Michela Marzano non esiste. Atto di nascita, passaporto, carta d’identità, certificato di matrimonio: tutto attesta che la persona nata a Roma il 20 agosto 1970 è Maria Marzano.
«Perché Maria, papà?» Sono alle elementari, sto compilando un modulo e mio padre dice che, in basso a destra, devo firmare “Maria”. Nonostante i miei genitori mi abbiano sempre chiamato Michela, i miei amici e i miei compagni di classe mi chiamino Michela, mi chiami Michela pure la maestra, papà pretende che il mio vero nome sia Maria.
Quando nacqui, e mio padre andò a registrarmi all’anagrafe, fece scrivere: “Maria” virgola “Michela” virgola “Rosa”. Dovevo chiamarmi “Maria Michela” virgola “Rosa”, in modo che sui documenti, accanto a Maria, il nome che mi era stato dato per il voto fatto alla Madonna quando mamma non riusciva a rimanere incinta, potesse sempre figurare Michela – certo, la nonna c’era rimasta male quando le avevano detto che Rosa sarebbe stato solo il mio terzo nome. «Basta con tutte queste Rosa, Rosaria, Rosetta, Rosella!» le aveva detto mio padre. «Ce ne sono già tante in famiglia»; allora mia madre aveva proposto Manuela; poi, con papà, si erano accordati su Michela: non c’era stata nessuna Manuela in famiglia, ma c’era stato un Michele, il nonno materno di mio padre, il dottor Michele Campo. Quando papà arrivò all’anagrafe, però, pare fosse accompagnato da un amico che lo convinse a registrarmi aggiungendo una virgola anche tra Maria e Michela. Pare che l’amico gli avesse detto che i doppi nomi creavano sempre enormi problemi, che ognuno li avrebbe interpretati a modo suo aggiungendo inutili trattini o eliminando ora un nome ora l’altro. Pare che avesse talmente insistito che, alla fine, mio padre gli aveva dato ragione. Sebbene si trattasse del nome di sua figlia, non di quello della figlia del suo amico. E che di quest’amico, tra l’altro, si siano nel frattempo perse le tracce.
Risultato: in nessun documento ufficiale compare Michela, il nome che avevano scelto i miei genitori e con il quale mi hanno sempre chiamata tutti. Il nome con cui firmo libri e articoli, e che mi fa girare per strada se qualcuno mi chiama. «Michela?» E io mi fermo, mi volto, cerco con lo sguardo chi mi abbia chiamato. «Maria?» Non mi fermo, non mi volto, vado avanti. Maria? E chi è?
L’unico pezzo di carta in mio possesso che provi che non mi chiamo soltanto Maria, e mi permetta quindi di recuperare all’ufficio postale una lettera raccomandata inviata a Michela Marzano senza dover litigare con l’impiegato che non sente ragione – «E io come faccio a sapere che Michela è lei, se sulla carta d’identità c’è scritto solo Maria? Potrebbe essere una raccomandata per sua madre o sua sorella o sua figlia, capisce? Mi spiace, signora, ma la lettera non gliela posso proprio consegnare, è inutile che si innervosisca» –, è il certificato di battesimo.
Ma il certificato di battesimo non ha alcun valore legale.
Per lo Stato, sono Maria e basta.
Per lo Stato, Michela Marzano non esiste.
«E tu come ti chiami, papà?» Sull’attestato delle elementari, alla fine, ho firmato “Maria”. Nonostante le proteste, ha vinto mio padre.
«Che domande fai, Michela?»
«Lo so che ti chiami Ferruccio. Ma Ferruccio e basta?»
«Ferruccio e basta, sì. Ferruccio come nonno Ferruccio, il padre di mio padre. Poi la mamma volle aggiungere pure Michele, come suo padre, e Arturo, come il marito, ma sono nomi che non contano, un po’ come Rosa nel tuo caso; sui documenti, sono solo Ferruccio Marzano.»
A parte sul certificato di battesimo, penso a distanza di più di quarant’anni quando, frugando nei cassetti della scrivania di mio padre, trovo una vecchia fotocopia.
È il settembre del 2019, è passato poco più di un mese dalla nascita di Jacopo, il figlio di mio fratello Arturo, e sono venuta a Roma per trascorrere alcuni giorni con i miei genitori. Ho bisogno di fare un punto sulla mia vita, di farmi raccontare da mamma e papà qualcosa in più della loro storia. L’arrivo di Jacopo mi ha spiazzato. È come se, all’improvviso, mi fosse crollato addosso il mondo. Perché, alla fine, solo io mi ritrovo senza figli?
Vent’anni di analisi buttati nella spazzatura! penso prendendo in mano la fotocopia del certificato di battesimo di mio padre.
L’anno 1936, il giorno 26, del mese di dicembre, dal sottoscritto Gennaro D’Elia, Parroco di Santa Maria delle Grazie, in Campi, è stato battezzato il bambino, nato il giorno 14 del mese di novembre dell’anno 1936 da Arturo Marzano, figlio di Ferruccio, e da Campo Rosetta, figlia di fu Michele, coniugi della Parrocchia come sopra, al quale è stato dato il nome di Ferruccio Michele Arturo Vittorio Benito. Padrini: Marzano Gino di Ferruccio e Malvani Virginia di Augusto.
La testa inizia a girarmi e mi siedo. Rileggo con più calma. “Ferruccio Michele Arturo Vittorio Benito.” Tutto di seguito, senza virgole. Altro che Ferruccio e basta! penso alzandomi di nuovo e andando in cucina, ho bisogno di bere un sorso d’acqua. Papà, di nomi, ne ha ben cinque, mi dico attaccandomi direttamente alla bottiglia. E, tra quei cinque, ci sono pure Vittorio, come Vittorio Emanuele III, e Benito, come Mussolini. Da dove saltano fuori questi due altri nomi? Al limite posso capire Vittorio: il nonno era stato un deputato monarchico durante la II legislatura, a casa se n’era parlato più volte, anche se a me la cosa non era mai andata del tutto giù. Ma Benito? Che c’entra ora Mussolini col nonno e con papà? L’acqua mi va di traverso e inizio a tossire. Com’è che questa storia di Benito non era mai venuta fuori? Mi soffio il naso, respiro forte, ricomincio a tossire.
Papà è sempre stato Ferruccio e basta – a parte per sua sorella, che lo chiamava Tuccio, proprio come lei, per papà, non era Rosaria, ma Lala. È Ferruccio sulla carta d’identità e sui diplomi; è Ferruccio sul certificato di matrimonio e sul mio atto integrale di nascita. Lo è ovunque, tranne che sul suo certificato di battesimo. Cioè. A differenza mia, papà, anche all’anagrafe, è registrato come “Ferruccio Michele Arturo Vittorio Benito”.
Lo scopro qualche settimana più tardi. Sono tornata a Parigi. Sono iniziate le lezioni in università. E sono nel mio studio quando ricevo via mail una copia integrale dell’atto di nascita di mio padre. Cercando su internet, e andando sul sito dell’Archivio di Stato di Lecce, mi ero resa conto che era possibile ottenere i dati anagrafici dei propri genitori semplicemente inviando una mail. Se mio padre fosse nato prima del 1915, avrei potuto effettuare io stessa la ricerca da remoto, mi aveva spiegato il direttore degli archivi che, nonostante le mie iniziali perplessità, aveva subito risposto alla mia mail: esiste un portale del MiBACT, “Antenati”, dove si trovano le scansioni degli atti di nascita, di morte e di matrimonio di tutti coloro che sono nati tra il 1861 e il 1915. Essendo però mio padre nato nel 1936, la copia del suo atto di nascita mi sarebbe stata inviata non appena avuta la notifica del bonifico per le spese di fotoriproduzione. Una decina di giorni più tardi, mi arriva direttamente nella casella mail.
Oggetto: Ferruccio Marzano – Protocollo n° 3865
L’anno millenovecento trentasei, addì: sedici di novembre, alle ore: nove e trentacinque minuti, avanti a me: Giuseppe Guarino, nella Casa Comunale, è comparso: Arturo Marzano, di anni: trentanove, domiciliato: in questo comune, il quale mi ha comunicato che alle ore: undici e quaranta minuti del dì: 14 novembre, nella casa posta in: via Vittorio Emanuele da: Rosa Maria Campo, sua moglie, è nato un bambino di sesso: maschile che egli mi presenta e a cui dà i nomi di: Ferruccio Michele Arturo Vittorio Benito.
“Ferruccio Michele Arturo Vittorio Benito”, tutto di seguito e senza virgole, anche sull’originale dell’atto di nascita. Ma allora perché questi nomi non compaiono in nessun altro documento?
Nomen omen, dicevano i Romani, convinti che nel nome di ogni persona fosse indicato il suo destino. Ma quale doveva essere il destino di mio padre? E il mio?
Mentre verifico online i nomi, le date, i luoghi di nascita e di morte anche dei genitori, dei nonni e degli zii di mio padre, consumandomi gli occhi davanti allo schermo, ingrandendo le immagini e cercando di decifrare grafie talvolta illeggibili – «La nonna si chiamava Rosa Maria?» Papà, quando glielo racconto, si stranisce. «E zio Nino, Angelo Vincenzo Francesco, davvero? La nonna Giuseppina, Giuseppa Concetta Lucia?» «No, ti assicuro che non lo sapevo» –, cerco anche di capire che fine abbiano fatto gli altri nomi di mio padre.
«In effetti è strano» risponde Jacques, mio marito, quando la sera, a cena, gli dico che non torna nulla, mio padre mi ha mentito, è tutto falso.
«Da quello che ho capito, c’è stata una riorganizzazione dell’anagrafe nel 1954. Fu allora che la formula dà il nome, anche se il nome era composto da più nomi, dette la possibilità di conservarli tutti, mentre la formula dà i nomi portò alla cancellazione dei secondi, terzi, quarti e quinti nomi.»
«E quindi? Che c’entra questo con le menzogne?» chiede Jacques.
Nel corso degli anni, mio padre non ha perso solo Michele, il nome del nonno materno, e Arturo, il nome di suo padre, ma anche Vittorio e Benito. E questo getta immediatamente una luce nuova sul mio passato, rende tutto più ambiguo, più complicato – ora papà dice che lo ha sempre saputo di chiamarsi anche come il Duce, e di non averlo mai negato; dice che ce l’aveva raccontato, a me e a mio fratello, quando eravamo piccoli; dice che non era affatto un segreto, e che ci avevamo pure riso tutti insieme. Dice: «Smettila di creare problemi che non esistono». Dice: «Sei tu che ricordi male». Dice: «E poi comunque, ora, che importanza può mai avere il mio nome?».