Wilson o Lenin? Nei primi mesi del 1919, in Italia, è questa la domanda che dilania l’opinione pubblica. E sono in tanti a pensare che l’unica alternativa valida di fronte al rischio del bolscevismo sia il presidente americano. Grano, petrolio, cotone, cereali: il Paese ha bisogno che l’economia riparta, e la stampa non esita a schierarsi. Per il «Corriere della Sera», cercare l’aiuto degli Stati Uniti è un’evidenza, è l’unico modo per evitare all’Italia, durante la Conferenza di Parigi, di trovarsi schiacciata come un vaso di coccio tra l’Inghilterra e la Francia. Ma la paura del bolscevismo, invece di rafforzare la cooperazione con gli Stati Uniti, alimenta pian piano il nazionalismo. E quando Wilson, scavalcando il governo, si rivolge direttamente agli italiani, si trova di fronte a un muro. Vittorio Emanuele Orlando va via da Parigi. Il «Corriere» plaude.
“L’Italia è venuta alla Conferenza con animo pieno di fiducia. Non chiedeva imperi coloniali, non favolose miniere; ma poche terre povere di risorse, dove erano città italiane affacciate sul mare italiano e che chiedevano di rimanere italiane” si legge il 23 aprile 1919. “Abbiamo visto alla Conferenza assegnare tre milioni di tedeschi allo Stato czeco-slovacco, quasi altrettanto alla Polonia, distribuire ungheresi con disinvoltura a destra e a sinistra, dare bulgari ai serbi e turchi ai greci. Ma i rappresentanti ufficiali degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e della Francia sono colti da bizzarri scrupoli quando si tratta di riconoscere all’Italia Fiume italiana o Zara italiana.”
Le rinunce chieste all’Italia sono ingiustificate: lo pensano e dicono quasi tutti. Mussolini, sul «Popolo d’Italia», inizia una violenta campagna. “La domanda che inquieta la coscienza degli italiani è questa: quando e come l’Italia può tornare a Parigi?” scrive il 4 maggio. “La situazione è complicata. Il circolo vizioso, evidente [...] Se le rinunce dalmatiche non furono considerate sufficienti dai francesi e dagli inglesi, è segno chiaro che essi preferiscono che l’Italia rinunci a Fiume, piuttosto che al tratto di Dalmazia concessoci dal Patto di Londra [...] Se gli alleati non ci danno Fiume più il Patto di Londra, l’Italia non può tornare a Parigi.”
E quando Vittorio Emanuele Orlando, tornato in Francia con la fiducia incassata alla Camera – a parte quaranta deputati socialisti capeggiati da Turati, tutti gli altri votano la mozione di sostegno al governo –, non ottiene nulla, la situazione precipita. Si diffonde un sentimento generale di sconfitta. C’è chi mormora: «Abbiamo vinto la guerra e perso la pace». C’è chi accusa il governo di incapacità. C’è persino chi parla di tradimento.
Sulla bocca degli studenti e degli ufficiali da poco tornati dal fronte circola una sola frase: «La nostra vittoria è stata mutilata». E Mussolini, ovviamente, ne approfitta: dichiara la patria in pericolo, fa appello a tutti gli scontenti e, contro il bolscevismo, offre i suoi gregari agli industriali e agli agrari di tutt’Italia.
«Questi democratici wilsoniani sono dei traditori.» Immagino mio nonno dirlo mentre sfoglia il «Corriere della Sera» e commenta le notizie con i compagni d’armi. «Mai e poi mai accetterò questa vittoria mutilata.» Arturo non è stato ancora congedato, è di base a Venezia e comanda il reparto ufficiali del carcere militare di San Francesco. Ogni tanto chiede qualche giorno di congedo e va a Roma per dare un esame, gliene mancano ormai pochi per laurearsi in Giurisprudenza – tra le foto che ho ritrovato, ce n’è una scattata il 18 dicembre 1919 che lo ritrae in tenuta militare, sorridente, subito dopo il conseguimento della laurea – e quando torna a Venezia racconta il fermento che c’è tra i giovani universitari nella capitale.
«Che ci siamo battuti a fare, fratelli? Per chi abbiamo buttato il sangue sul Carso e sul Piave? Io sono d’accordo col fatto che all’odio per il nemico debellato debba ormai subentrare l’amore per la patria, ma nel frattempo che fa il governo? Che fanno i vecchi partiti?» dice Arturo accalorandosi. Continuo a non capire le sue scelte, ma ormai lo vedo, lo sento parlare, lo ascolto; le immagini di quei mesi si sono depositate; non ho nemmeno bisogno di fare uno sforzo eccessivo per immaginarlo che discute con gli altri ufficiali: «Liberali e socialisti sono una massa di incompetenti: rinunciatari i primi, illusi i secondi».
A Roma ha iniziato a partecipare a qualche riunione politica. Ha conosciuto Mario Carli, anche lui pugliese, e un giorno l’ha seguito in vicolo Morgana, dove c’era un piccolo locale di reduci. Lì Giuseppe Bottai, che dirigeva allora la rivista «Roma futurista», teneva banco insieme a Carli, nonostante fosse difficile mettere d’accordo repubblicani e nazionalisti, sindacalisti e liberali. Affascinato dalla loro passione politica, l’11 maggio 1919 Arturo partecipa in piazza delle Carrette all’assemblea del Fascio appena nato. E qualche giorno più tardi, senza indugi né ripensamenti, si iscrive. È convinto che il futuro dell’Italia sia quello, e che ci si debba battere per Fiume e per la Dalmazia. «Per ora siamo pochi, ma è questa l’unica strada da percorrere!» insiste sbattendo un pugno sul tavolo. «Avete letto gli articoli di Mussolini sul “Popolo d’Italia”?»
C’è chi, tra i compagni d’armi, lo ascolta con interesse. Chi invece continua a giocare a carte. «Lascia stare la politica, Marzano!» gli dice Alberto, che non vede l’ora di essere congedato per tornare a Bologna – la moglie gli ha scritto che la piccola Luisa sta diventando grande, quand’è che potrà finalmente riabbracciarla e riprendere la vita di prima?
«E le promesse che ci sono state fatte sul Piave? E i compagni morti? Non pensate che sia nostro dovere batterci anche per loro? Dobbiamo essere noi il lievito e il midollo di questo nuovo movimento. Noi, con la nostra giovinezza e il nostro ardimento. Noi, con questa gioia di vivere che la guerra non è riuscita a strapparci!»
«Che dicono questi articoli, Arturo?» gli chiede Vittorio. Erano insieme sull’Isonzo, e quella sera del 21 agosto era stato mio nonno a salvargli la vita: mentre correva, il giovane ufficiale era inciampato su una roccia e Arturo, invece di mettersi al riparo dai proiettili, lo aveva aiutato a rialzarsi, la caviglia non gli reggeva, il nonno lo aveva preso sulle spalle e lo aveva trascinato fino alla trincea – subito prima che, esattamente lì dov’era caduto Vittorio, scoppiasse una granata.
«Mussolini è dalla nostra parte. Ha combattuto come noi, è uno di noi. Guardate, leggete!» Tira fuori da un libro un pezzo di giornale che ha ritagliato quand’era a casa, era appena rientrato dalla prigionia e gli avevano concesso un breve congedo. «È un articolo scritto il 16 gennaio: Per coloro che tornano!» Lo mostra ai compagni, indica col dito alcune righe che ha sottolineato, inizia a leggere: «“È da tre anni che noi gridiamo agli uomini del Governo: Signori, andate incontro spontaneamente, generosamente a quelli che ritorneranno dalle trincee! Non abbiate paura di parere troppo audaci! Siate grandi nelle vostre parole e soprattutto nei vostri fatti, perché l’ora, i bisogni, le speranze, le fedi sono grandi!”».
«Quanta retorica, Arturo!»
«Un po’ di pazienza, Alberto, lasciami continuare» dice subito prima di riprendere la lettura: «“Tornano i reduci. Tornano alla spicciolata. Non hanno nemmeno la soddisfazione estetica e spirituale di essere ricevuti trionfalmente, come meriterebbero i soldati che hanno letteralmente demolito uno dei più potenti eserciti del mondo...”».
«Giusto!» lo interrompe Vittorio. «Mi piace questo Mussolini.»
«Dài, Vittorio, almeno tu resta con i piedi per terra. Cosa c’è di concreto? Parole, parole, parole...»
«È qui che ti sbagli! Mussolini propone misure concrete! Porta l’esempio della Francia dove è stata prevista un’indennità di circa 250 lire per tutti i militari e chiede all’Italia di fare lo stesso. È giunto il momento che la classe politica si rinnovi, che gli italiani reagiscano. Basta con questo snobismo liberal-socialista! Non è quello di cui discutiamo sempre quando ci ritroviamo alla Dante Alighieri?»
Alberto sbuffa. Lui ha smesso da tempo di andarci, a quelle riunioni di ex combattenti e ufficiali, vuole solo tornare a casa sua, quante volte ancora deve ripeterlo?
«Quindi preferisci che siano gli altri a decidere al posto tuo» lo incalza mio nonno. «Ti rendi conto del pericolo comunista? Non pensi che lo sciopero generale indetto a luglio sia un subdolo tentativo di instaurare in Italia un regime bolscevico? Dobbiamo essere decisi e pronti a tutto. Siamo giovani. Siamo pieni di energia. Agiamo prima che sia troppo tardi, ne abbiamo i mezzi, utilizziamoli tutti, legali e illegali, poco importa!»
«Poco importa?» Alberto, questa, non gliela può lasciar passare. «Ma come fai a parlare di mezzi illegali, proprio tu che stai studiando per diventare magistrato!»
«Preferisci affidarti all’incapacità delle classi dirigenti e piegare la testa davanti al demagogismo social-neutralista? È questo che vuoi?»