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A Campi, mio nonno trova alloggio presso la famiglia Perrone. Dovendosi occupare al tempo stesso dei procedimenti civili, penali e amministrativi di tutto il mandamento, lavora molto, è quasi sempre in tribunale. Ogni pomeriggio però, quando ha finito di consultare un dossier, scrivere una sentenza o discutere con gli avvocati, passeggia per le strade del paese, sempre elegante, con i guanti e il bastoncino. Sulla storia dei guanti e del bastoncino papà insiste molto; non sa con esattezza quando si siano conosciuti i suoi genitori, ma dice che quando il nonno passeggiava per le strade del paese le ragazze si fermavano a guardarlo incuriosite. Poi lui, tra le tante, aveva scelto nonna Rosetta. «La mamma da giovane era bella» dice mio padre, «era la più bella» insiste vedendomi perplessa. La nonna, bella? Le prime fotografie che ho trovato di lei risalgono all’epoca del fidanzamento e, in quei ritratti, Rosa non è particolarmente bella: ha l’aria severa e i capelli raccolti stretti sulla nuca; ha vestiti accollati e non sembra nemmeno molto curata; poi scopro che a casa delle cugine, sulla volta del salone principale, c’è il ritratto di una giovane donna con i capelli sciolti e un vestito scollato: all’interno di un ovale circondato da una cornice rosso pompeiano e oro zecchino, immersa nell’azzurro chiaro del cielo, c’è la figura graziosa di una ragazza, sembra che voli, come un angelo, nelle mani ha una corona di rose, il vestito è giallo ocra, il viso è rivolto verso l’alto; la cugina di papà dice che è mia nonna, il pittore si era innamorato di lei, da ragazza era bellissima, ha aggiunto, e il pittore, quando suo nonno gli aveva chiesto di decorare le mura e le volte del palazzo, aveva voluto ritrarre lei.

Ma torniamo a nonno Arturo che, uscito dal tribunale, passeggia ogni giorno per le strade di Campi con i guanti e il bastoncino e che, una sera di fine marzo, davanti a un portone di via Vittorio Emanuele – quello enorme e maestoso che ci si trova di fronte arrivando da via Umberto I – si imbatte nella nonna.

Rosa Campo ha da poco compiuto ventisei anni. La madre vorrebbe tanto che si sposasse, vorrebbe soprattutto che finisse con l’accettare la corte del giovane Licci, «un ottimo partito», ripete ogni giorno Giuseppina a sua figlia «che aspetti a sposarti? Vuoi restare zitella? Io, alla tua età, avevo già tre figli! Quand’è che ti decidi, figlia mia?». Ma Rosa, di questo Licci, non ne vuol sapere. Così come degli altri uomini di Campi. Non c’è nessuno che le interessi, i “buon partiti campioti”, come li chiama sua madre, li conosce da anni, li incontra sempre alle feste, e con loro si annoia. «Mica ci si deve per forza sposare, mamma!» Quando però, sulla soglia di casa, intravede Arturo, qualcosa in lui la incuriosisce. Capisce subito che si tratta del nuovo pretore – gliene aveva parlato Ninuzza, «il giudice Marzano ha classe» le aveva detto, «peccato che sia sempre sulle sue e non dia mai confidenza, io l’ultima volta ho provato a farmi avanti, ma senza alcun risultato» – e, invece di chiudere in fretta il portone come ha l’abitudine di fare quando si trova davanti a uno sconosciuto, resta immobile sulla soglia.

Arturo le si avvicina. «I miei ossequi, signorina» dice presentandosi e facendole il baciamano; sa perfettamente che si tratta di Rosa Campo: la sua è una delle migliori famiglie del paese e donna Giuseppina ha la puzza sotto il naso, per sua figlia vuole un nobile partito, ha già fatto fuggire tanti pretendenti.

Rosa sente il calore salirle sulle guance, e non risponde alla madre che da lontano le chiede perché non sia ancora rientrata. Poi fa una smorfia, come per scusarsi. E lui le sorride.

Pare che, nonostante Rosa si fosse innamorata del pretore e avesse finalmente deciso di sposarsi, sua madre, questo matrimonio, non lo volesse proprio. Pare che lo abbia ostacolato con tutte le sue forze. Pare che anche dopo la celebrazione delle nozze, al genero, non gliene lasciasse passare una. Rimasta vedova a trentasette anni, era stata lei – Giuseppa Concetta Lucia Malvani, detta Giuseppina, ma per i figli, le cugine e i nipoti, semplicemente Pippi – a occuparsi delle proprietà di famiglia e a crescere da sola Angelo, Vincenzo e Rosa. Giuseppina era nata l’11 dicembre 1874 e a diciassette anni si era sposata con Michele Campo, un medico di Lizzano che, per esercitare la professione, si era da poco trasferito in paese. Sebbene il medico fosse quindici anni più grande di lei e non appartenesse a una famiglia aristocratica, il matrimonio era stato ben accolto dai Malvani: il dottor Michele possedeva numerose terre e, da quando era arrivato a Campi, era rispettato e ossequiato da tutti. Certo, non poteva vantare titoli nobiliari, ma quelli, Giuseppina, li aveva di suo: la madre era marchesa e il padre, Carmelo, veniva da una nobile famiglia di Ginosa; era stato suo padre, don Vincenzo Malvani, una volta nominato giudice regio di Manduria, a comprare e ristrutturare il palazzo di via Vittorio Emanuele, un ex convento costruito a Campi nel Seicento – nella parte di casa ereditata da papà, si intuisce bene l’antica struttura: le volte a botte e a squadro, il portone in legno massello e ferro battuto, il cortile e la lavanderia con le vasche scavate direttamente nella pietra; ora che l’ho fatta ristrutturare sono venuti fuori anche gli affreschi, le decorazioni in pietra leccese e lo stemma dei Malvani: all’interno di uno scudo rettangolare a spigoli vivi in alto e arrotondati in basso con una piccola cuspide centrale nel lato inferiore, lo spazio è diviso in tre fasce; in ogni fascia ci sono quattro gigli; sopra lo scudo c’è un elmo da cavaliere.

«Dài, mamma, lasciami andare, ti prego!»

È il 26 luglio 1926, e a Campi è stata organizzata una serata in onore di Achille Starace, che è da poco diventato vicesegretario del Partito fascista. Rosa è già pronta, si è fatta cucire apposta un vestito dalla comare Celeste, uno di quelli con la vita bassa e le perline di vetro sull’orlo della gonna – ne indossava uno simile la cugina Gemma il giorno del suo compleanno, se l’era fatto confezionare a Lecce sulla base di un modello arrivato direttamente dalla capitale.

«Non credo sia opportuno che tu stasera vada in piazza. Ho parlato con mio fratello, e lui mi ha detto che né Virginia né Maria ci andranno. Quanto a me, non ho nessuna intenzione di muovermi da casa. Che c’importa, a noi, di questo Starace? Ci ete? Ce bbole?»

Il gerarca fascista, dopo aver ispezionato i cantieri dell’Acquedotto pugliese, vuole approfittare dell’occasione per visitare alcuni paesi del Salento. E quella sera sarà a Campi, il sindaco Guarino ha deciso di conferire al cognato la cittadinanza onoraria. Arturo ha chiesto a Rosa di accompagnarlo alla cerimonia. Le ha spiegato che ci saranno il prefetto Murri e il procuratore del re, il principe apostolico Orsini Ducas e il barone Bacile di Castiglione, il sindaco di Lecce e quello di Gallipoli. «Un’ottima occasione per annunciare ufficialmente il nostro fidanzamento, Rosa, non trovi? Dovrebbe venire anche Nicola, il mio collega di Acquaviva delle Fonti. Ti ricordi la storia della pergamena inviata al Duce per esprimergli la solidarietà da parte della magistratura dopo l’attentato di Zaniboni? Fu Nicola ad associarmi all’iniziativa, vorrei tanto fartelo conoscere, Rosetta mia. E poi saremo trattati benissimo, il camerata Starace sa perfettamente chi sono, sa che lo scorso marzo c’ero anch’io, a Roma, con gli altri pretori che hanno reso omaggio al Duce, ti ho mostrato la foto, ricordi? Quella in cui sono accanto a Mussolini, lui al centro, maestoso e imponente, con le braccia conserte, e io alla sua sinistra che cerco di darmi un contegno, nonostante la vivissima trepidazione, come facevo d’altronde a non essere emozionato in presenza del più grande statista e genio italico?»

«Virginia e Maria sono ancora ragazzine, mamma. E poi io non vado mica in piazza. Io voglio partecipare con Arturo al ricevimento, dopo la cerimonia pubblica ci sarà una grande festa in Municipio. E ci saranno proprio tutti, mamma, perché io no?»

«Questo pretore non mi piace, figlia mia, quante volte te lo devo ripetere? È un arrivista, un presuntuoso, un parvenu. Quello vuole solo i tuoi titoli di nobiltà e le tue terre, Rosa, lascialo perdere, ascolta tua madre che ti vuole bene. Sei ancora in tempo per cambiare idea. Possibile che non ci sia nessun campioto di buona e onorata famiglia che trovi grazia ai tuoi occhi?»

Donna Giuseppina, dopo la scuola elementare, non aveva voluto proseguire gli studi. «Una volta che sai leggere, scrivere e far di conto, non hai bisogno di altro!» rispondeva a chiunque le domandasse come mai avesse smesso di studiare. «Ti sposi, fai i figli e ti occupi della famiglia, cos’altro ti serve quando sei una signora?» E poi lei già sapeva tutto ciò che era necessario conoscere per mandare avanti la casa, verificare l’operato dei coloni, occuparsi delle domestiche. Un caratteraccio, confessa mio padre, che con la nonna c’era cresciuto. Non era mai contenta di nulla, non le andava mai bene niente: la Lucia, la salsa non la sapeva fare; la Concetta, le pulizie di casa le tirava via; i formaggi che le portavano i coloni dalla campagna a Natale o a Pasqua erano di scarsa qualità, «ma chi si credono di essere ’sti cafuni ’mbrujuni?».

Anche mia nonna aveva un carattere forte. Caparbia e granitica come sua madre – e poi mi chiedo da chi l’ho preso io ’sto caratteraccio... –, aveva deciso di andare al ricevimento con Arturo, e ci sarebbe andata. «Io sto uscendo, mamma, ci vediamo poi domani mattina.» Inutile discutere, inutile invocare la Madonna e san Pompilio, inutile persino imprecare: «Se tuo padre fosse vivo non ti comporteresti in questo modo, lui ti farebbe correre! Ne ho parlato anche con Nino, è del mio stesso avviso. Pure lui ha molti dubbi sui sentimenti di quest’arrivista». Al figlio maggiore, specialmente dopo la morte prematura del marito, nonna Pippi perdonava tutto: i soldi persi al gioco, le amanti, la superficialità, il cinismo.

«Nino farebbe meglio a pensare a tutto quello che si gioca a carte o spreca con le amanti, invece di stufare me. È lui che c’ha i grilli per la testa, mamma, non io. Perché adesso te la prendi con me? E poi perché mi ripeti continuamente che Arturo non mi ama?»