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A detta di mio padre, il nonno venne ferito durante l’estate del 1917 e trasportato in Ungheria, prima in ospedale, poi in un campo di prigionia. Gli ho telefonato per dirgli che ho trovato una traccia del nonno a Castagnevizza, ma che poi l’ho di nuovo perso di vista, e lui mi risponde che è normale, fino alla fine della guerra rimase prigioniero. Gli chiedo se ci siano lettere o cartoline o foto di quei giorni. Lui dice di no, non crede che il nonno scrivesse a casa, e comunque, se anche sono esistite, queste lettere e queste cartoline lui non le ha mai viste. Mio padre sa solo della medaglia di bronzo al valor militare, questo se lo ricorda perfettamente, il nonno ne era fiero, era orgoglioso di essersi battuto per la patria, nonostante il dolore per la perdita di tanti compagni d’armi, nonostante l’amarezza dopo la tragica disfatta di Caporetto, nonostante la delusione per come, alla fine della guerra, vennero trattati i reduci e i mutilati.

Le lezioni del secondo semestre non sono ancora iniziate. Decido allora di andare a Lecce, all’Archivio, per consultare il foglio matricolare del nonno. Penso che sia ormai l’unica cosa da fare. Anche perché in Salento potrò pure discutere con le cugine di papà, e magari fare un salto nello scantinato di casa loro dove mio padre aveva spostato casse e scatoloni pieni di libri, documenti di famiglia e soprammobili quando la casa dei nonni era stata svuotata. Questa volta non potrò fermarmi più di un paio di giorni, devo tornare a Parigi, non avrò il tempo di aprire tutti i cartoni, lo farò poi con calma in primavera, con Jacques abbiamo deciso di passare le vacanze di Pasqua a Campi, ma che mi costa dare anche solo un’occhiata?

Sono le 10.35 quando atterro all’aeroporto di Brindisi, prendo un taxi, chiedo di portarmi a Lecce, in via Alfonso Sozy Carafa. Un’ora più tardi, mi trovo di fronte a una sorta di cubo in calcestruzzo armato. Mi dirigo spedita all’entrata, mostro all’addetto la mia carta d’identità e la mia tessera universitaria, cerco un bibliotecario e gli chiedo di avere accesso ai registri del distretto militare di Lecce della fine dell’Ottocento. Compilo un modulo specificando l’anno, il mese e il giorno in cui è nato Arturo; scrivo che il padre si chiamava Ferruccio e che il comune di nascita era Nociglia; consegno il foglio a una giovane donna. Meno male che gli scatoloni con i ruoli matricolari di chi nacque tra il 1861 e il 1908 sono conservati negli Archivi di Stato e non in quelli dello stato maggiore dell’esercito, mi dico pensando alle infinite trafile amministrative che avrei dovuto seguire per prenotare un posto nella sala lettura della caserma Nazario Sauro di Roma. Ma quando l’impiegata torna, è la doccia fredda: «Mi dispiace, signora, nell’inventario non figura nessun Arturo Marzano. Lei è sicura che suo nonno risiedesse in provincia di Lecce nel momento in cui fu chiamato alle armi? Dove viveva suo nonno quando aveva diciotto-diciannove anni?».

Chiamo papà al telefono e glielo chiedo. Ma papà non lo sa. Mando un SMS a sua cugina. Niente. Provo a domandare a Concetta, la figlia novantenne di una delle migliori amiche di mia nonna, che adesso vive a Novoli, in una casa di riposo. Ma non c’è nulla da fare, non c’è nessuno che sappia dirmi dove risiedesse il nonno nel 1917, Concetta non ricorda nemmeno il suo nome. «Ferruccio, vero?» mi chiede quando le faccio visita, cercando con lo sguardo il mio assenso. «Ferruccio è mio padre, signora, ma non si preoccupi, grazie lo stesso, è stata gentilissima.»

L’unica certezza resta l’Ungheria. Un giorno papà mi aveva parlato di un dizionario italiano-ungherese che gli aveva donato il nonno. Ce l’ha ancora. Nonostante il disordine che c’è sempre a casa dei miei, è riuscito persino a trovarlo.

Il giorno dopo, quando vado a salutare le cugine, è lui che mi telefona e che, dopo avermi fatto promettere di abbracciare la Maria Rosaria e la Lia da parte sua, mi dice di averlo tra le mani. Gli chiedo di passarmi un secondo mamma: «Puoi fare alcune foto con il tuo cellulare e mandarmele via WhatsApp?». Detto fatto! Pochi minuti dopo, mi arrivano tre immagini: è un dizionario piccolo piccolo – “8x3 cm” scrive mia madre – con la copertina rossa, anche se ora il rosso è tutto sbiadito e stinto; all’interno, nella prima pagina, subito sopra al termine “abbadia”, apátság in ungherese, c’è una scritta: “Sottotenente Arturo Marzano, Nagymegyer, 3 maggio 1918”.

Incoraggiata dalla scoperta, anche se ormai non ho più molto tempo e il mio aereo per Parigi parte nel pomeriggio, mi faccio accompagnare dalle cugine nello scantinato. Prima le casse e gli scatoloni erano ammassati nell’ex studio di Arturo, una delle poche stanze risparmiate da un incendio devastante alla fine degli anni Novanta, poi papà aveva messo tutto lì con l’idea, un giorno, di fare una cernita e selezionare le cose da conservare.

Quando entro nel locale, mi rendo conto che la situazione è disastrosa. I cartoni di libri, le casse e i bauli sono immersi nella polvere, nello sporco e nell’umidità. E poi chi se lo ricordava che c’era così tanta roba?

Comunque adesso non risolvo nulla, mi dico guardandomi intorno. Rischio solo di arrivare in aeroporto distrutta e puzzolente.

Quando sto per rinunciare e uscire, vedo che sopra uno scatolone c’è una cesta di vimini avvolta nel cellofan: scosto la plastica, frugo all’interno e, in mezzo a mozziconi di candele, statuine, rosari e cianfrusaglie varie, scorgo una busta di carta arancione con sopra scritto “Grande Guerra”. All’interno c’è un quadernino verde. Lo tiro fuori, lo sbatto tra le mani per togliere la polvere, cade un foglio piegato in quattro, lo raccolgo, leggo “8 gennaio 1919”, spalanco la bocca e trattengo il respiro: è il testo di un breve discorso che, da quello che mi sembra di capire, mio nonno tenne quel giorno per festeggiare con gli amici più cari il suo rimpatrio. Apro il quadernino verde e vedo che, sulla prima pagina, c’è scritto: “Ricordi della mia prigionia a Nagymegyer (Ungheria) – Il mio diario”. Subito dopo, c’è la data del 16 novembre 1917. All’ultima pagina, siamo all’8 marzo 1918. E tra l’8 marzo 1918 e l’8 gennaio 1919?

Ci dev’essere per forza un altro quaderno, mi dico immergendo mani e testa nella cesta, mentre starnutisco, la polvere mi irrita gli occhi, il tempo passa e devo sbrigarmi se non voglio perdere l’aereo. Ma non trovo nulla. Mi guardo intorno. Per aprire tutti gli scatoloni e le casse ci vorrebbero giorni. Devo tornare con più calma, penso cercando di spostare un cartone col piede, ma il cartone si apre sul lato destro, l’umidità l’ha completamente mangiato.

A Pasqua mi farò aiutare da Jacques. Ma com’è che non ci ho pensato l’estate scorsa?

In aeroporto, mi osservano tutti.

Mentre sono in fila per l’imbarco, mi accorgo che una bambina, gli occhi fissi sui miei jeans, tira la mano della mamma e dice: «Perché la signora ha i pantaloni tutti sporchi?». Sento il calore salirmi sulle guance, poi evito di provare a giustificarmi, penso al diario, chissenefrega se la gente mormora, che ci posso fare se non ho preso un paio di jeans di ricambio?

Tempo di salire in aereo, sistemare lo zainetto sotto i piedi, allacciare la cintura di sicurezza, e mi immergo nella lettura del diario.

All’inizio faccio fatica a decifrare la grafia di mio nonno, ogni tanto salto una o due parole, ma allora perdo il filo e non capisco più nulla. Poi, pian piano, mi abituo al modo particolare in cui Arturo scrive le S e le R, imparo a distinguere le G dalle P e le M dalle N, e procedo spedita nella lettura mentre l’immagine di mio nonno inizia a definirsi accanto a quella dei suoi compagni d’armi.

All’alba del 16 novembre – erano le 4.00 – la sentinella distaccata dalla trincea tirò l’allarme. E l’allarme riecheggiò su tutta la linea. Spinti dal senso del dovere, uscimmo subito dai ricoveri di paglia e terra. L’alba di quel giorno fu fatale al mio battaglione. Gli austriaci, in forze preponderanti, avevano attaccato alla mia destra, dopo aver guadato il Piave favoriti dalla nebbia [...] Fuoco, ragazzi! Fuoco! Gridavo con veemenza e, disperato, balzai dalla trincea per sparare, pronto a morire prima di cedere [...] Resistetti valorosamente col mio plotone, sino a che, ridotti dalle pallottole nemiche, gli austriaci non ci strinsero e ci obbligarono a lasciar le armi. Quattro soldati riconobbero in me l’Ufficiale: uno fece scattare il grilletto, il colpo uscì, ma vanamente. M’incamminarono e tra le raffiche delle mitragliatrici, dei fucili e dell’artiglieria guadai il fiume [...] Mi aiuti signor Tenente, mi aiuti! Vidi Lorenzo con la gola sanguinante, forata da una pallottola. Lo guardai, lo fasciai, ma... poco dopo spirò tra gli spasimi dell’emorragia. Povero Lorenzo, il giorno prima mi aveva costruito il ricovero di linea [...] Ovunque morti, ne vidi uno con le budella fuori, un altro con la faccia sfatta dalla mitraglia, un altro con le cervella che ricoprivano la testa [...] un ardito austriaco mi colpì col fucile, mi fece cadere in acqua e mi fece traghettare il Piave con gli amici carissimi e colleghi di prigionia [...] Fummo accompagnati al Comando di Corpo d’Armata [...] quella notte il nostro giaciglio fu un mucchio di fieno; all’alba sognai la mamma, il babbo, Gino mio, le sorelle mie, i vecchi nonni, che mi aspettavano a braccia aperte per la licenza, inconsapevoli della mia fine...

Guardo fuori dall’oblò: a parte le nuvole che scorrono veloci, il paesaggio sembra immobile. Ho letto da qualche parte che è il frutto di un semplice effetto ottico, più si è distanti da un oggetto, più il campo visivo è ampio. La lontananza crea un’immagine falsa e i dettagli sfuggono. È come con la guerra, penso sfogliando il diario di mio nonno: finora l’ho osservata troppo da lontano. È allora che mi torna in mente il resoconto fatto dal generale Diaz sul bollettino di guerra, che avevo guardato in maniera distratta alcuni giorni prima e che, adesso, assume tutt’altro significato. Diaz racconta che il 16 novembre 1917, all’alba, gli austriaci avevano forzato il passaggio del Piave all’altezza di Fagarè, nella pianura tra Salettuol e Sant’Andrea, dov’era posizionata la brigata Novara. Dice che alla fine della giornata l’argine del fiume era cosparso di cadaveri nemici, e che gli italiani avevano catturato oltre seicento austriaci. Dice che tanti eroi avevano animato di luce il quadro della battaglia, e che il sacrificio di molti non doveva offuscare il fatto che l’indomani i fanti avevano rinnovato l’attacco e ripreso il Molino della Sega. Dice che l’unico modo per onorare la memoria di chi era morto era proseguire nella via della vittoria. Ma dov’è che dice che il 16 novembre fu fatale a tanti giovani soldati e ufficiali del 154° reggimento?

Tra il 16 e il 21 novembre, Arturo e i soldati sopravvissuti del suo battaglione percorrono a piedi un centinaio di chilometri. Mio nonno, giorno per giorno, racconta la stanchezza, la disperazione, la fame. I prigionieri si alzano all’alba, bevono una tazza di tè e si mettono in marcia. Ogni tanto mangiano un tozzo di pane, ma non basta a saziarli e la fame li avvilisce. Arrivano a Piavon, poi a Motta di Livenza, poi a Palmanova passando per Annone Veneto. Quindi camminano fino a Lubiana, fermandosi un paio di giorni a Udine. Messi a Lubiana su un treno merci, il 28 novembre giungono stremati e demoralizzati a Nagymegyer, un luogo di prigionia al confine tra l’Ungheria e la Slovacchia.

Quel giorno, il sottotenente Marzano scrive che alle 6 del mattino, dopo aver ascoltato la messa e fatto colazione, si mettono in marcia per il campo dove arrivano

sudici, puzzolenti e pieni di pidocchi. Inquadrati, fummo portati al bagno. Depositammo i nostri oggetti e facemmo una doccia, mentre venivano disinfettate le vesti. Pieni di pidocchi, sudici, puzzolenti, non si può immaginare come giunse quel bagno. Ci vestimmo con biancheria austriaca e fummo condotti nelle baracche piene di brande di legno e paglia vecchia che dovevano essere il nostro alloggio. Passati sommariamente in rivista dal Maggiore austriaco, fummo condotti a mensa ove, con una fame da lupi, si divorò una minestra di crauti e patate, 2 mele cotte, e 250 grammi di pagnotta [...] Alle 5 ci recammo nella sala della mensa per l’appello controllato personalmente dal Maggiore austriaco, un omone dai baffi alla tedesca e dal color paonazzo. Alle 7 mangiammo semolino, insalata senza olio, una mela e un quarto di pagnotta. Alle 9 si andò a letto.

Continuo a leggere le pagine del diario di mio nonno anche quando l’aereo atterra, l’hostess dà ai passeggeri il benvenuto a Parigi da parte del pilota e degli assistenti di volo, auspica di rivederci presto a bordo e ci augura un piacevole soggiorno o un felice ritorno a casa. La gente slaccia la cintura di sicurezza, affolla il corridoio, apre le cappelliere, sbuffa in attesa che le porte si aprano. Io continuo a sfogliare il diario, immersa nei miei pensieri. È forse la prima volta che, da quando prendo l’aereo, aspetto che siano scesi tutti prima di decidermi a smettere di leggere, chiudere lo zaino, infilarmi il piumino e scendere giù anch’io.

30 novembre: Alle 7 ci alzammo. Alle 8 colazione: un’abbondante tazza di caffè (acqua bollita con dell’estratto di cicoria) e una fettina di pane. Comincia la vita tediosissima di prigionia: una vita fatta solo di pappa, cacca, e nanna. Si aspetta la sera per mangiare e dormire; nessuna occupazione; una noia indicibile. Giunge l’ora dell’appello e l’appello si fa. Alle 7 si mangia semolino, due mele e il solito quarto di pagnotta. Alle 9 a letto.

Uscita dall’aeroporto, mi affretto a prendere un taxi. Non voglio perdere tempo, non voglio distrarmi con tutte le persone che, in metropolitana, salgono, scendono, spingono, strattonano, vociferano. Preferisco sedermi comoda e continuare a leggere in santa pace. Chissà cosa dirà Jacques vedendo il quadernino, penso riaprendolo e ricominciando a sfogliarlo; adesso vado più veloce nella lettura, non ho più problemi con la grafia di Arturo, anche perché, con il passare dei giorni, mio nonno scrive solo poche righe, e spesso utilizza le stesse parole, le stesse identiche espressioni. Come le giornate che vive a Nagymegyer e che si ripetono uguali. “Non accade nulla” scrive più volte. Spesso parla del freddo. Sempre della fame. “Il sole a Nagymegyer non si fa mai vedere” annota il 6 dicembre. “Nevica: fa un freddo glaciale e soffro una fame da lupo. Il freddo e la fame sempre insieme: lo descrivevamo nei componimenti in terza elementare, lo proviamo da prigionieri a Nagymegyer” scrive l’11 dicembre. Lunedì compra calze di lana “lunghe, forti e buone” da un soldato italiano. Martedì invia un telegramma ai genitori: “Prigioniero – Nagymegyer Ungheria – Inviatemi pacchi”. Talvolta gioca a carte. La notte pensa ai propri genitori e all’infanzia.

Il 14 dicembre, qualcuno accenna alla possibilità che la Russia stia per proporre un accordo affinché la guerra cessi: “E il cuore si apre a grandi speranze”. Arturo pensa al Salento, ai campi di agrumi e ai vigneti:

Chi sa quando sarà quel giorno in cui potremo dire addio a questa terra maledetta da Dio e dagli uomini e rientrare nel patrio suolo benedetto dal profumo dei fiori e dalla fertilità della terra! Chi sa quando sarà quel giorno in cui potremo ritrovare i nostri piatti di pasta asciutta.

Quando arrivo a casa, mostro il diario a Jacques e gli leggo alcuni passaggi. Mi ascolta assorto. Poi: «Anche mio nonno fu fatto prigioniero. Quand’ero piccolo e lo andavo a trovare, mi raccontava gli orrori delle trincee e della prigionia, non lo dimenticherò mai. Come hai detto che si chiama il campo di prigionia di tuo nonno?».

«Nagymegyer.»

«L’ho già sentito questo nome, aspetta, vado a controllare. Ho la sensazione che se ne parli in un libro che sto leggendo in questi giorni.» Jacques si dirige spedito nel suo studio, torna dopo pochi minuti con un libro, lo sfoglia, si sofferma su una pagina: «Nagymegyer, non mi sbagliavo, la città dei morti! C’è una nota dedicata a questo campo di concentramento».

«E cosa dice?»

«Dice che i prigionieri erano rinchiusi in baracche fatiscenti immerse nel fango e che spesso morivano di fame. Ne morirono tantissimi, è per questo che il campo venne soprannominato “città dei morti”.»

A parte gli ufficiali, che avevano il permesso di ricevere dai familiari pacchi di cibo e vestiti, i prigionieri italiani morivano di stenti, non solo per via dei razionamenti imposti dal blocco navale alleato, ma anche a causa dell’incuria del governo. La mattina bevevano l’orzo, a pranzo avevano diritto a una minestra di acqua con qualche foglia di rapa, a cena una patata, una fetta di pane integrale e un’aringa. A differenza dei prigionieri inglesi e francesi, che ricevevano alimenti dalla patria, gli italiani erano abbandonati a loro stessi. E fu solo nell’agosto del 1918 che Vittorio Emanuele Orlando, l’allora capo del governo, predispose una spedizione di cinque vagoni di pane e gallette, per un totale di cinquecento quintali. Come scrisse all’epoca il conte Guido Vinci, delegato della Croce rossa italiana a Ginevra, in una relazione a Orlando: “La differenza tra quanto si fa all’estero e in Italia è stridente; in Francia e in Inghilterra si è organizzato un servizio che permette l’invio di 2 kg di pane a settimana per ogni ufficiale e soldato [...] Nei campi di prigionieri italiani il morale è depresso ed eccitato sino alla rivolta: non contro l’Austria o la Germania, ma contro la patria lontana e immemore dei suoi figli”.

Resto tutta la notte sveglia, non riesco a staccare gli occhi dal diario del nonno. Com’è che papà non sapeva nemmeno che esistesse? Perché nonno Arturo non gli ha raccontato nulla della prigionia? Come ci è finito, questo prezioso quadernetto, in quella cesta piena di cianfrusaglie? Perché papà mi ha sempre detto che nello scantinato c’erano solo libri di medicina e diritto, chincaglierie e documenti inutili? Perché, quando gli ho chiesto se voleva che lo aiutassi a fare una cernita tra le cose del nonno, mi ha risposto che non ne valeva la pena, che ci avrebbe poi pensato lui, con calma, un po’ alla volta, anno per anno durante i mesi estivi? E io, soprattutto, perché gli ho dato retta e non sono andata a controllare?

Quando arriva il 24 dicembre 1917, è passato poco più di un mese da che Arturo è stato fatto prigioniero, e il morale è basso:

Vigilia di Natale! Giorno aspettato con tanta ansia da piccoli e da grandi. Festa più bella dell’anno. E qui un mondo di ricordi che mi strappano le lacrime schiantandomi il cuore: gli zampognari che suonavano, il mio verde paesello, la mia casa, il presepe, i miei cari genitori, le mie sorelline, il mio Gino, i vecchi nonni, gli zii, gli amici... il latte di mandorle, le pittole, le cartellate... è doloroso passare questi bei giorni fra le fradicie pareti di un austriaco baraccamento. Alle 11 di notte mi corico piangendo, troppa nostalgia in questa sera di dolore.

Il 31 dicembre le cose non migliorano, anzi; è un momento di bilancio e i conti non tornano, non solo per lui, ma per tutta l’Italia:

Giornata freddissima. Scrissi a papà mio ricordando gli scorsi 31. Prestai a un soldato 10 lire. La sera restai in mensa fino alle 11. Si chiuse così un anno disastroso per l’Italia, un anno intriso di sangue, pieno di ricordi. E scacciato dalle maledizioni delle mamme che han perduto il figlio sul campo di battaglia vanamente, con l’imprecazione di tutti, nonché dei prigionieri. Maledetto 1917!

Mio nonno ripensa a quand’era bambino, e il 6 gennaio, il giorno dell’Epifania, arrivava la Befana che premiava i bimbi buoni e puniva i cattivelli:

Cari ricordi di bambino quando la mattina trovavo piene le scarpe di confetti e di dolci in barba a qualche sorellina che trovava pietre e ciottoli, perché cattiva durante l’anno [...] Mandai sulle ali del vento un bacione a tutti i miei, a papà mio, alla mamma mentre il ricordo mi spezzava il cuore.

L’8 gennaio 1918, annota che ricorre l’onomastico della regina Elena. Il 9, scrive che è l’anniversario della morte di Vittorio Emanuele II. Il 10, si lamenta della “maledetta neve” e scrive al padre; l’11, la letterina è per “mammà”. Mentre la vita continua monotona, scandita solo dal gioco – “giocai e vinsi 0,7 lire” –, qualche soldo prestato a un compagno di prigionia – “prestai 7 corone a Graziano” –, talvolta una lite tra ufficiali: “A mensa sorsero bisticci tra due Capitani che finirono con lo sfidarsi a duello”.

Il 13 gennaio, Arturo si ammala. Il giorno dopo la febbre gli sale: “Da solo, nel freddo del baraccone e su un pagliericcio pieno di vecchia paglia con due luride coperte [...] è meglio morire d’un colpo che cadere ammalati”. Il 15, viene visitato da un capitano medico austriaco, messo su una barella e portato in ospedale.

Mi sentii dire: sarà un morto; io grattai le stellette e pregai. Il vento impetuosamente fischiava. Arriviamo all’ospedale e mi assegnano nella baracca n. 2: una baracca lurida, fredda e puzzolente con alcuni letti – senza lenzuolo s’intende – e con molti feriti. C’è anche un aspirante degli Alpini moribondo. La notte un febbrone che mi ha fatto smaniare e un forte dolore di tonsille. Pregai e pregai...

Quando una decina di giorni dopo guarisce, la vita riprende come al solito. Freddo, vento, neve, nebbia, pioggia. Nel mese di febbraio, Arturo annota solo le condizioni meteorologiche. Il 1° marzo gli arriva da casa un pacco – pane, biancheria, bottoni, ago e filo, sapone e lui risponde con un telegramma: “Ricevuto pane, biancheria, sapone – benissimo – sospendere pane inviandomi pasta e condimenti”.

Il quaderno si chiude l’8 marzo: “Giornata fredda. Scrissi a casa. Lo zucchero sulla stufa: ricordi infantili”. Anche se di mesi ne devono ancora passare molti prima che Arturo possa rientrare a casa, e non ho modo di sapere se quel tentativo di fuga cui accenna a un certo punto nel diario lo fece davvero, se riuscì o meno a convincere gli altri ufficiali italiani a seguirlo, in tanti avevano paura delle possibili conseguenze se li avessero bloccati, c’era chi paventava il rischio di ritrovarsi nella fortezza di Komárom, c’era chi diceva: “A Komárom si crepa come bestie, non è una leggenda, Arturo!”.

La notizia dell’imminente fine della guerra arriva la mattina del 2 novembre 1918, quando sul «Corriere della Sera», in prima pagina, gli italiani possono leggere: Travolto dall’esercito italiano, il nemico chiede a Diaz l’armistizio. Il giorno successivo, il generale Badoglio, il generale Scipioni, il colonnello Gazzano, il capitano Maravigli e il comandante Accissi incontrano i parlamentari, e discutono fino a sera per mettere a punto le condizioni precise dell’armistizio. L’Austria ha capitolato, scrive l’indomani mattina il «Corriere della Sera», pubblicando, sempre in prima pagina, il celebre bollettino della vittoria.

È solo a fine dicembre, però, che Arturo riesce a tornare a casa. Fiero dell’eroismo dimostrato dai suoi soldati e del sangue versato per l’amata patria, accetta di buon cuore il ritardo con cui viene organizzata la smobilitazione generale. “Anch’io voglio abbracciare i miei genitori e le mie sorelline il prima possibile” dice a chi protesta contro il governo che tergiversa. “Ma i mezzi di trasporto servono ora per le materie prime e le vettovaglie di cui ha bisogno il Paese, ragazzi! Le provincie invase e le nuove redente, saccheggiate, derubate e affamate dal barbaro nemico hanno oggi bisogno del massimo aiuto” ripete convinto. “Ora è il momento di pensare a Fiume e alla Dalmazia, sono sicuro che è questa la preoccupazione principale del nostro Re!”

L’8 gennaio 1919, Arturo è finalmente a casa, e la sera organizza un brindisi per festeggiare il rimpatrio. Ha preparato un breve discorso e lo legge orgoglioso:

Quando l’alba del 3 novembre squarciò il nebuloso orizzonte, circoscritto in reticolato di ferro, spezzando le aspre catene di prigionia, unanime proruppe dai nostri giovani petti il grido: Viva il Re! Viva l’Italia! Viva l’Esercito! Nella quiete silenziosa della brutta e sterminata terra magiara, come dolce canzone, lontana lontana, giungeva l’eco delle campane di San Giusto che a festa suonavano. Ci disse quella eco che tutta l’Italia era in festa; ci disse il saluto dei cari; ci disse che eravamo liberi; ci disse che la bicipite aquila era stata avvinta e schiacciata dal valore dei nostri soldati [...] Volò il mio pensiero lontano lontano, si librò sul nostro paesello d’infra il verde dei campi e degli ulivi [...] Brindiamo alla nostra salute. E brindiamo alla salute dei nostri militi e duci che, logorati da tempo sul ferruginoso Carso, si portarono sul Piave ove dettero prova d’eroismo e d’indomito valore. Brindiamo alla salute del nostro Re, soldato fra i primi soldati, che con energia e serenità seppe compiere i destini d’Italia. Brindiamo a Trieste, Trento e Fiume e alle dalmate sorelle soverchiate dal nemico ormai disfatto. Viva l’Italia! Viva il Re! Viva l’Esercito!

C’è chi, per sopravvivere, ha bisogno di parlare in continuazione di quello che ha vissuto; e chi invece si chiude, passa oltre, mette un punto e va a capo. Arturo parlerà poco con la moglie e con i figli di quegli anni di guerra, ancora meno dei mesi passati nella “città dei morti”. Ma certe cose non si dimenticano mai, restano dentro, e prima o poi riaffiorano. Non è quello che accadde a mio nonno alcuni anni più tardi, quando venne eletto deputato e, durante una discussione sulla guerra, perse le staffe?

Tra i documenti più importanti che ho raccolto nelle ultime settimane, ci sono gli stenografici della Camera dei deputati. Quelli, nessuno ha potuto farli sparire, nessuno ha potuto cancellarli o modificarli. Oggettivi e fedeli, riproducono le parole pronunciate durante ogni seduta, persino i gesti più significativi. Ed è proprio leggendo le trascrizioni di una seduta del 1956 che vedo riaffiorare, nelle parole di mio nonno, la guerra e i suoi traumi.

È il 18 aprile e alla Camera si sta discutendo una proposta di legge sulla celebrazione del decimo anniversario della Liberazione. L’atmosfera è elettrica. C’è un articolo del provvedimento, introdotto al Senato, che suscita malumore e polemiche: si prevede lo stanziamento di un’ingente somma di denaro per la pubblicazione e la distribuzione nelle scuole di un volume dedicato alla Resistenza. Alcuni deputati protestano, dicono che la storia d’Italia dovrebbe essere analizzata nella sua continuità, e che sarebbe altamente diseducativo, per i giovani, concentrarsi troppo sui fatti della Resistenza. Altri citano gli scritti dello storico Luigi Salvatorelli, e dicono che i ragazzi dovrebbero al contrario imparare con quale travaglio e quanti sacrifici si sia riconquistata la libertà dopo vent’anni di fascismo. È allora che interviene l’onorevole De Totto, deputato del Movimento sociale: come si fa a dare credito a un Salvatorelli che insulta i reduci della Prima guerra mondiale descrivendoli come gente abituata a una vita di violenza e di avventura? Pare che l’intervento di De Totto sia stato fischiato. Pare che lui abbia allora deciso di lasciare la commissione. Almeno è quanto riporta lo stenografico, subito prima della trascrizione dell’intervento di mio nonno:

Confesso di non aver letto quello che ha scritto il Salvatorelli. Ma vorrei vederlo questo individuo che ha scritto che i combattenti della guerra del 1915-18 erano abituati alla violenza e all’avventura. Il Salvatorelli sappia che noi lasciammo le scuole per andare a combattere nelle trincee del Carso e del Piave a difesa della Patria; senza violenza, perché la violenza non ci era stata insegnata dai nostri professori, ma solo amor di patria, spirito patriottico e umano.

Lo stenografico cita gli applausi di alcuni deputati e lo sdegno di altri. Dice che il presidente della commissione richiamò all’ordine l’onorevole Marzano. Dice che anche Marzano, come già De Totto poco prima, abbandonò i lavori e uscì dall’aula.