Ripenso all’ultima volta che sono partita da Roma.
Sono a Fiumicino, sto per imbarcarmi sul volo Easyjet delle 15.10 per tornare a Parigi – quando ero deputata e facevo tutte le settimane su-e-giù Parigi-Roma, era quello il volo che prendevo per rientrare a casa il venerdì pomeriggio, ogni santo venerdì, per oltre cinque anni – e al gate, come sempre, c’è una bolgia infernale. L’hostess accende il microfono e, come sempre, chiede se tra i passeggeri del volo EJU4244 ci siano dei volontari disposti a mettere in stiva il proprio bagaglio a mano per facilitare le operazioni di imbarco. In contropartita, spiega l’hostess, i volontari potranno imbarcarsi subito dopo i passeggeri speedy boarding, evitando così l’attesa e il rischio che poi, dato il numero elevato di bagagli, i loro trolley vengano comunque ritirati e messi in stiva.
Per anni, non ho fatto altro che sentire gli stessi discorsi, le stesse lamentele, gli stessi commenti – non ci penso nemmeno! Ma che vogliono? Mai più con Easyjet! Questa volta, però, ci sono una quindicina di francesi che si dirigono immediatamente al banco d’imbarco. Li osservo curiosa, non accade praticamente mai, a che serve imbarcarsi subito se, quando si arriva a destinazione, c’è minimo mezz’ora di attesa per recuperare il bagaglio? Boh, penso. Magari si sono fatti quattro conti e pensano che ne valga comunque la pena. Poi vedo che i francesi spingono, cercano di farsi strada nella fila speedy boarding, vogliono passare per primi, e inizio a stizzirmi. Ma il problema non è tanto che non rispettino la fila, insisto con Jacques quando, arrivata a casa, gli racconto l’accaduto. Il problema è che, una volta passati i controlli, i francesi, uno dopo l’altro, tolgono l’etichetta dal bagaglio per non consegnarlo e portarselo in cabina.
«Hai capito questi, Jacques?»
A Jacques non interessa un granché il mio racconto. Ha l’aria assente. E quando ripeto: «Hai capito questi, Jacques?» risponde annoiato: «Ma a te che ti importa di quello che fanno gli altri?».
«Come che mi importa? Non sopporto chi vuol fare il furbo, non è giusto! Ma io gliel’ho detto, sai? Li ho guardati malissimo e ho detto: “Ve ne approfittate perché siete in Italia, eh? Se foste in Francia non lo fareste, vero?”. E poi, una volta sull’aereo, l’ho detto all’hostess.»
«In che senso?» Jacques ora mi fissa. È perplesso.
«Nel senso che li ho denunciati.» Dicendolo, abbasso la voce. Un po’ mi vergogno. Lo ammetto anche con Jacques. Che non l’avrebbe mai fatto, certe cose non si fanno, non si denunciano le persone, altrimenti poi come si fa a condannare chi denunciò gli ebrei durante il fascismo?
«Ma che c’entra, Jacques? Mica ho denunciato qualcuno per ciò che è, ho denunciato un fatto, un’azione, il non rispetto di una regola.»
«Quindi l’unica cosa che conta, per te, sono le regole? Cos’è quest’idolatria delle norme?»
Mi vergogno per quello che ho fatto. Ma non c’entra nulla con la delazione. E nemmeno con il rispetto cieco delle regole. Il problema è l’ingiustizia. Il problema è che non ne posso più di tutta questa gente che si crede scaltra, e che cerca sempre il modo di approfittare della buonafede altrui. Odio l’idea che nella vita si vada avanti così, con i furbi che vincono sempre e gli altri che possono solo prendersela con se stessi e la propria ingenuità.
Odio chi se ne approfitta.
Odio il cinismo.
Odio chi non prova mai vergogna.
Odio chi non sa nemmeno cosa siano i sensi di colpa.
Odio le menzogne.
Odio la falsità.
«E le regole?» chiede ancora Jacques. Ma non è questo il punto, in fondo odio anche quelle, ma se ci sono si rispettano, oppure ci si batte per cambiarle.
Il punto è sempre la giustizia. E l’ingiustizia. E la sofferenza. E le conseguenze delle proprie azioni.