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Il 2 giugno 1927, alle 10.15, il giudice Arturo Marzano si presenta in Comune e, davanti al podestà, annuncia la volontà sua, e della signorina Rosa Maria Campo, di sposarsi. È da gennaio che non vede Rosa, da quando lo hanno trasferito a Vico del Gargano. È stremato dai ricorsi, gli esposti e le audizioni legate alla pratica disciplinare cui ha scelto di sottomettersi per lavare il proprio onore. E all’inizio di aprile ha deciso di prendere alcuni mesi di aspettativa, rinunciando a un terzo del proprio stipendio. Vuole stare vicino alla fidanzata. Vuole soprattutto occuparsi personalmente dell’organizzazione del matrimonio: conta di sposarsi al più presto, e desidera che la cerimonia civile e quella religiosa si celebrino entrambe entro la fine dell’anno.

Quella mattina di giugno del 1927, Rosa resta invece a casa. Arturo le ha spiegato che è possibile: c’è un articolo del Codice civile che lo prevede. L’unica conseguenza è l’annullamento formale dell’atto, e quindi la mancata affissione delle pubblicazioni del matrimonio sulla porta della casa comunale, come accade per chiunque – «Ma la nostra non è una famiglia qualunque» aveva commentato donna Giuseppina, «che bisogno c’è di far sapere a tutti che Arturo e Rosetta hanno deciso di sposarsi?».

Quando consulto online il registro delle pubblicazioni di matrimonio del 1927, e vedo che l’atto Marzano-Campo è sbarrato da due linee nere disegnate in croce, mi stranisco. Accanto c’è un’annotazione che specifica che, non essendosi presentata la futura sposa, l’atto è annullato e non sarà quindi affisso alla porta della casa comunale. Perché la nonna si è rifiutata di presentarsi di fronte al podestà? Mi innervosisco. Si sentiva così diversa e superiore agli altri?

Ma non è solo questo che scopro. Quando trovo l’atto di matrimonio, mi rendo conto che pure il giorno in cui Arturo e Rosa si sposano, il 10 ottobre 1927, mia nonna non si muove da casa. Il podestà, avendo ricevuto un certificato medico in cui il dottor Paolo D’Agostino attesta che la signorina Rosa Maria non può recarsi in Comune perché affetta da disturbi nervosi, dichiara di trasferirsi in casa Campo:

Io Guarino Giuseppe, Potestà del Comune di Campi e ufficiale dello Stato civile, col vicesegretario Signor Parlangeli Salvatore, mi sono trasferito in questa casa e ho trovato Marzano Arturo, di anni trenta, giudice, nato a Nociglia e residente in questo comune, figlio di Ferruccio e della fu Ragusa Giulia, e Campo Rosa Maria, di anni ventotto, residente in questo comune, figlia del fu Michele Campo e di Giuseppina Malvani, i quali mi hanno chiesto di unirli in matrimonio.

«Papà, tu lo sapevi che la nonna si era rifiutata di andare in Comune per il matrimonio?»

«In che senso?»

«Nel senso che ha fatto recapitare al podestà un certificato medico in modo che il matrimonio potesse essere celebrato a casa sua.»

«Mi sembra molto strano.»

«Anche a me, ma sull’atto di matrimonio c’è scritto così. E poi cos’è questa storia dei disturbi nervosi?»

Papà non lo sa. Prima che glielo dicessi, non sapeva nemmeno che il matrimonio civile avesse avuto luogo il 10 ottobre 1927. A lui hanno raccontato solo della celebrazione religiosa a Santa Maria delle Grazie, la chiesa madre di Campi, quando sua mamma, che aveva perso il padre a dodici anni, era stata portata all’altare da suo nonno, Carmelo. E poi tutte le famiglie della Campi bene si erano ritrovate a casa loro, era stata una festa bellissima, avevano ballato il foxtrot e la quadriglia, il buffet era stato organizzato da donna Giuseppina, per settimane la Lucia non aveva fatto altro che cucinare sotto lo sguardo severo e costante della padrona di casa.

«E i disturbi nervosi di tua madre?» insisto. Questa storia del certificato medico per non andare in Comune mi irrita ancora di più dell’annullamento delle pubblicazioni. Che bisogno c’era di inventarsi dei disturbi nervosi? Le regole sono regole, no? Oppure i disturbi nervosi la nonna ce li aveva davvero?

«Le regole sono regole» diceva sempre papà quando mio fratello e io gli chiedevamo di fare un’eccezione. «Le regole si rispettano, altrimenti non ci possiamo poi lamentare che vada tutto alla malora.» Papà non ha mai sopportato quella che lui definiva «l’atavica propensione meridionale a trovare l’inganno una volta fatta la regola». Papà ha sempre deplorato l’indolenza della gente del Sud, la tendenza a procrastinare, la pasta fatta in casa e la salsa di pomodoro, roba vecchia, c’è bisogno di cambiare le mentalità, c’è bisogno di progresso e di cultura.

Era profondamente legato alla propria terra, ma al tempo stesso ne disprezzava la lentezza e l’attaccamento alle tradizioni, e aveva trovato il modo di risolvere questa contraddizione buttando tutto addosso a mamma, come se quella provinciale e apatica fosse lei: lui, dal Sud, si era emancipato molto presto; lui era andato a vivere in Inghilterra; lui aveva studiato ad Harvard e a Cambridge, era un intellettuale; lui, la sera, voleva mangiare soup e cheddar, altro che orecchiette con le cime di rapa!

«Si sentivano speciali in quella casa» dice adesso mia madre che, dopo anni di silenzio, non ne lascia più passare una. «Le regole se le sono sempre aggiustate come volevano, si sono sempre sentiti al di sopra di tutto e di tutti.» Ora mamma parla, protesta, talvolta urla pure lei. «Dopo più di cinquant’anni in cui mi sono sentita dire che non capivo nulla, oggi so che è tuo padre quello che non ha mai saputo come ci si dovesse comportare nella vita.»

«Le regole sono regole» diceva sempre papà. Ma allora perché sua madre, per la celebrazione delle nozze, non era andata in Comune come chiunque altro? Adesso sono io a rivendicare il valore delle regole. Sono io che non sopporto i sotterfugi, le bugie, gli imbrogli. E sono ossessionata da chi, sentendosi più furbo degli altri, approfitta della buonafede altrui. A tratti sono intransigente, Jacques me lo dice spesso. Troppo severa con me stessa e con gli altri, insiste. Più realista del re.

Nemesi storica anche questa volta?