Marcia su Roma = sì (n° 108702 del brevetto)
Quando gli squadristi, il 28 ottobre 1922, iniziarono a confluire a Roma nonostante il blocco dell’esercito a Orte e la resistenza degli Arditi del popolo a Civitavecchia, mio nonno c’era – anche se papà, quando provo a riparlargliene, si dice scettico, non capisce come sia stato possibile, insiste che non è credibile che un magistrato abbia partecipato alla marcia su Roma.
Mio nonno c’era – anche se tutta questa storia iniziò con un bluff di Mussolini che arrivò a Roma solamente il 30 ottobre, prendendo un treno a Milano e viaggiando in un vagone letto, con il re che poi, senza battere ciglio, gli conferì l’incarico di formare un nuovo governo. Se il re avesse firmato il decreto sullo stato d’assedio presentatogli da Luigi Facta, non ci sarebbe stata alcuna “marcia”: l’esercito regio avrebbe fermato i fascisti occupando la reggia, i ministeri, le stazioni e tutti gli altri posti strategici; i dirigenti sarebbero stati arrestati; Mussolini avrebbe avuto le mani legate. Ma la storia non è fatta di “se” e di “ma”, e le proposizioni controfattuali, come spiego sempre ai miei studenti, sono caratterizzate dalla falsità dell’antecedente.
E quindi? Quindi non è vero che il re firmò il decreto; non è vero che l’esercito fermò i fascisti; non è vero che il Duce ebbe le mani legate. «Nei momenti difficili tutti sono capaci di criticare e di soffiare sul fuoco: pochi o nessuno sono quelli che sanno prendere decisioni nette e assumersi gravi responsabilità» dirà qualche anno più tardi Vittorio Emanuele III evocando quei giorni, subito prima di aggiungere: «Nel 1922 ho dovuto chiamare al governo questa gente, perché tutti gli altri, chi in un modo, chi nell’altro, mi hanno abbandonato. Per quarantotto ore, io in persona ho dovuto dare ordini direttamente al questore e al comandante del corpo d’armata, perché gli italiani non si scannassero fra loro».
Ma anche queste dichiarazioni non provano alcunché. Se ci atteniamo ai fatti, l’unica cosa certa è che il re rifiutò lo stato d’assedio, costituzionalizzando ipso facto il golpe fascista. E che il 31 ottobre, mentre gli squadristi sfilavano di fronte al Quirinale, si affacciò al balcone in compagnia di Mussolini.
E mio nonno c’era – anche se nell’ottobre del 1922 era uditore giudiziario in Salento, presso la pretura di San Cesario. Ma furono in tanti a procurarsi quel brevetto quando il fascismo era già al potere, no? Come faccio a essere certa che anche lui sfilò davanti al Quirinale, sotto il balcone del re, acclamando Mussolini in camicia nera?
Marcia su Roma = sì (n° 108702 del brevetto)
Membro della sezione dei Fasci di combattimento di San Cesario, Arturo era perfettamente al corrente della marcia. Chiese un permesso pretestuoso al procuratore di Lecce e arrivò a Roma qualche giorno prima del 28 ottobre, per preparare il terreno partecipando a spedizioni punitive sia a Trastevere sia nel quartiere Trionfale, e prendendo parte all’invasione della tipografia dell’«Avanti!» e del «Mondo».
Mio nonno c’era. Punto. Anche se non riesco a farmene una ragione. Soprattutto quando rileggo il discorso che il Duce tenne il 16 novembre di fronte alla Camera: “Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti”. Cos’hai pensato, nonno, il giorno dopo, leggendo sui giornali quelle parole? Che Mussolini aveva ragione, che si era imposto dei limiti, e che non c’era nulla di illegale? E poi, lo hai letto davvero sui giornali oppure, quel 16 novembre, c’eri anche tu alla Camera, ammassato in tribuna con gli altri squadristi che applaudivano e urlavano? “Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo” continuò il Duce. Anche tu eri convinto che fosse giusto castigare gli oppositori del fascismo, nonno? “Potevo fare di quest’Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli.” Mussolini, incoraggiato dagli applausi, fece una lunga pausa, poi, nonostante l’onorevole Modigliani avesse gridato dagli scranni: “Viva il Parlamento!”, riprese la parola alzando il tono della voce. “Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.” Almeno in questo primo tempo, appunto. Perché poi, come racconta Emilio Lussu nella Marcia su Roma e dintorni: “La parola era ormai detta [...] la Camera capì al volo, e la capitolazione, per una corrente magnetica, fu decisa in quel momento”. Con 116 voti contrari e 316 favorevoli – tra cui quelli di Bonomi, De Gasperi, Giolitti, Gronchi, Meda, Orlando, Salandra – la Camera votò la fiducia a Mussolini.
Mio nonno c’era. E, nonostante tutta la buona volontà, non riesco proprio a capire come abbia potuto avallare la fine della democrazia. Non era anche per la libertà che ti eri battuto al fronte, nonno? Cos’hai pensato quando Mussolini, utilizzando la scusa del “fare”, del “realizzare”, del “non avere ostacoli o impicci”, chiese alla Camera di dargli i pieni poteri? “Senza i pieni poteri voi sapete benissimo che non si farebbe una lira, dico una lira, di economia” – che poi è sempre la stessa storia, ancora oggi, esattamente un secolo più tardi, quando è Salvini a chiedere i pieni poteri: non mi lasciano fare e gli italiani, delle parole, ne hanno le tasche piene!
Leggo e rileggo le pagine che Emilio Lussu dedica alla seduta del 16 novembre, alternando alcuni estratti del discorso di Mussolini alle reazioni dei deputati e del pubblico in aula, e ho una strana sensazione di déjà vu – torno indietro di qualche anno, quando anch’io sedevo tra gli scranni di Montecitorio e, in occasione di importanti provvedimenti, le tribune si riempivano: c’era chi fischiava o contestava impedendo a un deputato di parlare; c’erano i commessi che intervenivano; c’ero io, un giorno, che avevo preso la parola in discussione generale sulla legge sul fine vita. Volevo difendere la possibilità, per un malato terminale, di interrompere ogni terapia, comprese l’alimentazione e l’idratazione artificiali, e dalla tribuna mi era giunto un grido: «Assassina! Quale libertà difendi, Marzano? La libertà di morire?».
Marcia su Roma = sì (n° 108702 del brevetto)
Mio nonno c’era. E non mi importa nulla che, forse, lo fece in buonafede, credendo che la violenza fascista, comparata a quella dei bolscevichi negli anni 1919-1920, fosse una cosa da niente, come diceva il Duce. Mio nonno c’era e non ci sono scuse, non riesco a trovarne nemmeno una; non posso, non voglio, non sarebbe giusto.
E mio padre? Quali scuse ha lui per non avergli chiesto conto del tradimento della libertà e della democrazia? Non si è mai vergognato di quel Benito che si portava dentro, traccia indelebile di un passato che non passa mai?