Ho la coscienza a posto, mi dico nonostante l’angoscia. Ho bisogno di aggrapparmi a qualcosa, altrimenti crolla tutto. Crolla quello in cui ho creduto sin da bambina, la certezza granitica di essere sempre stata dalla parte giusta della storia, il mio piccolo universo buonista.
Ho la coscienza a posto. Me lo ripeto ricordandomi che a casa mia si è sempre parlato della Shoah, anche se il termine utilizzato era “Olocausto” – solo quando sono arrivata in Francia ho capito che era un errore, lo sterminio degli ebrei non era stato un “sacrificio inevitabile”; era stato un dramma, una catastrofe, dice letteralmente la parola shoah. Ne ero venuta a conoscenza attraverso una serie televisiva intitolata Olocausto, trasmessa per la prima volta in televisione un anno dopo la messa in onda di Radici. Tra i sette e gli otto anni, ho imparato che i bianchi avevano ridotto i neri in schiavitù; ho appreso che i nazisti avevano voluto sterminare gli ebrei; ho scoperto fin dove possono spingersi la cattiveria e la follia umane. Ho capito che gli uomini non sono solo capaci di compiere l’irreparabile, ma anche di cercare assurde e inaccettabili giustificazioni, di chiudere gli occhi, di pensare ad altro.
Papà aveva voluto che mio fratello e io guardassimo quei film e ci rendessimo conto dei drammi della storia. «Devono sapere cos’è successo, Paola!» aveva spiegato a mia madre, che era perplessa.
«Sono ancora troppo piccoli, sei sicuro che sia il momento giusto, Ferruccio?»
«I bambini devono crescere consapevoli del male e della sofferenza» aveva insistito lui. «Altrimenti come faranno a distinguere il bene dal male, quando saranno grandi?»
Ho la coscienza a posto: dopo aver visto Olocausto, ho letto il Diario di Anna Frank e Se questo è un uomo di Primo Levi, entrambi pubblicati nella collana Einaudi “Letture per la scuola media”. Li leggevo tutti, i libri di quella collana, via via che uscivano. Mettevo da parte i soldi per la merenda e andavo poi a rifornirmi nella cartolibreria all’angolo tra piazza della Balduina e viale delle Medaglie d’Oro. Nella mia camera da letto, sono diventata socialista, antifascista, resistente. La storia dell’Italia era stata buia, ma papà mi aveva insegnato a essere di sinistra e partigiana: partigiani si nasce e si resta tutta la vita, non è così che si dice oggi?
Ero dalla parte buona della storia, sarei stata sempre all’altezza degli ideali di papà e della mia famiglia. Continuo a ripetermelo, ho bisogno di rassicurarmi. Anch’io sono nata resistente e partigiana. Ma ho davvero la coscienza a posto oppure sto solo cercando di difendermi e perdonarmi?
“Lo scandalo del perdono e la follia dell’amore hanno questo in comune: non si ama o non si perdona perché” scrive il filosofo francese Vladimir Jankélévitch. “Nessuno dei due atti si cura di giustificare se stesso e di dare le sue ragioni, perché ragioni non ha.”
Ma allora, partigiani e resistenti, si nasce o lo si diventa? Sono caratteristiche innate che si ereditano dai nonni e dai padri oppure si acquisiscono pian piano, scegliendo di non seguire il mondo come va e di opporsi al conformismo stupido e omologante dell’epoca in cui si vive?