È un pomeriggio di dicembre, e sto tornando a Parigi da Digione. Per via degli scioperi che, da una quindicina di giorni, stanno paralizzando la Francia, alle 5.30 era passata a prendermi a casa una macchina con autista – impossibile altrimenti raggiungere il Palazzo delle esposizioni per la conferenza di chiusura del congresso cui mi aveva invitato Renater, la rete francese della ricerca e dell’istruzione che raggruppa la maggior parte degli informatici che lavorano nei ministeri o in università. Mi avevano chiesto di parlare della fiducia. Ma che gliene importa a questi della fiducia? avevo pensato durante tutto il tragitto, talmente angosciata che mi era passato pure il sonno. Anche se il problema non era il pubblico, lo sapevo benissimo, il problema era tutto mio: ero io che avevo perso fiducia in me stessa; ero io che da settimane arrancavo: e ora che cosa gli racconto? Come faccio a spiegare che il problema della fiducia è la possibilità del tradimento, adesso che io stessa mi sento tradita dalla mia storia?
Sto tornando da Digione. Non è un autista NCC che mi riporta a casa, ma uno dei partecipanti che rientra a Parigi col proprio capo. Uno di quei dirigenti con gli auricolari sempre nelle orecchie e che alla mia conferenza, ovviamente, non ha assistito – tanto lui di fiducia ne ha da rivendere, che gliene importa delle chiacchiere di una filosofa italiana? Non sa nemmeno esattamente chi io sia quando ci mettiamo in macchina, lui davanti, io dietro – meglio così, penso, sono distrutta! Mi isolo, lo ignoro, dormo. Ma durante il viaggio è impossibile anche solo provare a pensare ai fatti miei, il tipo passa il tempo a strillare al telefono: «Avete dato la chiave d’accesso della piattaforma BNS ai dirigenti scolastici? Avete fatto l’estrazione dei dati? Avete calcolato la frequenza delle connessioni? Dobbiamo mostrare che siamo più performanti della concorrenza e farci fatturare il triplo!». Dà un colpetto al braccio del conducente che annuisce. Poi ricomincia a gridare: «Nella vita si deve sempre essere un passo avanti agli altri; ci si deve mostrare spietati e non lasciarsi mai intenerire dalle défaillances altrui». A un certo punto, non capisco più se parli al telefono, oppure al conducente, oppure direttamente a me, deciso a rendermi partecipe del suo dinamismo manageriale. Mi tappo le orecchie, ma non c’è niente da fare: non riesco a estraniarmi. Sento montare l’ansia e la rabbia. D’un tratto, mi sembra di essere tornata piccola, quando papà accompagnava me e mio fratello a scuola, e io mi tappavo le orecchie per non sentirlo urlare contro Arturo: «Ti devi impegnare, capito? Devi smetterla di comportarti in modo infantile e mostrare agli altri ciò di cui sei capace! Te lo vuoi mettere in testa una buona volta che nella vita si deve sempre essere un passo avanti agli altri? Oppure vuoi essere un perdente? Un fallito?».
Sto tornando a Parigi. Le strade sono bloccate per via degli scioperi. Siamo in coda da oltre due ore. Non ne posso più. Sbuffo.
«Lei è molto agitata» dice a un tratto il tizio con gli auricolari nelle orecchie. Tra una telefonata e l’altra, deve aver sentito i miei sospiri. Chi è un passo avanti agli altri, d’altronde, non si lascia sfuggire nulla, no? «Non so se è così agitata perché non ha nulla da fare oppure se lo è di natura.»
Sento il sangue ribollire – ora lo ammazzo, ora gli spacco la testa, ma chi si crede di essere ’sto coglione?
Dice: agitée, letteralmente “agitata”. Ma in francese c’è una sfumatura peggiorativa che non esiste in italiano. Quando da noi si dice: “Ti vedo agitata”, c’è un vago senso di tenerezza, ci sono comprensione ed empatia. In francese no. Se sei agitée, sei nervosa. E quindi nevrastenica, insopportabile, capricciosa, viziata, nullafacente, rompicoglioni.
Dice: non so se è agitée perché si sta annoiando, oppure se è agitée per carattere. Sottintendendo che c’è comunque qualcosa che non va, vuoi perché non riesco a impegnare in maniera fruttuosa il tempo del viaggio come sta invece facendo lui, vuoi perché sono intrinsecamente debole, una di quelle persone che, nella vita, non concludono mai nulla: una fallita, insomma.
Sento il sangue ribollire – ora lo ammazzo, ora gli spacco la testa, ma quand’è che arrivo a casa? Ingoio rabbia e saliva. Ma non dico nulla, tanto non serve, tanto non capirebbe, tanto è un coglione.
«Che fai, matrizzi? Fatteli passare, ’sti nervosismi inutili» diceva papà quand’ero adolescente e sbottavo. Ma come si fa a non sbottare quando hai di fronte un padre che capisce tutto, conosce tutto, sa tutto meglio di te – «È per il tuo bene che lo dico, ascolta tuo padre, non fare come tua madre, te l’avevo detto, o no, che sarebbe andata a finire così?». Come si fa a non essere agitée quando cresci convinta di non valere nulla, e che gli altri sono migliori, riescono sempre meglio, si fanno valere e rispettare e tu, invece, non conti un cazzo?