13

La vergogna non ha senso, insisteva mio padre quand’ero piccola e gli dicevo che mi vergognavo. «Quando ci si comporta bene non c’è motivo di provare vergogna. Hai fatto qualcosa di male?»

Ma io mi vergognavo sempre. Quando papà alzava la voce in pubblico. Quando usciva di casa con una macchia sulla giacca. Quando raccontava bugie, anche se non ce n’era alcun bisogno. Perché non dici mai le cose esattamente come stanno, papà? Perché non ascolti quello che ti dicono le persone e rispondi a casaccio? Perché continui a ripetere che sei un professore ordinario anche quando non c’entra? Perché mi chiami “onorevole”, anche se ti ho spiegato mille volte che non voglio, mi vergogno, non lo fare, papà, ti prego?

Per anni ho pensato che la vergogna fosse una conseguenza della mia ansia di perfezione; e che l’ansia di perfezione fosse, a sua volta, il risultato della paura di non corrispondere alle aspettative che avevo su di me. Oggi mi chiedo se sia questa la sequenza esatta, oppure se, per anni, il mio errore sia stato non capire che il punto di partenza era proprio la vergogna.

Ne parlo con Jacques, ma mi fissa interdetto. Per lui non cambia nulla se si capovolge la sequenza.

«Ma la vita non è la matematica, Jacques! Il risultato non è lo stesso quando si inverte l’ordine dei fattori» commento infastidita.

«E quindi?»

«Quindi all’inizio ci deve per forza essere la vergogna, rifletti un secondo! Se hai delle aspettative, è solo perché dietro cova l’ansia di perfezione; e l’ansia di perfezione non può che essere la conseguenza della vergogna. L’origine di tutto è lei. Ci dev’essere qualcosa di ontologico nella vergogna.»

Jacques resta silenzioso. Non sopporta quel mio tono perentorio, quel tono da maestrina, come dice lui, quella collera appena celata, sempre pronta a esplodere.

«Ma è davvero ontologica questa vergogna, oppure ce la buttano addosso i nostri genitori?» gli chiedo. Mi interessa davvero sapere cosa ne pensa. Non voglio per forza aver ragione.

Jacques si rilassa, sorride. E mi racconta di quando era bambino e si vergognava della madre. «Non si vestiva bene» dice lui, «non era elegante come le altre mamme.»

«Cioè?»

Jacques non sa spiegarlo. Però si ricorda di quella volta che erano andati a fare un pic-nic nella foresta e lui si era portato dietro le posate d’argento, non sopportava di mangiare con le posate di plastica, anche se la madre lo aveva sgridato moltissimo, e in fondo aveva ragione lei, che c’entrano le posate d’argento quando si va a fare un pic-nic?

La vergogna passa di generazione in generazione. La si succhia al seno della madre e la si respira nelle braccia del padre. Ce la si trasmette come un’eredità scomoda, con la quale, prima o poi, qualcuno i conti dovrà pur farli. Anche se la verità storica rischia di sfuggirci. E, la maggior parte delle volte, nessuno saprà mai cos’è successo esattamente.

Qual è la prima volta che mi sono vergognata? Quando si scrive, capita spesso di comportarsi come se si stesse montando un film. Ci si ritrova davanti a una serie di scene, ognuna perfetta, ognuna compiuta, ma poi si decide di eliminarne alcune, o di dividerle in due o di duplicarle. Si taglia, si incolla, si recide, si butta via. Esattamente come con le parole e le frasi che ci si è appuntati da qualche parte, ognuna è perfetta, ognuna è compiuta, ma quale verità può mai venir fuori quando, mettendo insieme parole e frasi, si segue il corso dei propri pensieri trascurando la realtà? Non tanto e non solo per dare ritmo, quanto per dilatare la materia, dissolvere l’imbarazzo, confondere le idee. Si copia e si incolla una frase dove serve. Si cancella una scena che imbarazza. Se ne aggiunge una fabbricata di sana pianta.

La memoria immagina e interpreta. Distorce. Riproduce.

Ma la verità che ne esce è altrettanto vera, no? Non è quella che ci permette di andare avanti?

Provo a tornare indietro nel tempo. Quando nasce mio fratello, sto per compiere tre anni e sono gelosa. E allora mento alla baby-sitter – sì, mento, questo me lo ricordo perfettamente – e le dico che non c’è problema, può lasciarmi da sola, può occuparsi del bimbo, lo deve far addormentare, certo, non c’è problema, va bene così, va tutto bene, certo. Tempo di ritrovarmi sola in sala da pranzo, afferro un paio di forbici e mi taglio i capelli. E quando la baby-sitter torna e urla: «Ma che hai fatto, Michela! Sei impazzita?» mi vergogno. Ma è solo l’inizio. Perché poi smetto di mangiare. Non ho voglia, non ho fame, la carne mi fa schifo, faccio una pallina con la carne masticata e la metto lì, in un angolo della bocca, e aspetto, poi la sputo, ma quand’è che papà si allontana per andare dal fratellino? Mi vergogno, ma non posso farci niente se odio mio fratello, perché lo odio, sì, anche se lui non c’entra nulla, è piccolo e indifeso. Ma anch’io sono piccola e indifesa, no?

Il secondo ricordo che ho della vergogna risale a quando, di anni, ne ho appena compiuti tre. Sono ai giardinetti, con mia madre e Arturo. Lui è nel passeggino, io però posso andare a giocare, dice mia madre: «Perché non vai anche tu sullo scivolo?». Si è resa conto che da alcuni minuti ho lo sguardo fisso sullo scivolo, ma non mi muovo. Il problema è che in cima c’è una piattaforma, e sulla piattaforma ci sono tanti bambini, e io mi vergogno. Non so perché, non so di cosa, ma mi vergogno. Poi non ricordo più nulla. Almeno fino a quando non mi sveglio tra le braccia di mamma che corre verso la macchina. Pare che, nel frattempo, io sia caduta dallo scivolo, slogandomi la clavicola e perdendo i sensi. Cos’è successo? Ho messo un piede in fallo? Mi hanno spinto? Ho perso l’equilibrio o mi sono buttata giù? Nessun ricordo. A parte la vergogna.

Di quando avevo sei, sette anni e stavo partecipando a una caccia al tesoro organizzata in montagna, invece, ricordo tutto. C’era un bambino leggermente più grande di me, Gabriele, che mi piaceva tantissimo. Erano stati estratti a sorte alcuni bimbi per costituire le squadre, e nessuno mi voleva nel suo gruppo. A un certo punto, qualcuno dice a Gabriele che sono rimasta fuori e che forse deve prendermi con sé. E lui: «Noo! Lei no, è stupida». Lo dice senza rendersi conto che io gli sono accanto e sento tutto. Perché pensa che io sia stupida? Perché lo dice così, davanti a tutti? Che cosa posso aver mai detto o fatto? Certo, quando lo vedo divento tutta rossa, non so mai che dire, mi vergogno. Ma perché pensa che io sia stupida?

Quando vinsi il concorso alla Normale di Pisa, la prima cosa cui pensai fu quello “stupida” che aveva detto Gabriele parlando di me. Il suo disprezzo e la mia vergogna. Subito prima di mormorare tra me e me: non sono stupida, stronzo!