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Sono giorni che sono immersa nella guerra. Ho bisogno di fare una pausa. Le immagini delle battaglie, delle trincee e dei campi di prigionia dove i soldati italiani morivano di fame e di freddo devono potersi depositare. Se voglio trarne le giuste conclusioni, devo aspettare che le parole di Arturo trovino, se non un senso, almeno uno sbocco.

Ho bisogno di pensare ad altro, mi dico preparando lo zaino per la piscina; vado a farmi qualche vasca, mi ripeto, nonostante mi senta oppressa da un leggero senso di colpa: ma come, proprio ora che la materia sta finalmente iniziando a prendere forma? Ma ho ancora bisogno di un po’ di tempo prima di tornare a concentrarmi su quel maledetto 15 maggio 1919; ho bisogno soprattutto di calmarmi.

Stanotte mi sono svegliata alle 4 in preda al panico con l’immagine di Sandro Pertini davanti agli occhi. Anche lui, poco più che ventenne, combatté e venne ferito in guerra. Magari Pertini e mio nonno si sono pure incrociati, si sono scambiati un saluto, si sono dati una pacca sulla spalla, ho pensato girandomi e rigirandomi sotto le lenzuola. Pure Pertini si distinse per atti di eroismo e audacia – lo disse all’epoca il suo comandante di reggimento proponendolo per una medaglia d’argento al valor militare – e pure lui, una volta tornato in Italia, si laureò in Giurisprudenza. Ma Pertini, nel 1919, si iscrisse al Partito socialista, ho pensato alzandomi dal letto, tanto non riuscivo più a prendere sonno. E la medaglia d’argento gli fu negata. E nel 1925 venne arrestato. E l’anno seguente fu massacrato di botte, e poi condannato al confino. Sono andata in salone e mi sono seduta in poltrona. Mi sono accesa una sigaretta. Nonostante gli appunti, le riflessioni, le notti in bianco, le sigarette e le discussioni con Jacques, continuo a non capire, a non accettare.

Ho iniziato a tirare una boccata dopo l’altra. Mi è venuta la tosse. Perché tu, nonno, sei finito con Mussolini?

Accappatoio, costume, occhialini, cuffia, bagnoschiuma, shampoo, crema idratante. Ho tutto, posso uscire, sono pronta. Arrivo in Rue Lobineau, scendo le scale del Marché Saint-Germain, compro un biglietto, entro nello spogliatoio. Dieci minuti più tardi sono in acqua.

Uno, uno, uno... inizio a fare la prima vasca, inizio a contare, non penso più a nulla. Due, due, due... torno indietro, oggi c’è poca gente, sono fortunata. Ma la fortuna, ovviamente, dura poco. Dopo appena un quarto d’ora, nella mia corsia, siamo già in sei. Accelero, supero, mi innervosisco, e ora questa che vuole? Vedo che la signora che ho già superato tre volte, appena arrivata al bordo della vasca, riparte senza lasciarmi passare – io faccio sempre passare chi mi ha già superato! È una regola di cortesia, no? Perché tu ora te ne freghi?

Accelero di nuovo, la supero, ma dopo pochi minuti me la ritrovo ancora davanti e, pure questa volta, la signora riparte senza lasciarmi passare.

«C’est du grand n’importe quoi!» urlo bloccandomi, togliendomi occhialini e cuffia e sbattendo forte le mani sull’acqua – in italiano avrei detto “Roba da pazzi”, ma a me la frase viene fuori in francese. Ormai, quando mi arrabbio, lo faccio meglio nella mia lingua d’adozione.

La signora si ferma, mi fissa sgranando gli occhi, dice: «Pardon?». E io, sbuffando, le dico che quando non si sa nuotare c’è la corsia per principianti, che sono già quattro volte che la supero, che non è possibile, che basta, insomma! Poi, senza aggiungere altro, mi rimetto gli occhialini e ricomincio a nuotare, una bracciata dopo l’altra, con impeto, anzi con rabbia, ecco sì, è proprio con rabbia che sbatto i piedi, giro la testa per prendere fiato, moltiplico le bracciate.

Forse Jacques ha ragione, sto sbroccando. Cosa credevo di fare quando ho deciso di scrivere un libro sul passato della mia famiglia? Mi torna in mente l’immagine di mio nonno che abbandona i lavori in Commissione giustizia ed esce dall’aula sbattendo la porta. E mi chiedo se la rabbia ce la si trasmette di generazione in generazione, oppure se sono io che sto andando fuori di testa.