A novembre, a Pisa, c’è il battesimo di Jacopo. Per passare qualche ora in più con lui, parto da Parigi il giorno prima. Anche se non posso dormire a casa di mio fratello – è troppo piccola, c’è a malapena posto per i miei genitori che sono venuti da Roma –, e mi tocca andare in albergo e io, che negli ultimi tempi viaggio di continuo, gli hotel non li sopporto più – o fa freddo o entra la luce o il letto è troppo piccolo o c’è rumore, insomma, nonostante mi imbottisca di melatonina e di ansiolitici, la notte dormo malissimo. Ma non importa, penso arrivando in albergo, aprendo la porta della camera, posando il trolley sul letto, uscendo di corsa e precipitandomi a casa di Arturo. Chissà quant’è cresciuto Jacopo dall’ultima volta che l’ho visto!
Il primo giorno in cui l’ho preso in braccio, senza rendermene conto, gli ho sussurrato: «Amore della mamma». Mi sono morsa le labbra e ho detto: «È bellissimo». Ho detto: «Tesoro». Ho detto: «Amore della zia». Nessuno si è accorto di nulla, ho pensato inghiottendo un grumo di saliva.
Quando entro in casa e vedo il bimbo sistemato nella culla che contempla le apine del carillon, mi commuovo. È cresciuto tanto, sì. Ora segue con lo sguardo quando lo si chiama, inizia a tenere la testa dritta, gioca con le manine e i piedini.
Saluto al volo mamma e papà, mi lavo le mani, mi lego i capelli. Ma faccio appena in tempo a prendere in braccio Jacopo, che già sento mio padre che brontola: «Attenta alla testa, mi raccomando!».
Lo ignoro.
Sento papà che dice: «Arturo, il bimbo piange, prendilo tu!».
Lo ignoro.
Sento papà che, rivolto a mia madre, dice: «Michela non è capace, fai qualcosa, intervieni, non restartene lì impalata, su!».
Non posso più ignorarlo – d’un tratto, mi sembra di essere tornata adolescente, quando stavo preparando il concorso alla Normale di Pisa e avevo sentito mio padre parlare con mamma: «Studia tanto, sì, ma non ce la farà, non è in grado, non ha la stoffa».
Quando la sera torno in hotel, sono ancora agitata e nervosa. Prendo una compressa di Xanax, chiamo Jacques, che per questioni di lavoro è dovuto restare a Parigi, e mi sfogo con lui per oltre mezz’ora. Ma non c’è niente da fare. Nonostante lo Xanax e le parole di Jacques, non riesco a dormire. Cioè, mi addormento ma mi sveglio di continuo. E poi c’è un incubo che, a un certo punto, mi impedisce definitivamente di riprendere sonno: scendo dal treno convinta di essere arrivata a destinazione ma, una volta sul binario, mi accorgo di essermi sbagliata. Non capisco cosa sia successo, in genere sono molto attenta, ma oggi non mi raccapezzo. Ho perso del tutto il senso dell’orientamento e, dopo essere rimasta immobile alcuni minuti, inizio a vagare alla ricerca di informazioni. Non so dove sono. Non so nemmeno più dove devo andare. È notte fonda e la stazione è vuota. Poi, mentre erro nel sottopassaggio, realizzo che il treno che devo prendere sta per partire dal binario n. 6. Arrivo di fronte alle scale. Comincio a salire i gradini due a due. Inciampo. Mi tiro su, ma cado di nuovo. E, quando finalmente raggiungo il binario, è troppo tardi: le porte dei vagoni si stanno chiudendo, e anche se corro, corro, corro, il treno inizia a muoversi e si allontana dalla stazione.
Mi sveglio di soprassalto. Ho ancora davanti agli occhi l’immagine del treno che sparisce all’orizzonte, ma so già che non è un treno che ho perso, è la vita che mi sta passando accanto – se stessi scrivendo una storia inventata, mi si potrebbe rinfacciare che l’immagine è banale, troppo esplicita, e che dovrei fare uno sforzo maggiore per narrativizzare l’idea della perdita; ma non è una fiction, appunto! L’incubo che ho fatto la notte prima del battesimo di Jacopo è proprio questo: un treno che parte lasciandomi a terra, come la vita.
Ho l’inconscio a fior di pelle.
La mia analista lo diceva sempre quando alcuni anni fa, ogni settimana, arrivavo nel suo studio, mi stendevo sul divano, le raccontavo un sogno. Rare sono state le volte in cui ci sia stato bisogno di chiederle aiuto per capirne il significato: il mio inconscio era un libro aperto. Sono stata io a ignorarlo per decenni, facendo finta che non esistesse e andando dritta per un’altra strada.
Ho l’inconscio a fior di pelle. Ma era tanto che non succedeva che mi svegliassi in un bagno di sudore, in preda al panico.
Ho quasi cinquant’anni e sono in premenopausa. Ho iniziato una terapia di sostituzione – è bastato che la ginecologa me la proponesse per dire subito: «Sì, certo che la faccio, le pare?». Ma è inutile giocare con gli anni; non sono quegli ormoni sintetici a bloccare il processo, l’orologio biologico ha detto “basta”: è troppo tardi, non c’è più nulla da fare.
Mai una volta, da bambina o da adolescente, avevo immaginato un futuro senza figli. Era ovvio che anch’io sarei diventata madre. Era scontato. All’epoca c’era la scuola, certo: quei pomeriggi interi passati sui libri e sui quaderni, la maestra l’avrebbe capito che la più brava della classe ero io, bastava che mi impegnassi, bastava che giocassi meno, bastava che non perdessi tempo con i vestiti e tutte quelle cose frivole che avrebbe voluto farmi fare mamma – non sono come lei, papà, te lo giuro, non ti deluderò, promesso. Poi è arrivata l’università – gli anni alla Normale, un esame dopo l’altro, la laurea, il dottorato, c’è tempo per i figli, ora è troppo presto. Poi l’anoressia e i vent’anni di psicanalisi – «Lei pensa che alla fine ce l’avrò anch’io una famiglia e riuscirò a diventare madre?» chiedevo alla mia analista, che annuiva: «Se è quello che desidera, ci riuscirà, certo, perché ne dubita? In ogni caso lo spero; se è quello che desidera davvero, glielo auguro di cuore!».
Non ho mai smesso di crederci.
Dovevo solo avere pazienza. E non precipitare le cose.
Quand’ero adolescente, mi capitava spesso di fare incubi. Mi svegliavo di soprassalto in piena notte urlando: «No!». Era sempre lo stesso sogno. C’era papà. C’ero io. Litigavamo. E ogni volta mi destavo gridando: «No!». Tutti quei “no” che non riuscivo a dirgli durante il giorno, perché papà era granitico, non gli si poteva tener testa, lui insisteva, insisteva, insisteva. Fino a quando, impotente, cedevo: «Va bene, hai ragione tu!».
Papà era il punto di partenza e di arrivo di qualunque discussione. Inutile provare anche solo a contraddirlo. Anche se aveva torto, torto marcio. E ci ho messo vent’anni di analisi per capire che non sarebbe mai cambiato, e che ero io che dovevo smettere non solo di cercare il suo assenso, ma anche di dargli sempre ragione.
Due vite distinte. Separate.
Se volevo anche solo provare a convivere con le mie fratture, trovare un modo per andare avanti, e smetterla di girare su me stessa come una mosca prigioniera di un bicchiere capovolto, dovevo rassegnarmi e mettere una croce su tutto quello che avrei voluto ricevere da mio padre e che, però, non avevo mai ottenuto.
E allora perché, oggi pomeriggio, non l’ho ignorato? Perché, quando gli ho sentito dire: «Michela non è capace», non ci ho più visto dalla rabbia? Perché, adesso, non riesco più a riaddormentarmi? Chi ha nuovamente capovolto il bicchiere, imprigionandomi all’interno di uno spazio soffocante?
Non ho mai smesso di credere che, prima o poi, anch’io sarei diventata madre.
Dovevo solo avere pazienza. E non precipitare le cose.
Prima che tutto precipitasse.