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Per papà, i grilli per la testa ce li aveva mamma. E mio fratello, che assomigliava a lei. E io, quando non gli obbedivo, e poi le cose andavano storte, e alla fine ero costretta a dargli ragione.

I grilli per la testa e la joie de vivre: per papà si trattava della stessa identica cosa. «Ahh, questa joie de vivre» diceva, con un “ahh” allungato, cavernoso, carico di disprezzo, quando magari, durante un pranzo o una cena, mio fratello e io iniziavamo a ridere: cadeva un oggetto, mamma diceva o faceva qualcosa, poco importa, in fondo, il motivo esatto; quando si è piccoli accade che si rida per un nulla, accade pure quando si diventa grandi, accade persino in università o durante un convegno, una parola fuori posto, gli sguardi che si incrociano e si scoppia a ridere... Ma ridere o scherzare, per mio padre, significava prendere le cose con superficialità; e prendere le cose con superficialità era la prova dell’incapacità di dare spessore all’esistenza. «Nella vita, le cose non cadono dal cielo» diceva sempre. «Nella vita, le cose si sudano, si meritano, ce le si conquista. E, per meritarsele e conquistarsele, ci vuole rigore, serietà, costanza, ordine.» Tutto il contrario di ciò che, per mio padre, incarnava mamma. Che non aveva studiato – in realtà non è che non avesse studiato, non si era laureata, certo, ma aveva un diploma e insegnava educazione artistica alle medie e, prima di conoscere papà, dipingeva pure: olii e acquarelli che mi hanno trasmesso il senso del colore e delle sue mille sfumature – e che quindi tante cose non le poteva capire. «Tua madre è provinciale, è ignorante, vuoi diventare come lei?» Quando aveva conosciuto mamma, mio padre si era innamorato follemente di lei: mia madre, da giovane, era molto bella; quando guardo una sua foto, penso subito a una di quelle attrici italiane degli anni Sessanta e Settanta che, in Francia, ci invidiano tanto. Sono convinta che i miei genitori, nei primi anni di matrimonio, siano stati felici: mamma vedeva in papà un brillante intellettuale che le avrebbe permesso di uscire dal provincialismo soffocante in cui era cresciuta; papà vedeva in mamma una persona buona, leale, che lo avrebbe potuto spalleggiare nel suo tentativo di emancipazione. Poi, poco alla volta, le cose si erano incartate, e mio padre si era convinto che dietro molti dei suoi fallimenti ci fosse la moglie. «Si deve buttare il sangue, se si vuole ottenere qualcosa. Sai quanti sacrifici ho dovuto fare io per arrivare dove sono arrivato? Pensi che sia stato facile? Sai cosa significa ritrovarsi in America senza parlare nemmeno una parola di inglese, decidere di riprendere daccapo gli studi e laurearsi in Economia a Cambridge, occupandosi al tempo stesso della famiglia in Salento e dei coloni? Sai cosa vuol dire ritrovarsi capofamiglia a ventun anni?»

«Ti piace questo vestito?» chiede un giorno mamma a mio padre. Di soldi, non ce ne sono molti. Ma lei è riuscita a metterne da parte un po’, e ha deciso di farsi cucire un abito dalla sarta – la stoffa comprata al momento dei saldi, il modello strappato da una rivista di moda trovata nella sala d’attesa del dentista. Sono anni che non si compra nulla, si arrangia con quello che ha già, fa sacrifici e cerca di mostrare al marito che non è frivola, non lo è affatto, ma a trentacinque anni un vestito ogni tanto ce lo si può anche permettere, no?

«Ti auguro di non poterlo mai mettere» risponde mio padre, glaciale. Ha un tono talmente sprezzante che io, assistendo per caso alla scena, corro a chiudermi in camera, prendo in braccio Cicciobello, lo consolo, gli dico di non piangere.

Quando lo racconto a Jacques, lui resta senza parole. Poi: «In che senso? Che voleva dire tuo padre? Non capisco».

Il problema è che nemmeno io, a distanza di anni, riesco davvero a capire il significato esatto delle parole di mio padre. Oppure semplicemente ad accettare il suo atteggiamento nei confronti di mamma. Come se comprarsi un vestito fosse la prova evidente di una colpa da espiare. Ma in che senso, appunto? Perché? Cosa avrebbe dovuto fare mia madre per meritare la considerazione e la stima del marito? Murarsi viva in casa?

«Non dirmi quello che devo o che non devo fare! Sono io che decido, l’uomo sono io, non mi farò mai comandare da te. Mai! Hai capito?»

Succede un paio di anni fa. Sono a Roma, a casa dei miei genitori, e sento le urla arrivare dalla cucina. Esco dalla mia camera – anche se vivo da oltre vent’anni a Parigi, la mia camera a Roma c’è sempre – e mi precipito. Papà è rosso in viso e continua a gridare: «Sei tale e quale a tua madre...». Mamma impallidisce, poi afferra il primo piatto che le capita davanti, lo butta a terra ed esce dalla cucina sbattendo la porta. Non è cambiato nulla, mi dico. Non cambierà mai niente a casa mia. Violenza. Subita o assistita, come si dice oggi. Ma in fondo poco importa che la si sia subita direttamente o indirettamente, ciò che conta è averla vista, sentita, annusata, ingoiata, odiata, vomitata.

«Papà, smettila, vergognati! Ti rendi conto di quello che stai dicendo?» Ora sono io che non riesco a trattenermi. Sono più di cinquant’anni che i miei genitori sono sposati, e a scene come questa ho assistito impotente tante volte quand’ero piccola. Ma ora non sono più piccola. Mio padre deve smettere di umiliare mamma, basta con questi deliri di onnipotenza.

«Che ne sai tu di com’era tua madre quando l’ho conosciuta? E di tutto quello che ho dovuto fare per evitare che vi rovinasse?»