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Dopo il battesimo di mio nipote, invece di tornare subito a Parigi, decido di accompagnare i miei genitori a Roma. Ho bisogno di parlare con mio padre, mettere in chiaro alcune cose. Voglio anche cercare di capire un po’ meglio questa storia del suo nome. Perché lo avevano chiamato Benito? Andava di moda negli anni Trenta? Era una sorta di omaggio al dittatore? Un dazio da pagare? Era così in tutte le famiglie meridionali?

«Tuo nonno era fascista» dice mio padre. Siamo in cucina, stiamo cenando. E lui risponde tranquillo, sereno, come se stesse evocando qualcosa di già noto.

«E tu come lo sai?» chiedo con un fil di voce. Lo stomaco mi si chiude. Abbandono il cucchiaio nella zuppa e lo fisso.

Papà dice che sentì il nonno ammetterlo nel 1953, quando si presentò alle elezioni politiche con il Partito nazionale monarchico e alcuni salentini, durante un comizio, lo attaccarono violentemente: «Ssignuria, cce sta dici? Nu sinti monarchicu, sinti fascista!». Lo fischiarono dicendo che era rimasto sempre fedele al Duce; gridarono che faceva solo finta di credere agli ideali monarchici e che mentiva. E allora pare che il nonno avesse risposto che era vero che nel 1919, tornato dal fronte, aveva seguito Mussolini, ma che poi, una volta vinto il concorso in magistratura, non aveva più rinnovato la tessera del Partito fascista.

«Ma è stato un sansepolcrista?» Sono incredula. Mi viene addirittura il sospetto che papà mi stia prendendo in giro.

«San Sepolcro, sì, questo nome mi dice qualcosa.»

Sono esterrefatta. Il nonno un sansepolcrista? E per quale motivo papà non me l’ha mai detto? Com’è possibile che, in cinquant’anni, questa storia non sia mai venuta fuori? Mi sento tradita.

«Ma poi, nel 1922, tuo nonno è diventato magistrato e non ha più rinnovato la tessera» ripete mio padre, senza accorgersi del vero problema che c’è dietro tutta questa storia: l’adesione immediata del nonno ai Fasci. Che poi il 23 marzo, in piazza San Sepolcro, erano appena trecento. Trecento poveracci, papà!

«Che cosa ti ha detto il nonno quando gli hai chiesto spiegazioni?»

Papà dice di non ricordare. Dice che ci sono cose che, forse, non ha mai saputo. Dice che comunque, al nonno, non chiese alcuna giustificazione. Anche se a me questa cosa non torna e, ascoltando mio padre, penso solo alla storiella di quell’uomo che, interrogato dalla polizia a proposito di un’aggressione avvenuta di fronte alla vetrina del suo negozio, rispondeva impassibile: Non c’ero, se c’ero non ho visto, se ho visto non ricordo. Era un aneddoto che papà aveva raccontato a me e a mio fratello quando eravamo piccoli, e che a noi era piaciuto talmente tanto che poi la frase era diventata una sorta di ritornello, ogni volta che succedeva qualcosa e papà ci chiedeva spiegazioni: chi ha rotto il vaso? Non c’ero, se c’ero non ho visto, se ho visto non ricordo; dov’è il libro che avevo lasciato in sala da pranzo? Non c’ero, se c’ero non ho visto, se ho visto non ricordo.

«Ti pare che non ha chiesto, Jacques?»

Telefono a mio marito. Ho bisogno di sfogarmi. Anche se lui sta iniziando a innervosirsi, non capisce perché non sia ancora tornata a casa, e mi dice che quest’ansia che mi ha preso di scavare nella storia della mia famiglia lo preoccupa.

«Ti sembra possibile che papà abbia lasciato correre così? Nel 1953 aveva solo sedici anni, d’accordo. Ma a sedici anni si chiede, a sedici anni ci si interroga, a sedici anni non si ignora così il fascismo di un padre, no?»

Sono incredula. Anche perché mio padre mi ha sempre detto che lui era diventato socialista quand’era adolescente: in vico della Giudecca, dietro casa sua, viveva un fabbro, mesci’ Ucciu, che gli aveva aperto gli occhi sulla questione del Meridione e sulla giustizia sociale. «Com’è che poi, quando scopre che il padre è stato fascista, non gli chiede spiegazioni?»

Jacques dice: «In Italia, la defascistizzazione dell’amministrazione e della magistratura non c’è mai stata». Dice: «Dopo gli anni immediatamente successivi alla guerra, non si è più parlato del fascismo». Dice che a scuola non lo si studiava e sui giornali si taceva; dice che negli anni Cinquanta dominava la paura del comunismo, soprattutto tra i notabili e gli aristocratici, e che il passato era passato, punto. Dice: «Se non impari a contestualizzare gli eventi, non vai da nessuna parte».

«E dopo?» gli chiedo. «Perché papà non ha cercato in seguito di capire meglio la storia di suo padre, magari quando lui stesso è diventato padre? La nascita di un figlio ti spinge a fare i conti con il passato, no?»

Nella casa dei nonni, a Campi Salentina, c’era una teca piena di medaglie, bottoni, nastri e fascette – sono anni che non ci penso, mi stupisco persino che questo ricordo sia ancora lì, nascosto in qualche piega del cervello. Quando da bambina passavamo le vacanze in Salento, vedevo la teca ogni volta che, giocando a nascondino, scomparivo in uno dei saloni della casa – ce n’erano quattro, uno dietro l’altro, con le volte affrescate e la tappezzeria in tono con i colori dei dipinti. La teca era appesa alla parete del salone rosso, quella di fronte al pianoforte, dov’erano esposte le foto di famiglia. Chissà che fine ha fatto, mi dico non appena l’immagine mi compare davanti agli occhi. Speriamo che non sia andata persa quando la casa di Campi è stata svuotata.

«Tu lo sai dove sono le medaglie del nonno, papà? Quelle che erano appese al muro nel salone rosso, ti ricordi?» Papà fa sì con la testa. Poi: «Me le ricordo perfettamente, ma non ho la più pallida idea di dove possano essere, mi dispiace».

«Cerchiamo, dài!» Papà sbuffa. «Sono sicura che sono qui a Roma, da qualche parte.»

Papà non ha affatto voglia di cercare. Poi però, visto che insisto, si alza dalla poltrona della sala da pranzo e si dirige verso il suo studio. Spalanca l’anta di un armadio, apre i cassetti della scrivania, solleva il coperchio di una cassapanca. Niente. A parte decine e decine di scatole piene di scartoffie e cianfrusaglie, non si trova nulla di interessante, tanto meno la teca con le medaglie del nonno.

«Hai provato a vedere nell’armadio a muro in corridoio?»

Mia madre entra nello studio e, quando le spiego che stiamo cercando la teca con le medaglie di nonno Arturo, dice che forse è lì.

Prendo una scala, la sistemo a fatica, il corridoio è talmente stretto che non riesco nemmeno ad aprirla del tutto – «Attenta a non cadere», «Ora ti fai male», «Non rompere nulla» brontola mio padre.

Quando arrivo in cima e apro l’armadio, ho un momento di scoraggiamento. C’è troppa roba, non si capisce nulla. Sposto due vasi in porcellana, scosto un cappotto, tiro fuori una busta piena di vecchi vestiti. Poi, finalmente, la vedo. Appoggiata alla parete e avvolta nella carta velina, la teca con le medaglie è esattamente dove mamma mi aveva detto di cercare.

Scendo dalla scala facendo attenzione a non scivolare, vado in sala da pranzo, poso la teca sul tavolo, tolgo la carta velina, inizio a guardare.

Non è proprio una teca, è piuttosto una grande cornice, solo che al posto del quadro, incollato sulla base, c’è un tessuto rosso rubino su cui sono state cucite medaglie, bottoni militari, nastrini e documenti, c’è persino un orologio.

Comincio a fissare le medaglie che occupano l’intera parte bassa del quadro, poi sollevo lo sguardo e, in alto a destra, vedo una tessera, anche lei cucita sul telo rosso da entrambi i lati.

Iscritto al P.N.F. il: 15/5/1919

ha interrotto l’adesione il: ...........

Riammesso il ...........


Annotazioni: SQUADRISTA

SCIARPA LITTORIO

Per alcuni istanti mi manca l’aria. Anche se, nel momento stesso in cui scrivo le parole “Per alcuni istanti mi manca l’aria”, la frase mi sembra di una tale banalità che vorrei cancellarla, mi arrabbio con me stessa, è mai possibile che non trovi altro da dire? Scopro che mio nonno – che era peraltro un raffinato giurista, un uomo colto che, dopo essersi laureato in Giurisprudenza, aveva voluto prendersi anche una laurea in Lettere – è stato uno squadrista, e commento che mi manca l’aria, come se avessi perso ogni facoltà critica e argomentativa e non potessi far altro che affidarmi a una frase fatta. Ma quali parole si possono utilizzare per descrivere quell’attimo in cui hai la certezza che lo sapevi e al tempo stesso non ci credi, perché non vuoi crederci, non è possibile, non è così, e allora ti viene la nausea, ecco, sì, la nausea, che però inghiotti, te la fai passare, che c’entra ora la nausea? Mio nonno è stato uno squadrista. Punto. E mio padre? Lo sapeva? L’ha accettato? L’ha rimosso?

Chiedo a papà il permesso di tagliare il filo che blocca la tessera, stupendomi per la calma con la quale glielo domando. Chiedo a mamma di darmi un paio di forbicine, anche se adesso la voce mi trema leggermente. Come la mano mentre recido il filo. E lo sguardo che poso sul documento. Anche lui trema, è come sfocato, e devo sbattere le palpebre due, tre volte affinché torni nitido.

È la tessera n. 3722753, rilasciata dal segretario politico del Fascio di combattimento di Lecce, gruppo rionale “Pasquale Leone”, con il nullaosta per il rinnovo dell’iscrizione al PNF nel 1942.

Nella prima pagina, ci sono le informazioni sul percorso militare e fascista del nonno:

Sansepolcrista = no; Squadrista = sì; Marcia su Roma = sì (n° 108702 del brevetto); Sciarpa Littorio = sì; Decorazioni al valor militare = medaglia di bronzo (1917); Ferite e mutilazioni di guerra = sì.

Nella seconda, c’è una foto d’identità – il nonno è irriconoscibile, questa foto non assomiglia a nessuna delle altre che ho di lui: Arturo ha lo sguardo corrucciato e severo, i tratti duri, la bocca chiusa, la mascella serrata.

Immediatamente sotto la foto, c’è il giuramento prestato a Mussolini:

Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario col mio sangue, la causa della Rivoluzione Fascista.

In basso a destra, c’è la firma:

IL FASCISTA Arturo Marzano.

Mostro la tessera a papà, il dito puntato su: “IL FASCISTA Arturo Marzano”. Gli chiedo se anche lui, come me, si sente a disagio – anche se la parola “disagio” non rende affatto come mi sento, perché non sono a disagio, cioè, sì, lo sono anche, ma non è solo disagio ciò che provo, sono delusa e affranta e tradita e furibonda, la mia storia è falsa dall’inizio alla fine, sono cresciuta illudendomi di venire da una famiglia di sinistra, una di quelle che ti trasmettono i valori belli, l’uguaglianza e la giustizia, il terzo stato e l’internazionale socialista, e ora scopro che è tutta una menzogna! Quale sinistra, papà? Tu forse sei sempre stato di sinistra, ma io non avevo il diritto di sapere che tuo padre era stato fascista, uno di quelli puri e duri, una fascistissima testa di cazzo? A San Sepolcro non c’era, d’accordo. Ma è stato uno squadrista, ha partecipato alla marcia su Roma ed è stato decorato con la sciarpa littorio, mica è uno di quelli che la tessera l’ha presa negli anni Trenta, quando ormai ce l’avevano quasi tutti, chi per far carriera o conservare il posto di lavoro, chi per seguire la corrente o per amor di quiete, chi per bieco qualunquismo...

«Non ti senti a disagio, papà?»

Ma papà non risponde. Per alcuni istanti resta silenzioso. Poi: «Quando hai finito, rimetti tutto a posto, mi raccomando». Poi: «Sistema bene tutto, altrimenti le medaglie si rovinano». Poi: «Torno nel mio studio, ho ancora molto lavoro».

«Tuo padre, la realtà, non ha mai voluto affrontarla» commenta mamma. «Hai visto come reagisce?» Ora sono io che non dico nulla. Non ho voglia di ascoltare le recriminazioni di mia madre. Ho la testa altrove.

«E quelle medaglie sulla sinistra cosa sono?» Mamma si deve essere resa conto che non è il momento adatto, e cambia discorso. «Perché il nastro è triangolare e non rettangolare?»

Non avevo fatto caso al dettaglio del nastro. Guardo con più attenzione, mi soffermo sui colori, fisso le scritte incise. E mi accorgo che, tra le decorazioni e i distintivi cuciti sulla stoffa, ci sono alcune medaglie austriache. C’è una croce militare VITAM ET SANGUINEM con un nastro di colore giallo con le righe nere; c’è una medaglia d’argento con l’effigie di Carlo I e un nastro rosso con le righe bianche; c’è pure una croce ricordo della guerra nei Balcani del 1912. Che ci fanno qui queste medaglie? Pensavo che fossero tutte legate alla guerra 1915-18. Ma ancora una volta mi sbaglio. Solo la croce della 3a armata del Duca d’Aosta e la medaglia di bronzo al valor militare sono legate alla Prima guerra mondiale. Alcuni distintivi sono austriaci, molti altri, come la medaglia da commendatore dell’Ordine della Corona e la medaglia di bronzo della marcia su Roma, sono successivi.

«E questo cos’è?» chiede di nuovo mia madre. Forse ha visto che sto tremando. Forse cerca anche lei di pensare ad altro. «Assomiglia alla tua tessera della Camera, non trovi?»

Questa volta non c’è bisogno di usare le forbicine, la tessera è in una custodia di cuoio e basta pigiare leggermente sui bordi per sfilarla.

Si attesta che l’Onorevole Arturo Marzano di Ferruccio e fu Giulia Ragusa, nato a Botrugno il 1° gennaio 1897, è Deputato al Parlamento, tessera n° 590, Roma, 1° luglio 1953.

A sessant’anni esatti di distanza, io e mio nonno condividiamo qualcosa. Nel 2013, anch’io sono diventata deputata. Eletta nelle file del PD, però. Il mio posto era nella parte sinistra dell’emiciclo, e le battaglie che ho fatto sono state contro la Lega e contro Fratelli d’Italia, contro Forza Italia e contro tutti gli altri partiti e partitini e movimenti di destra o centro-destra. Tutte le mie battaglie. Sempre.

La tessera della Camera di mio nonno, nella teca, è cucita insieme alle medaglie della Prima guerra mondiale e alla carta del PNF. Il sacro misto al profano. L’orgoglio e il disonore. Tutto insieme e tutto confuso. Chi aveva costruito, e poi lasciato intatto per anni, quest’osceno santuario?

La teca era appesa nel salone rosso della casa di Campi. La casa d’infanzia di papà; la casa in cui era nato e cresciuto; la casa dei nonni e dei bisnonni; la casa dei suoi genitori; casa nostra.

Fino al 1977, mio fratello e io ci siamo andati ogni estate. Dopo la morte della nonna Rosetta e la divisione del palazzo tra mio padre e sua sorella, abbiamo cominciato ad andarci di rado. Poi abbiamo definitivamente smesso. Col passare degli anni, la casa è andata in rovina. C’è stato un incendio che l’ha devastata. Parte dei mobili, dei quadri, dei tappeti e dei vasi sono stati rubati. Libri e documenti sono stati accatastati prima nel vecchio studio di mio nonno, poi nello scantinato delle cugine, che è attiguo al nostro. La memoria a brandelli. Almeno fino a quando non ho preso la decisione di recuperare la casa. Era in vendita da tempo, il compromesso stava per essere firmato – «Chi ce li ha i soldi per metterla a posto e mantenerla, figlia mia?». «Non la vendere, papà! La prendo io.» «Tu? E come fai?» «Non lo so, poi ci penso, poi vediamo, tu però non venderla, ti prego!»

Ero stata da poco eletta alla Camera. «Il secondo onorevole Marzano» aveva commentato Alfredo, mio cugino, il figlio della sorella di papà. «Che c’entra, dài!» avevo risposto imbarazzata, pensando al fatto che il nonno era stato un deputato monarchico: da magistrato aveva prestato giuramento a Vittorio Emanuele III, e fino alla fine della sua vita era rimasto fedele ai Savoia.

Perché il nonno era rimasto fedele a un re che, subito dopo la firma dell’armistizio, era fuggito da Roma, abbandonando il suo popolo e pensando solo a salvare se stesso?

C’era una volta un re, seduto sul sofà, che chiese alla sua serva, raccontami una storiella. La serva incominciò. C’era una volta un re, seduto sul sofà, che chiese alla sua serva, raccontami una storiella. La serva incominciò...

È questo l’unico re serio di cui si parlasse a casa mia quando ero piccola: il re della filastrocca che recitava mamma. L’altro era quel figlio di troia di nome Umberto cognome Savoia, come cantavamo io e mio fratello da bambini, viva Turati, viva Nenni, come dicevano i socialisti durante la campagna referendaria del 1946, e come ci aveva insegnato papà.

Va be’, il nonno era il nonno e papà è papà, mi sono detta per anni. Ma chi era davvero mio nonno? mi chiedo adesso. Era un monarchico o non ha mai smesso di essere fascista? E mio padre, poi, perché non ha mai preso un paio di forbici e reciso il filo della tessera del PNF che era nella teca? E io dov’ero? Perché io stessa, per quasi cinquant’anni, mi sono convinta che i fascisti fossero gli altri, che io non avessi nulla da spartire con loro, e che la mia storia e le mie battaglie fossero la prova evidente della mia innocenza? Perché quest’amnesia familiare?

Oggi, sui social, i più virulenti nei miei confronti sono i fascisti. Fascisti, sì, con l’aquila romana o la croce celtica nel profilo e i post di Matteo Salvini o di Giorgia Meloni in bacheca, che mi chiamano “puttana comunista” e scrivono VERGOGNA, io che voglio distruggere la famiglia e poi, il giorno di Natale, posto una foto del presepe; io che, quand’ero in Parlamento, mi sono battuta per la legge sulle unioni civili, e che poi oso dirmi credente. “Vergognati TROIA.” “Altro che onorevole!”

È forse la prima volta che capisco davvero il significato dell’espressione “nemesi storica”.