi?»

«Il nostro informatore dell’ambasciata russa è sparito dalla circolazione» disse Paul. «Ma prima ci ha fatto un nome: Pavel Levkov.»

«Levkov» ripeté Foley indicando la sua foto. «Quello che è stato gambizzato?»

«Esattamente» risposi. «Pensiamo fosse l’intermediario fra i mandanti e il sicario. Non siamo i soli a cercare l’attentatore, pare.»

«Chi è Kuznetsov, l’uomo che avete interrogato ieri? Che ruolo ha nella vicenda?»

«Kuznetsov è il boss della mafia russa di New York» risposi. «Abbiamo trovato il suo numero di cellulare nella rubrica di Levkov. A rendere le cose ancor più interessanti, Kuznetsov ha legami anche nell’ambiente dell’intelligence russo. Ha un fratello nel GRU.»

«Russi, russi e ancora russi, quindi» mormorò Foley scuotendo la testa.

«Immaginiamo che Kuznetsov abbia ricevuto ordine dal Cremlino di uccidere il presidente e abbia chiesto a Levkov di cercare il mercenario giusto» dissi.

«È un’ipotesi» disse Paul con un’alzata di spalle. «Ieri sera abbiamo parlato con Kuznetsov, ma dopo dieci minuti di risposte vaghe e fumose, il suo avvocato se l’è portato via. Stiamo seguendo sia lui che Levkov nella speranza che ci portino a qualcosa.»

«Come siamo messi con il presidente?» chiesi sbirciando da dietro le tende il panorama mozzafiato.

Guardai l’Empire State Building e poi mi voltai di nuovo verso Foley. Il cielo era nuvoloso, cupo, e minacciava neve.

«Verrà al prossimo summit?» chiesi.

Margaret Foley tappò di nuovo il pennarello.

«Glielo abbiamo sconsigliato, naturalmente, visto che l’attentatore è ancora a piede libero» rispose.

Posò il pennarello e incrociò le braccia.

«Ma lui insiste per venire. È irremovibile» concluse.

«Irremovibile» ripeté Paul tamburellando con le dita sul tavolo.

«Questo complica ulteriormente le cose» commentai io.