Decido di reagire. Se voglio capire perché mi sento di nuovo come una mosca prigioniera di un bicchiere capovolto, devo trovare il coraggio di ammettere l’eredità che mi porto dentro e assumermene la responsabilità. Devo ritrovare fiducia in me stessa. E, per farlo, sono costretta a riprendere in mano tutta la storia di mio nonno e ricominciare dall’inizio. Ma quale inizio?
Dell’infanzia di nonno Arturo non so quasi nulla. So che nacque il 1° gennaio 1897 nel comune di Botrugno, in provincia di Lecce – anche se allora Botrugno era solo una piccola frazione di Nociglia, e comune lo diventò più tardi, nel marzo del 1958, grazie a una proposta di legge presentata alla Camera il 22 settembre 1953 proprio da mio nonno, da poco eletto deputato – e che suo padre, Ferruccio, faceva il maestro. E poi?
Quand’ero piccola, e papà parlava dei suoi nonni paterni, era sempre molto vago. Preferiva parlare della famiglia di sua madre, che era nobile: una delle più importanti e rispettate di Campi! Pare che Ferruccio – il nonno di papà, non mio padre, anche se nella mia famiglia, con questa mania di dare a tutti gli stessi nomi, dopo un po’ ci si perde – fosse un uomo burbero, autoritario. Diventato vecchio, aveva schiavizzato la povera zia Ines, raccontava papà, rimasta zitella e dunque condannata a vivere con lui; non gli andava mai bene niente, e col passare degli anni era diventato davvero insopportabile: «Pensa che quando morì, nel 1960, io ero a Valdagno per ritirare un premio di laurea e mandai un telegramma che fece infuriare zio Gino, ora le parole esatte non me le ricordo, ma scrissi qualcosa del tipo: “Fatale coincidenza decesso caro nonno et conferimento premio Marzotto migliore tesi laurea che impedisce partecipare funerali prego zio Gino baciare spoglie mortali nonno...”».
«E nonna Giulia?» lo interrompo. «Com’era tua nonna?»
Approfittando delle vacanze di Natale, con Jacques siamo andati a Roma, e io ho la ferma intenzione di lavorare al libro e di raccogliere tutte le informazioni utili.
«Morì nel 1923, molti anni prima che io nascessi. Tuo nonno, da ragazzo, era legatissimo alla madre, ma di lei non so granché. So solo che era una donna molto buona e che, forse proprio per questo, era succube del marito. Ma non avendola mai conosciuta, faccio fatica a metterla a fuoco.»
Guardo le due foto appese al muro nello studio di papà, di fronte alla sua scrivania – «Sono le uniche che ho!» si lamenta; chissà dove sono le altre... Nella prima immagine, Arturo è piccolo: deve avere un paio di mesi, è in braccio a sua madre e fa il broncio. Seduta su una sedia di legno, con i capelli raccolti morbidi sulla nuca, Giulia non sorride: ha il viso contratto, gli occhi velati di mestizia, sembra preoccupata. Ha una mantellina di pizzo nero sopra un vestito chiaro, lungo fino ai piedi, con le maniche a sbuffo; ha un anello al mignolo della mano sinistra e un paio di orecchini di perle. Ferruccio, il marito, è in piedi dietro di lei e la sovrasta: una mano appoggiata sulla spalliera della sedia, l’altra su un bastone di legno. Ha una giacca scura a doppio petto, una camicia bianca, i baffi lunghi e arricciati all’insù, alla moda Vittorio Emanuele, due occhi lunghi e stretti, leggermente socchiusi. La seconda foto è del giugno del 1902, c’è un’annotazione in basso a destra che lo dice. Arturo ha cinque anni: con la mano destra impugna una tromba, con l’altra serra la manina di sua sorella Pia, che ha appena compiuto quattro anni e stringe al petto una bambola. Giulia ha lo stesso viso melanconico e contratto che aveva già nella prima foto, tutta vestita di nero, con in braccio la piccola Sara. Ferruccio, ancora una volta, sovrasta tutti: è in piedi accanto alla moglie e ha le mani posate sulle spalle di Arturo e Pia. Cravattino, doppio petto, fazzoletto nel taschino della giacca, baffi arricciati all’insù, sguardo distante.
«Che ci faceva tuo nonno in doppio petto a giugno? È assurdo col caldo che fa sempre in Salento. E poi com’è che nessuno sorride in queste foto, papà?»
Mi è vicino, anche lui sta guardando le fotografie.
Nemmeno mio padre sorride nelle foto, non ci riesce proprio, neanche quando ora provo a fotografarlo col cellulare e gli grido: «Sorridi, papà! Dài! Almeno prova!».
«Sono ritratti di famiglia, Michela» mi risponde. «Perché dovrebbero sorridere?»
Quando torno a Parigi, non sono soddisfatta. Nonostante abbia chiesto più volte a mio padre di raccontarmi tutto ciò che ricorda, non sono riuscita a scoprire niente di nuovo.
«Se vado avanti così non concludo nulla» dico a Jacques. Sono scoraggiata.
È allora che mi viene in mente la cornice con le foto di mio nonno che, alcuni anni fa, avevo voluto prendere e portare con me in Francia. Non ho la minima idea del perché, quel giorno, abbia chiesto a mio padre di darla a me. Non so nemmeno più che fine abbia fatto dopo l’ultimo trasloco: nella casa dove vivevo prima, la cornice era appesa alla parete di fronte alla mia scrivania, ma adesso dov’è?
C’è una scatola che, nonostante sia passato più di un anno dal trasloco, non ho ancora disfatto. Dopo averla riempita, sul coperchio avevo scritto col pennarello rosso: “Cose personali”. Dentro ci avevo messo un po’ di tutto, alla rinfusa, ripromettendomi di fare con calma una cernita una volta arrivata nel nuovo appartamento. Terminato il trasloco, però, l’avevo accantonata; volevo prima sistemare i vestiti, le stoviglie, la biancheria, i libri, i documenti amministrativi e universitari. Avevo messo la scatola nell’armadio basso del mio studio, dicendomi che tanto non c’era fretta. Poi i mesi erano passati e non ci avevo più pensato.
Oggi decido di aprirla. Recido il cordone che la circonda, tolgo il coperchio, inizio a frugare: lettere, diari, foto, c’è davvero tanta confusione, forse è per questo che non mi ci ero mai messa prima. La cornice, però, la trovo facilmente, è piuttosto grande, faccio solo fatica a tirarla fuori perché è proprio in fondo, sommersa di carte.
Quando finalmente l’ho in mano, prendo un coltello, sollevo i gancini di ferro che bloccano il vetro, tiro fuori le fotografie. Le osservo, le giro, e scopro che, dietro ogni immagine, c’è una didascalia con la data, il luogo, le circostanze e i motivi.
Nella cornice che mi sono portata a Parigi, c’è praticamente tutta la storia di mio nonno.
La prima foto su cui mi soffermo risale al 1917: il nonno è in divisa. Sul retro del ritratto c’è una data: 30 marzo; c’è un luogo: Bologna; c’è un commento: aspirante del fronte (Trentino). Arturo è in posa, la mano destra appoggiata sul fianco, la sinistra lungo il corpo, in parte coperta da un mantello di lana.
Non so perché si sia fatto fare questo ritratto. La foto è in perfette condizioni: non c’è una piega, non c’è un graffio, i bordi non sono consunti. Forse se l’è fatta scattare per mandarla alla madre. Se l’avesse tenuta con sé durante la guerra si sarebbe rovinata. Era senz’altro per sua madre, mi convinco. E intanto l’immagine di Giulia mi compare davanti agli occhi, come se mi stesse davvero accanto. Guarda la foto e piange. Non si capacita di come possano spedirli al fronte così giovani, tanto lontani da casa, senza un’adeguata preparazione militare – come farà il suo Arturo col freddo del Nord, la neve e il ghiaccio? Lo sa anche lei che in Trentino la temperatura è spesso di 14, 15 gradi sotto zero, lo dicono le madri di chi, su quel fronte, c’è già, e ricevono lettere in cui i figli raccontano che il pane arriva gelato, non si riesce ad aprirlo nemmeno con il coltello.
Giulia è preoccupata, ma non dice nulla al marito, non vuole che si innervosisca con lei, non vuole soprattutto che se la prenda con gli altri figli; ogni giorno, mentre legge i giornali, Ferruccio inveisce contro chi si ostina a condannare la guerra: si dovrebbero vergognare! Dove sono l’amor di patria e il sacrificio? “Ma allora perché non è partito lui al fronte?” pensa ogni giorno Giulia. “E poi che c’ha da urlare sempre? Ora mi sveglia Gino, voglio proprio capire chi lo fa riaddormentare, il piccino...”
Giulia è in cucina, sta impastando la farina con l’acqua per fare le orecchiette, la salsa è già pronta, “meno male che quest’anno la grandine non ha rovinato i pomodori dell’orto” si dice. Poi ripensa al giorno in cui Arturo è partito, fiero di servire la patria e di compiere il proprio dovere – «Non è a morire che condurrò i miei soldati, mamma cara, ma a vincere; di questo puoi essere certa, te lo prometto! Saprò tenere alto il nome della nostra famiglia!» –, e gli occhi le si riempiono di lacrime.
Mi torna in mente la medaglia di bronzo al valor militare cucita sul tessuto rosso della teca conservata a Roma. Scrivo una mail a Stefano, un amico che studia la Prima guerra mondiale, per capire dove posso trovare informazioni su queste medaglie. Mi risponde di dare un’occhiata ai bollettini delle nomine e promozioni degli ufficiali: “Cerca quelli pubblicati dal ministero della Guerra”. Mi spiega che la maggior parte delle medaglie al valor militare venne assegnata proprio nel 1922. Aggiunge che è senz’altro in un regio decreto che devo cercare il nome di mio nonno. “Puoi farlo anche da casa; l’archivio della ‘Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia’ è online, trovi qualunque decreto, legge o bollettino che sia stato pubblicato tra il 1860 e il 1946. Ti mando qui di seguito il link. Basta specificare l’anno e il mese e ti compaiono tutti i numeri, inserzioni comprese.”
Grazie all’aiuto di Stefano, mi ci vuole davvero poco per trovare il decreto dell’11 maggio 1922 e, al suo interno, la sezione relativa all’elenco di ricompense al valor militare per la guerra. Alla pagina 1086, accanto al nome del nonno, c’è la motivazione per la quale gli venne assegnata la medaglia di bronzo:
Comandante di un gruppo di mitragliatrici in un violento attacco di posizioni nemiche, sprezzante del pericolo, il sottotenente complemento del 154° reggimento fanteria Arturo Marzano si recava presso i reparti dislocati a varia distanza fra loro, per animarli con la sua presenza e col suo sereno contegno, trascinandoli poi con slancio contro posizioni da conquistare – Castagnevizza (Carso), 20-24 agosto 1917.
È esattamente quello di cui avevo bisogno: mio nonno, nell’estate del 1917, combatteva sul Carso ed era sottotenente del 154° reggimento fanteria. Faceva dunque parte della brigata Novara, la brigata che, a fine maggio, venne inviata dal generale Cadorna sul fronte di Castagnevizza in sostituzione dell’ormai decimata brigata Barletta.
Pare che Luigi Cadorna, l’allora capo di stato maggiore dell’esercito italiano, fosse irremovibile: nonostante il morale scosso delle truppe, le offensive frontali contro gli austroungarici dovevano continuare, anzi, dovevano intensificarsi; nonostante il moltiplicarsi dei morti, dei feriti e dei dispersi, i soldati italiani dovevano spezzare le linee carsiche per mettere il nemico con le spalle al muro. Cadorna aveva scommesso tutto sulla grande battaglia della Bainsizza. La guerra doveva andare avanti, e doveva essere vinta.
Cerco di leggere qualunque cosa trovi su quei mesi. Mi concentro soprattutto sulle lettere dal fronte, le cartoline dagli ospedali militari, i giornali di trincea. Prendo appunti e trascrivo lunghi passaggi, parola per parola, senza nemmeno correggere gli errori ortografici o grammaticali, sono una prova anche quelli del bisogno che aveva chiunque, indipendentemente dal grado d’istruzione, di scrivere, raccontare, lasciare una traccia della disperazione o della paura, della voglia di farcela o del coraggio – “Amatissima mamma” scrive in una lettera ai genitori Americo, “il nemico tentava sorprenderci col mezzo barbaro di gasse affissiante che inverderisce gli abiti, i bottoni, l’erba e fa fermare gli orologi”; “Dormendo ho sognato un sogno che quando mi sono svegliato, mi ha lasciato un po’ nella tristezza” scrive Flavio alla sorella, “perché avanti ai miei occhi confusi si prospetta nuovamente il quadro del sacrificio”; “Carissima” si legge in una cartolina di Francesco alla moglie, “chiedi insieme coi miei bambini una messa e va a ascoltarla e pregate che mi preservi dei pericoli per me questo giorno come pure per i miei compagni deve essere un giorno di inferno però coraggio se andiamo contro il barbaro nemico e speriamo di poter portare una gloriosa vittoria”.
E poi ci sono tutte quelle madri e quelle mogli che, in assenza di lettere o cartoline, si recano tremanti nelle sezioni e sottosezioni dell’ufficio per le notizie alle famiglie dei militari, gli occhi pieni di angoscia, pallide. «Come nessuna notizia? È morto?» «Se fosse morto, il decesso ci sarebbe stato comunicato dal cappellano, signora, non si agiti!» «È ferito?» «Nemmeno, signora, chiunque entri o esca da un ospedale viene censito.» Lo racconta Gida Rossi, l’ispettrice generale, nelle sue memorie, parlando delle schede colorate che venivano via via smistate nelle sezioni regionali, provinciali e comunali dell’ufficio, e che annunciavano, già col colore, la sorte dei soldati: morto, ferito, uscito dall’ospedale, disperso. Le signore addette ai controlli sfogliavano gli schedari: nome, cognome, età, classe, distretto; e il cuore si stringeva davanti al grigio listato a nero che era il colore della morte: come comunicarlo a una madre? Quali parole usare per dirle che il figlio non sarebbe più tornato a casa?
Alla fine della decima battaglia dell’Isonzo, gli austriaci si sono ritirati sulla linea che va da Tolmino a San Daniele. Il 29 maggio, i fanti del 154° reggimento ricevono una lettera in cui il comandante Reghini si felicita con loro per il coraggio e l’ardore dimostrati. “La fiducia in voi e nel vostro spirito di sacrificio era ben riposta” scrive Reghini ai suoi soldati. “Su terreno non conosciuto, aspro, insidioso nel punto ove culmina la grandiosa lotta col nemico secolare della Patria, voi avete saputo compiere serenamente, bravamente il vostro dovere. Io vi vidi fermi sotto bombardamenti di inaudita violenza, io vidi gli slanci dei migliori fra di voi, di quelli che guardano al di là dello stesso dovere, e sono orgoglioso, fiero del mio 154°.”
Ma il sangue già sparso non sembra bastare allo stato maggiore. Cadorna inveisce: si può fare meglio, si può fare di più. Cadorna insiste: si deve vincere, dovete vincere, soldati, nel nome santo dell’Italia! All’armata del generale Capello viene allora chiesto di conquistare l’altopiano di Ternova e l’altopiano della Bainsizza; all’armata del Duca d’Aosta, di superare le difese del monte Hermada e di aprirsi la strada verso Trieste.
Gli ufficiali ricevono una circolare con istruzioni molto precise direttamente dallo stato maggiore: stanno iniziando a diffondersi idee sovversive, ufficiali! E c’è chi tenta di far dimenticare per un incerto domani di pace l’ignominia dei nemici.
Gli ufficiali si mettono in riga e obbediscono. Anche Arturo sorveglia il contegno dei propri soldati, come gli è stato ordinato di fare. Ma lui è meno rigido di altri: li conosce bene gli uomini del suo battaglione, e sa che sono tutti soldati valorosi. «È inutile mostrarsi diffidente» dice al tenente Scotti. «Ritengo che sia controproducente invocare le severe punizioni cui la circolare fa riferimento, non crede, tenente?»
La brigata Novara è col Duca d’Aosta. E quando il 17 agosto, alle 6 del mattino, i 3750 cannoni concentrati a Bainsizza aprono il fuoco dal Mrzli al mare, i fanti del 153° e del 154° reggimento approfittano dello sbarramento costruito sull’Isonzo nei pressi di Caporetto, e si posizionano per sferrare l’attacco. Sono in trepida attesa: sarà la battaglia decisiva, sono in tanti a dirselo, a sperarlo, a ripeterselo. Anche se quell’umido terribile che sale dal fiume durante la notte entra nelle ossa, le trincee sono infestate dai topi e dai pidocchi, i viveri scarseggiano, basterebbero un tozzo di pane e un bicchiere di vino per calmare la nausea.
All’alba del 19 agosto, la fanteria lancia l’attacco: la brigata Novara e i bersaglieri della 4a divisione raggiungono le macerie del villaggio di Selo e la prima linea a ovest di Castagnevizza. Il nemico è dapprima colto all’improvviso, poi reagisce con l’artiglieria e le mitragliatrici. Le truppe italiane non riescono a sfondare, rallentano, si bloccano. Alle 22, gli italiani sono costretti a ripiegare sulle linee di partenza. «Copritevi il viso!» urla mio nonno. Lo vedo. Lo ascolto. Gli sono accanto. «Gli occhi, riparatevi gli occhi e la bocca, ragazzi! I proiettili sono pieni di gas.» Il sottotenente Arturo Marzano si sposta da un reparto all’altro, corre, incoraggia i compagni d’armi, li esorta a non mollare. «È una questione di onore, soldati! Lo racconteremo ai nostri figli, pensate alla fierezza con la quale parleremo ai nostri discendenti del Carso e del Piave!»
La scena mi appare davanti agli occhi, nitida, come se la stessi vivendo in prima persona, come se fossi anch’io a Castagnevizza. Provo la stessa paura e la stessa rabbia di mio nonno, il suo stesso desiderio di tornare a casa per dire al padre: “Ce l’ho fatta! Puoi essere fiero di tuo figlio!”. Poi ho come una sensazione di déjà vu: è davvero mio nonno che cerca l’approvazione del padre o è mio padre che voleva che il papà fosse fiero di lui? Oppure sono io che proietto le mie ansie e i miei fantasmi su mio nonno, e che cerco ancora disperatamente di essere riconosciuta e vista e ascoltata da mio padre?
Alle 15 del 20 agosto, la brigata Novara lancia un nuovo attacco. Per tre notti e tre giorni consecutivi, le fanterie avanzano nonostante i grovigli di filo, le trincee spianate, le caverne crollate divenute cripte, i villaggi distrutti, le armi e le munizioni sparpagliate alla rinfusa, i mortai, le pallottole, il fuoco, e le migliaia e migliaia di cadaveri che giacciono sul campo.
L’undicesima battaglia dell’Isonzo, nonostante la presa dell’altopiano della Bainsizza, si conclude con un nulla di fatto. E costa all’Italia 144.000 uomini tra morti, feriti e dispersi. All’ufficio centrale di Bologna per le famiglie dei militari, arrivano 17.000 notizie da dispacciare in tutt’Italia, e 1333 telegrammi inviati da madri e mogli che cercano disperatamente di capire cosa sia successo ai propri cari. Le volontarie sono sommerse dalle carte, stremate, molte di loro hanno perso una persona cara e abbandonano la postazione, non ce la fanno, è disumano, perché questa maledetta guerra non finisce?
Mi tornano in mente le note e le parole di una canzone che mio fratello e io cantavamo da bambini: Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio. Ce l’aveva insegnata papà, e mio fratello e io, da piccoli, la cantavamo a squarciagola, soprattutto quando si arrivava al punto in cui si diceva che lo straniero non sarebbe passato. Il Piave mormorò: non passa lo straniero. Era uno dei rari momenti in cui mio padre si infervorava: lo spirito patriottico e la guerra, il sacrificio dei soldati e la vittoria.
«Ma cantavamo anche Bandiera rossa la trionferà, evviva il comunismo e la libertà, non te lo ricordi, Michela?» dice mia madre quando le racconto che la canzone mi è tornata in mente mentre leggevo le lettere dal fronte e altri documenti dedicati alla Prima guerra mondiale. «E come faccio a scordarmelo, mamma?» Con Arturo che a cinque anni urlava per la strada, e mamma che gli tappava la bocca. Erano gli anni di piombo, aveva paura: «Zitto, tesoro, che ora le becchiamo di santa ragione»; la Balduina, negli anni Settanta, era piena di fascisti – come poi anche il Pio IX, il liceo dove ci aveva voluto mandare papà, dove io ero la “comunista”, quella strana, quella che parlava di Berlinguer e indossava i jeans strappati, e mio fratello era quello che non sapeva giocare a calcetto, «quér frocio de mmèrda!» come dicevano alcuni dei suoi compagni di classe...
Collego ed elaboro. Ma non vado ancora da nessuna parte.
Quali altri elementi ho in mano? Come faccio a interpretarli correttamente?