Da bambina, non capivo cosa intendesse papà quando diceva che mamma ci avrebbe rovinato. Non lo capivo, ma era a lui che davo credito. Per anni, la mia paura più grande è stata quella di assomigliare a mia madre.
Ripenso alle feste di compleanno che organizzava quando mio fratello e io eravamo piccoli: tutto era sempre fatto in casa da lei. Niente pizzette, niente tramezzini, niente patatine, a casa nostra non c’era nulla di ciò che trovavo alle feste delle mie amichette – e che desideravo tanto, quanto le invidiavo le altre bambine! A casa nostra, c’era la crostata salata con la ricotta, gli spinaci e la pasta brisée impastata da mamma, c’era il pan brioche con la mortadella e il formaggio, c’era il pan di spagna con la crema bianca e il cioccolato – «Mamma, non mi piace il liquore che metti nella torta». «Quale liquore?» «Quello rosa, pizzica.» «Non è un liquore, è l’alchermes, e quello ci vuole per forza nel pan di spagna con la crema, è così che si fa, è così che faceva mia madre, è questa la ricetta.»
Ripenso a come mi vestivo per andare a scuola. Golfini, camicie, vestiti, tutto fatto in casa. Mamma lavorava a maglia, cuciva, ricamava; passava ore seduta sul divano, mentre io facevo i compiti, oppure in cucina, dove appoggiava la stoffa sul tavolo e tagliava seguendo i modelli in carta velina. Il punto smock, le asole per i bottoni, le spalle, le maniche, il pezzo davanti: «Ho trovato un modello con le treccine, guarda che bello, pulcina». Ma io li odiavo i golfini e i vestiti fatti in casa da lei.
«E le ballerine dorate, mamma? Perché non le posso avere anch’io?»
«Sono più belle queste, tesoro!» dice mia madre mentre la commessa mi fa provare i mocassini ortopedici, quelli oppure niente, mamma non transigeva, non c’erano soldi, di scarpe se ne comprava un solo paio all’anno, e il pediatra aveva insistito: «Poco importa la marca, signora, basta che abbiano il plantare».
Volevo essere come gli altri, e mi sentivo una pezzente. A casa mia, tutto era ricucito, rattoppato, aggiustato: i bottoni dei jeans e i calzini di papà; le toppe sui gomiti dei maglioni usati e sulle ginocchia dei pantaloni rotti. Riciclare, sistemare, riutilizzare. Scotch, forbici, ago, filo, colla. Mamma non faceva altro che trafficare in casa. Nulla si buttava, nulla si sprecava. Non capivo perché si incaponisse a voler fare tutto lei. Non capivo perché dicesse sempre che non c’erano soldi. Perché non c’erano? Papà era professore universitario, no? Era lei che non guadagnava, vero? Era colpa sua.
Ripenso a quando mamma iniziò a insegnare educazione artistica alle medie. Mio fratello e io andavamo alle elementari e papà faceva il pendolare. Mamma cercava di tenere insieme tutto, ma era sempre nevrastenica. Una sera, dopo il bagnetto, Arturo stava perdendo tempo e giocava con i cotton fioc. Lei stava cucinando, ci aveva detto di sbrigarci: «Dove siete?». Quand’era venuta a controllare cosa stessimo combinando e aveva visto mio fratello che giocava, aveva iniziato a urlare; Arturo aveva avuto paura e si era coperto la testa con le braccia, dimenticando di avere un cotton fioc infilato nell’orecchio, e, spingendolo dentro, gli era uscito il sangue, allora avevo urlato anch’io: «Hai visto cosa hai fatto a chicco, mamma? Papà ha ragione, sei isterica e ci rovini!».
Nonostante insegnasse, era mia madre che ci veniva a prendere a scuola, che ci aiutava con i compiti, che faceva la spesa, che puliva e che cucinava. Faceva tutto, ma a mio padre non andava mai bene niente e, quando rientrava, dalla mia stanza sentivo le urla – «Tuo padre faceva il giro della casa per controllare che fosse tutto in ordine, ma c’era sempre qualcosa che non andava, ero terrorizzata» dice oggi mamma, «sono stati anni terribili». Ma io, all’epoca, non lo sapevo. All’epoca, pensavo che l’isterica fosse lei – perché non è come la mamma di Paola, sempre curata, sempre elegante, sempre gentile, i capelli in piega dal parrucchiere ogni settimana? Perché mamma dal parrucchiere ci va solo una volta all’anno? Sempre con la coda di cavallo, sugli occhi un blu orrendo comprato scontato all’Upim e d’estate, invece della crema solare, l’olio di oliva misto all’acqua di mare.
Ripenso a mamma che fumava, ma quando c’era papà doveva andare sul balcone, anche se fuori pioveva e faceva freddo. «Non si fuma in casa, non vedi che dai il cattivo esempio?» diceva lui, e io annuivo.
Era lui il mio modello, non mamma.
Non so perché le cose siano andate così. Molto probabilmente non lo saprò mai. Fu quando mamma venne operata di ernia del disco e mi lasciò sola per alcune settimane? Avevo soltanto un anno e mezzo: mi sentii tradita, abbandonata? Fu per vendetta? Oppure l’abbandono e la vendetta non c’entrano nulla, era una questione di geni, di sangue, di stirpe? Oppure non c’entrano nemmeno i geni e la stirpe, le cose sono andate così, punto. Volevo che papà mi vedesse, mi ascoltasse, fosse fiero di me, me lo dicesse: “Sono fiero di te”. Così. Semplicemente.
Non l’ha mai detto. Oppure sono io che non ricordo? Oppure non l’ha detto ma era fiero lo stesso, certe cose non c’è bisogno di dirle, basta lo sguardo. Ma quand’è che papà mi ha guardato con fierezza? Mi sforzo di trovare un ricordo, un gesto, una parola. E non trovo nulla. Ma è davvero così oppure sono io che non ho capito? Oppure ho capito, ma non ricordo?
Non è più solo la verità del passato che mi sfugge, è anche la mia personale verità che si sta di nuovo sbriciolando. Ogni volta che provo a mettere in fila i pezzi del puzzle della storia della mia famiglia, sprofondo all’interno di un labirinto di specchi, e la mia immagine mi torna addosso moltiplicata da un gioco di rifrazioni.
Di quei giorni di solitudine, quando avevo un anno e mezzo, non ricordo nulla, ero troppo piccola. Anche se quando mamma mi racconta la reazione che ebbi appena lei tornò a casa, ingessata dal collo al bacino, sono certa che le cose andarono così, lo sento, lo percepisco, lo rivivo.
Pare che non volli avvicinarmi. Non corsi verso di lei, non mi buttai tra le sue braccia, rimasi in piedi, immobile, in un angolo del corridoio.
«Datemi la bambina» disse mia madre. «Se mi siedo e qualcuno la prende, posso tenerla in braccio» ripeté.
Non ho alcun ricordo. Ma quando mamma dice che, una volta in braccio, non volli più staccarmi da lei, non faccio fatica a crederle. Esattamente come le credo quando mi dice che la sera, nell’attimo in cui mi mise a letto e provò ad allontanarsi, io iniziai a piangere, e lei decise allora di restarmi accanto finché non mi fossi addormentata, ma papà la chiuse a chiave in un’altra stanza, e io continuai a piangere per ore. Prima o poi avrei smesso e mi sarei calmata, sostenne. «Vuoi farle prendere una cattiva abitudine? Non le vuoi insegnare che, nella vita, ci sono delle regole e che le regole si rispettano? Vuoi viziarla? Vuoi rovinarla?»
Mia madre era insicura e piccolo borghese, mio padre lo diceva sempre e io annuivo, anche se non sapevo nemmeno cosa significasse “piccolo borghese”. Ma sentivo che mamma non aveva fiducia in se stessa, questo lo percepivo, e alla fine si faceva sempre come diceva papà, anche quando diceva e faceva cose assurde: durante i pasti non si beve, altrimenti si ingrassa; niente Tachipirina con la febbre alta, è una reazione salutare dell’organismo.
Cosa cercavo di ottenere da mio padre?
Forse il problema sta nella domanda. Dovrei smettere di pormela, metterla tra parentesi, sospendere il giudizio. Rifiutarne la stessa formulazione.
Ogni risposta sarebbe rigida o parziale. Più dannosa che utile.
Perché insisto a cercare di cogliere la verità come se ne esistesse una sola?