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Ho solo una fotografia delle nozze di Arturo e Rosetta, senza data e senza annotazioni. Ce l’avevano le cugine di papà, e l’ultima volta che sono stata a Campi me la sono fatta dare. È stata scattata nel cortile della casa dei nonni: riconosco le grandi porte laterali e gli scalini, riconosco pure la ringhiera in ferro battuto, è identica a com’è oggi, nonostante sia passato quasi un secolo; solo la pavimentazione è diversa, all’epoca in terra c’erano le chianche, chissà chi ha avuto la pessima idea di buttarle via e sostituirle con quelle orribili piastrelle in cemento?

Arturo e Rosetta sono in seconda fila, davanti a loro ci sono cinque bambini che impediscono di capire bene come sia fatto l’abito della sposa. Dalla foto, si intravedono solo la parte alta del vestito e il velo che cinge il capo di Rosa coprendole il viso, bloccato sulla fronte da un cordone. A differenza di Arturo, che è estremamente serio, la nonna abbozza un sorriso. Il suo viso è paffuto, come gonfio, assomiglia a quello di sua madre, che le è accanto vestita di nero, con i capelli a caschetto corti e una leggera frangia, i tratti appesantiti, niente affatto bella. Dico a Jacques che trovo sciatto l’abito da sposa di mia nonna. Lui risponde che esagero, all’epoca era così che ci si vestiva il giorno delle nozze. Ma, quando vado a cercare le immagini dei vestiti della fine degli anni Venti, mi sembra che non abbiano nulla a che vedere con quello di Rosetta. Niente pizzi, niente frange, niente spille e niente diademi nella foto di mia nonna. E poi c’è quel cordone rozzo che le cinge il capo, e al posto di un filo di perle, al collo, una sorta di sciarpa bianca.

In viaggio di nozze, Arturo ha deciso di portare sua moglie a Venezia, ma fanno tappa a Bologna da Vincenzo, il fratello di Rosetta, che lì ha studiato e si è laureato in Medicina, nel 1921. Sua moglie desidera tanto visitare la città di cui Enzo le scrive sempre, raccontandole di quanto eleganti e fini siano le donne romagnole. I ricordi che ha Arturo di Bologna sono legati alla guerra, preferirebbe evitare, ma alla fine cede. Cede pure quando Rosetta insiste per andare dal fratello che lavora al dispensario di Bazzano, anche se a lui viene la pelle d’oca solo a sentir nominare la tubercolosi, tutto ciò che riguarda il corpo umano e le malattie gli fa paura, e poi con Enzo non si prende, quando si sono conosciuti hanno litigato, politicamente sono troppo distanti: Enzo è antifascista e non ha alcuna intenzione di assecondare il cognato come invece alla fine ha fatto sua madre, Giuseppina, che il 1° maggio 1927 si è iscritta alla sezione femminile dei Fasci di Campi Salentina.

C’è una cartolina del 16 ottobre 1927, inviata alle cugine, che ritrae Arturo e Rosetta in Piazza Grande: circondati dai piccioni, i due sposini fissano l’obiettivo, incerti se restare immobili nonostante un piccione si sia venuto a posare sul braccio di Arturo oppure scacciare gli uccelli con la mano e irritare il fotografo. La cartolina era insieme alla foto del matrimonio che ho recuperato dalle cugine di papà, e fissata con uno spillo a una busta gialla con dentro una fattura della sartoria di Elena Venturoli, in via Saragozza.

Enzo ha detto a Rosetta che è lì che si servono le nobildonne bolognesi, e lei ha domandato ad Arturo di accompagnarla. Quando ha visto che gli occhi della moglie brillavano davanti ai modelli esposti in vetrina, Arturo ha deciso di accontentarla e di regalarle un vestito. Rosetta si è fatta prendere le misure e ha selezionato il tipo di tessuto. Poi però, quando l’abito le è arrivato a casa, ha scritto stizzita alla sarta.

«Ce bbete ’stu nastru cafunescu?» si lamenta col marito guardando le finiture in oro sul punto vita e sulle maniche. «Sono cafonesche, non trovi?» Arturo l’asseconda, anche se a lui l’abito piace molto, lo trova fine, elegante; ma quando Rosetta si fissa non c’è niente che possa farla ragionare, alza il tono della voce, inveisce, e poi le viene quel brutto mal di testa che le dura per giorni e la costringe a restare sempre coricata con gli occhi chiusi.

Il 23 novembre 1927, Elena Venturoli risponde alla nonna. Allegata alla fattura di 431,50 lire per l’abito e il mantello di velluto celeste, la seta celeste della fodera dell’abito, i bottoni e le fibbie, la scatola di cartone e la spedizione, c’è una breve letterina sgrammaticata, ma estremamente lucida:

Gentilissima signora, spiacermi immensamente che a lei non abbia piaciuto l’abito e che abbia tolto la finitura che le dora la vita, il riflesso dell’oro prendeva su la tinta del velluto e dava tanto del distinto e del signorile all’abito e non del cafonesco, creda signora che quel gusto non è nato mai in me. Stia certa che indossandolo le piacerà sempre di più perché i miei modelli non sono di moda solo un anno ma due, anche tre. Se mi vuole rimandare la guarnigione del collo e delle maniche faccia pure ma le torno a dire che lei ha mutilato l’abito. Le ripeto che quando è vestita così non ha niente del cafonesco, invece è una vera e distinta signora di moda.

«È cafonesco.» Papà lo diceva sempre. Anche se questa storia è un po’ come quella della joie de vivre, non mi è mai stata del tutto chiara. Chi decideva cosa fosse o meno cafonesco? Chi stabiliva i criteri?

Per papà, era cafonesca la pasta fatta in casa, era cafonesco lo smalto sulle unghie, era cafonesco cucinare tutto il giorno per fare bella figura quando si invitavano a cena gli amici. Era cafonesco persino andare a guardare le vetrine il sabato pomeriggio quando mamma cercava di trascinarmi in centro per fare qualche compera.

La puzza sotto il naso.

Che poi ce l’ho anch’io. Storco la bocca quando vedo colori troppo accesi, tacchi troppo alti, gioielli troppo vistosi. E dico a Jacques che mi pare cafonesco mettere tutti quei gioielli: «Sembra la Madonna di Loreto, non trovi?».

E lui mi guarda male. «Smettila di essere sempre così intollerante, che ti importa di come si vestono gli altri?»