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Qual è esattamente il conto che mi tocca pagare? Comincio a mettere tutto in fila, e mi trovo di fronte a una lunga lista di responsabilità e debiti, un’eredità completamente diversa da quella che immaginavo.

Ormai non posso più negarne l’esistenza. Sono io che ho intrapreso questo viaggio e sono io, adesso, che devo portarlo a termine.

Ma come faccio a rielaborare il mio passato se faccio fatica persino a respirare?

Sono esausta. Ogni cosa mi pesa, mi sembra impossibile anche solo andare a fare lezione in università. Ormai sono giorni che va avanti così. E, quando la sera torno a casa, ho la testa che scoppia. Non metto a posto, non faccio la spesa, non mi occupo più di alcuna pratica. E siccome Jacques, per queste cose, si è sempre appoggiato a me, va tutto alla deriva.

Jacques lo sa che è il libro. Dice che non c’è nessuno che mi imponga di scrivere la storia della mia famiglia. Dice: «Non trasformare la scrittura in una prigione». Dice: «Non la capisco proprio questa tua retorica sulla ricerca delle radici, non siamo piante, no? Vivi da vent’anni a Parigi, che bisogno c’è, adesso, di rivangare il passato?».

Ormai comincio a pensare che abbia ragione lui. Ma allora perché insisto a scavare?

Di notte mi sveglio in preda al panico, passo da un incubo all’altro. La maggior parte dei sogni svanisce all’alba, senza lasciare traccia, senza permettermi nemmeno di aggrapparmi a un’immagine o a una parola da interpretare.

L’eredità familiare ce la portiamo dentro. Siamo il frutto di una storia che viene tramandata di generazione in generazione, che persiste e vive in ognuno di noi e che, pure quando molti ricordi sono inaccessibili, ci plasma, influenza modi di essere e di fare, si sedimenta persino nel linguaggio, nel nostro modo singolare di nominare le cose.

«Be’, me lo vuoi dire adesso che cos’è che hai sognato?» Jacques non ne può più di vedermi col muso, da stamane.

Alla fine, cedo. «Sono dal medico, devo fare delle analisi e c’è da scegliere un cerotto speciale da mettere sulla schiena per capire se sono o meno positiva al test, se sono anch’io allergica al nichel come mia madre.» Anche se mi vergogno, mi vergogno tantissimo. «Il dottore tentenna, dice di essere incerto sul tipo di cerotto da utilizzare. “Bisogna rispettare il colore esatto della pelle” dice, “se non si segue il polimorfismo del DNA c’è il rischio di un rigetto, vedo che lei ha una pigmentazione scura, ha origini africane?”»

«In che senso?» chiede Jacques.

«E io che ne so? Infatti, è proprio questa la domanda che faccio al medico nel sogno. Lui però non mi risponde e convoca mamma. Poi mi fa di nuovo entrare nel suo studio e mi dice: “Sua madre è caucasica, non ci sono dubbi. Io però con lei non posso utilizzare un cerotto caucasico. In realtà, sua madre non è sua madre”. Ti rendi conto, Jacques?»

«Va be’, dài, è solo un sogno, non significa nulla. Ora non stare a tormentarti!»

«No, aspetta, devo raccontarti la fine, è quella che è terribile! Il medico, dopo avermi detto che mamma non è mia madre, aggiunge: “Mi dispiace dirglielo così, potrà sembrarle brutale, ma prima o poi dovrà farsene una ragione: lei non è della stessa razza di sua madre”. Ha detto proprio così, Jacques, te lo giuro. Ha detto che non ero della stessa razza di mamma.»